giovedì 19 agosto 2010

La storia di Internet in un'immagine

[Vita digitale - Corriere.it 19/08/2010] Dalla ArpaNet al traffico mobile, una sintesi creata da Online MBA. Qualche buco, ma molte curiosità interessanti.

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Ci vediamo il film o la partita? L'appuntamento è sul web

[La Reubblica 19/08/2010]

Cresce l'interazione tra il piccolo schermo e i siti di networking. Sempre più spesso la visione sarà un'esperienza collettiva. L'idea è riportare la televisione ai tempi in cui ci si incontrava per vederla di GIULIA BELARDELLI

I POPCORN, le caramelle e una stecca di cioccolato, nel caso la love story dovesse finire male. Silenzio assoluto, Jenny è pronta per l'inizio del suo telefilm preferito. Il televisore è collegato al computer, sintonizzato su Qlipso.com 1. Con pochi click verifica quante delle sue amiche stanno seguendo lo stesso rituale. "Bene, non siamo sole", commenta soddisfatta mentre si appollaia a gambe incrociate sul divano. Di lì a poco inizierà a chattare, parlare a voce e collegarsi in video con la sua "community" (altre teenager americane che vivono da un capo all'altro degli Stati Uniti). Potrà addirittura interagirci via avatar, nel caso tutto il resto le non dovesse bastare. Signori e signore, siamo di fronte al modo in cui, secondo alcuni, si vedrà la televisione nel futuro. Un'esperienza sociale che, nelle intenzioni di chi ci sta puntando, dovrebbe ricalcare i sentimenti di quando, più di mezzo secolo fa, la gente usciva per andare nei bar o nelle case dei vicini che se la passavano meglio per vedere un po' di "scatola magica".

Verso la "social vision". La stessa scena potrebbe ripetersi con una partita di football (ebbene sì, ci si scambia "il cinque" anche così) o per un canale di approfondimento (come la Newsroom della Cnn): persone distanti fisicamente che si ritrovano in rete per condividere la visione di un video sul web o, come nel caso di Jenny, sulla cara vecchia televisione. Il settore, ancora relativamente nuovo, è quello dei social network e delle applicazioni dedicate all'intrattenimento, in particolare nella sua forma video. Negli Usa il fenomeno sta crescendo rapidamente, al punto che numerosi blog e giornali specializzati hanno annunciato l'inizio di una nuova era: quella della "social vision". La rivista Technology Review del Massachusetts Institute of Technology, ad esempio, ha inserito la social tv nella lista delle dieci tecnologie emergenti più rilevanti del 2010, al fianco di innovazioni come il cloud computing, l'elettronica impiantabile e le cellule staminali pluripotenti indotte.

Il canale di Facebook. A far intravedere agli addetti al settore le potenzialità di questo approccio è stato il successo della condivisione di video sul social network per eccellenza. E l'abitudine di molti utenti ad aggiornare il loro status, qui come su Twitter, con una sorta di "telecronaca" dei propri consumi mediatici. Del tipo: "Sto vedendo l'ultimo film di Woody Allen", piuttosto che "Grande documentario sull'heavy metal su American Music Channel". Lo stesso gigante di Palo Alto è interessato al concetto di web-social-tv, come ha dimostrato con il lancio la settimana scorsa di Facebook Live 2, primo canale in streaming dell'azienda. Al momento l'applicazione, simile ad altre piattaforme video con messaggerie integrate, è ancora scarna e dedita esclusivamente alle comunicazioni interne al social network, con la possibilità per gli utenti di discutere sui contenuti (non sono mancati i commenti pungenti: "Avete bisogno di persone creative?", o un più diretto "A cosa serve?"). Al di là delle critiche, tuttavia, il canale è rappresentativo di quanto il mercato dei social media e quello dei video on e offline stiano cercando sempre più spesso dei punti di contatto.

Un film in compagnia. Una delle piattaforme che meglio rendono l'idea di cosa potrebbe accadere in futuro è Qlipso.com, opera dell'omonima startup israelo-americana. Il sito è cresciuto notevolmente dall'aprile scorso, quando ha acquistato Veoh 3, servizio di tv via internet che fa concorrenza a YouTube. Il sito consente di selezionare un video (film o show televisivo che sia) e invitare i propri amici a vederlo insieme in una sorta di stanza virtuale. Gli invitati possono essere scelti dai propri contatti sui social network, da Facebook a Twitter, da MySpace a Digg. Una volta creato il gruppo (come nel caso di Jenny e le sue amiche) la visione ha inizio, e con essa l'incontro virtuale degli spettatori. Il livello di interazione può variare da una semplice chat tra avatar a un filo audio diretto e continuo, per una pioggia più o meno intensa di commenti, risate o singhiozzi collettivi nel caso di film drammatici. Volendo ci si può spingere oltre attivando la funzione di videoconferenza: nella parte bassa dello schermo, accanto al video principale, appariranno le facce degli amici, così che anche le loro espressioni non abbiano più segreti. Lo sberleffo, poi, è totale se qualcuno viene pizzicato con la palpebra calante: un lusso non concesso a chi pratica la social tv.

