mercoledì 4 maggio 2011

"Così il gioco accende la parte migliore di noi"

[La Stampa 04/05/2011]MILANO
Concentrati, reattivi, generosi, creativi, capaci di ricominciare dopo una sconfitta: così siamo quando giochiamo. Ma allora perché nella vita reale siamo distratti, apatici, egoisti, banali, depressi? «Perché il mondo non è progettato per renderci felici, i giochi sì», risponde Jane McGonigal, game designer e ricercatrice all’Istituto per il Futuro di Palo Alto, ieri a Milano per il ciclo di incontri «Meet The Media Guru».
Nel suo ultimo libro «La Realtà in gioco» (Apogeo, pp. 416, euro 24), sostiene che i giochi possono aiutarci a immaginare il futuro (e cita l’esempio del suo «A World without Oil», dove bisogna sopravvivere in un mondo senza petrolio), ma anche a scrivere un libro, curare scompensi psichici, inventare mondi diversi. E salvarci la vita: già Erodoto raccontava come gli antichi abitanti della Lidia riuscirono a sopravvivere alla carestia alternando un giorno di gioco ai dadi, senza mangiare, e uno di attività normale.

Cominciamo dall’inizio: cos’è un gioco?
«Un gioco - non solo un videogame - deve avere un obiettivo, delle regole, un sistema di feedback e la partecipazione dev’essere volontaria».

I partecipanti a World Of Warcraft finora hanno trascorso circa 5,93 milioni di anni giocando online: più di quanto abbia impiegato l’uomo a evolversi come specie. Perché secondo lei?
«Perché cerchiamo tutti di migliorarci, di essere occupati e realizzare qualcosa, e in World Of Warcraft c’è sempre un compito che ci aspetta per crescere, da soli o con gli altri».

Ma come può un gioco cambiare la vita reale?
«Un esempio: Nike Plus permette di creare un avatar online che rappresenta il nostro stato di salute. Se facciamo jogging, un sensore comunicherà i dati al sistema e l’avatar sarà allegro e in forma, altrimenti ingrasserà e sarà triste. Si accumularano punti solo con l’esercizio fisico vero, quindi per andare avanti nel gioco siamo costretti a curare la nostra forma: il gioco è virtuale, ma il benessere è reale».

E Facebook è un gioco?
«Del gioco ha alcuni aspetti, come il feedback: il sistema reagisce in tempo reale alle nostre azioni, come postare un link o una foto, e il punteggio è dato dagli amici che cliccano sul pulsante “Like”. Ma tra i social network, certamente Foursquare è più simile a un gioco: ci sono livelli, obiettivi, feedback. E ora, oltre a registrarsi in un luogo, si possono accumulare punti anche realizzando dei compiti, come dimagrire o smettere di fumare».

Grafica, strategia, coinvolgimento: cosa serve per fare un buon videogame?
«Far nascere emozioni, creare sfide coinvolgenti, epiche. Grafica ed effetti speciali servono a creare stupore, come nell’arte. Questo stupore ci fa sentire parte di qualcosa di grande, ci spinge a condividere esperienze e collaborare per raggiungere un obiettivo. Più la tecnologia avanza, più i giochi accentuano l’aspetto sociale, come si vede con i videogame per telefonini».

Non è meglio comunicare dal vivo anziché tramite un gadget?
«I giochi possono aiutare a superare la distanza e il fuso orario, ma anche le gerarchie o la spersonalizzazione dei rapporti lavorativi. Un’azienda americana ha introdotto un piccolo videogame in cui, all’avvio del computer, ogni dipendente deve identificare il collega di cui appare l’immagine: così guadagna punti e ottiene premi. Sono migliorati i rapporti umani e la produttività: ora ognuno conosce i rispettivi ruoli e sa a chi rivolgersi per sviluppare un’idea o segnalare qualcosa che non va».

Che differenza c’è tra un giocatore incallito e uno che ogni tanto si concede una partita ad «Angry Birds»?
«Le emozioni sono le stesse, entrambi cercano lo stress positivo del gioco. E’ la sfida che appassiona, come dimostra anche il lungo successo di “Tetris”, dove vincere è impossibile».

Lei parla di emozioni positive, ma esistono anche giochi violenti o angoscianti, come «Heavy Rain».
«Vero, “Heavy Rain” è un gioco che fa paura e mette a disagio. Ma ha un interessante effetto collaterale: permette di controllare gli incubi. Una ricerca canadese ha mostrato che molti giocatori riescono a vedersi in terza persona, attribuendo le emozioni negative al protagonista del sogno, come fosse un videogame: così si curano ansietà e disordini post traumatici».

Vivremo in un gioco, dunque?
«Per fortuna siamo ancora liberi di scegliere. E senza libertà il gioco non può esistere».
BRUNO RUFFILLI

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