Il cineforum virtuale. Come nella vita reale, a completare il rito della visione c'è tutta la fase del pre e del post. Quale film merita davvero? E qual è l'opinione di amici ed esperti sull'ultimo serial in uscita? Le risposte, in questo caso, vengono da una serie di applicazioni web disponibili anche sugli smartphone. GetGlue 4, ad esempio, promette di aiutarti a scoprire cosa potrebbe piacerti rovistando tra i gusti e le scelte tue e dei tuoi contatti. A questa dimensione la social tv aggiunge la possibilità del collegamento in contemporanea con amici o perfetti sconosciuti, tutti però sintonizzati sullo stesso canale. Commenti in diretta - per ora solo via chat - sono disponibili tramite servizi come Tunerfish 5, Philo 6e Miso 7. Aggiornando il proprio status, si riesce a sapere non solo chi dei propri conoscenti sta vedendo la stessa cosa, ma anche chi nel mondo ha gusti più o meno simili.

Come allo stadio, o quasi. I fan della social tv non hanno dubbi su quale sarà il settore destinato a rivoluzionare l'esperienza del video: lo sport. Negli Stati Uniti un esempio è Fanvibe.com 8, aggregatore di fan degli sport più vari, dal football americano al calcio, dal baseball alla pallacanestro. Il sito consente di fare il check-in a ogni partita a cui si è interessati, per poi entrare in contatto via chat con tutti i "presenti" allo stadio virtuale. E se la chat può non soddisfare i tifosi più calienti, per loro c'è Sofanatics 9 (un'idea finlandese nata con le ultime Olimpiadi invernali), piattaforma a metà strada tra social network e social tv. Previa registrazione, il sito permette di affiliarsi alla squadra del cuore, anche qui spaziando in un'ampia rosa di discipline. Per godere al massimo dell'esperienza online il requisito è che il team abbia raggiunto i mille fan: a quel punto la ola si alza e si ha la possibilità di vedere la partita in collegamento video con i propri amici. Uno scenario che se da un lato promette di ricreare almeno in parte l'atmosfera di un match in compagnia, dall'altro non potrà mai eguagliare la gioia di un abbraccio dopo un goal, magari in zona Cesarini.

Wired: "Il web è morto" Il dibattito infiamma la rete

[La Repubblica 19/08/2010]

La prestigiosa rivista americana osserva l'evoluzione del mondo digitale ed emette la sua sentenza: le app - più funzionali, ordinate e spesso a pagamento - stanno scalzando la navigazione tradizione via browser per sua natura caotica creativa e gratuita. Così cambiano gli scenari di MAURO MUNAFO'

WIRED ha emesso la sua sentenza: "il web è morto". La rivista americana, la più importante del panorama digitale statunitense e mondiale, ha lanciato questa provocazione con la copertina di settembre, affidando a due lunghi articoli del direttore Chris Anderson e dell'editorialista Michael Wolff la spiegazione dell'impegnativa epigrafe (qui l'articolo originale in inglese 1). Mentre l'uso di internet continua a crescere, il web che tutti navighiamo con i browser diventa sempre meno rilevante - spiega Wired - scalzato da nuovi metodi di fruizione della rete come le onnipresenti "app" che hanno colonizzato gli smartphone e i tablet. L'era di internet vissuta attraverso i browser (i programmi che servono a visualizzare le pagine html come Internet Explorer o Firefox), caotica, creativa, gratuita e un po' anarchica lascia quindi il posto al mondo delle applicazioni, più ordinate e funzionali ma che devono essere approvate da qualcuno, scaricate dopo una registrazione e, spesso, pagate.

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Oltre il titolo. Per affermare che il web è morto Anderson si basa su alcuni dati statistici, a cui affianca delle considerazioni personali. Secondo i grafici dell'azienda Cisco, il consumo di banda derivato dal web è, in proporzione, in costante calo rispetto ad altri protocolli. Nel 2010 la banda usata per il web si limita al 23% di quella complessiva, proprio quanto quella del peer to peer (usato dai Torrent, da Emule e da molti altri): a farla da padrone è invece il video che "pesa" per oltre il 50%.

Da questi numeri deve quindi partire una riflessione, o una presa di coscienza, che il web è in realtà solo una piccola porzione di internet e che le due cose (internet e web) devono essere percepite come realtà separate. La vera rivoluzione dei nostri tempi è la struttura di internet, su cui è stato realizzato il web che rappresenta però solo un punto dell'evoluzione del mondo digitale e non la sua conclusione o l'unica via disponibile.

Spostando lo sguardo al futuro il destino del web sembra poi già scritto, con l'accesso ad internet via cellulare che sorpasserà quello via desktop e la crescente diffusione di piattaforme alternative ai computer: tablet come l'iPad, ebook reader come il Kindle, console di videogiochi con i loro sistemi di connessione ad hoc (Xbox Live, PlayStation Network), multimedia center da agganciare al televisore nel salotto. Tutti strumenti collegati ad internet e anche al web, ma che mettono quest'ultimo in un angolo preferendogli altre vie meglio ottimizzate. Le residue speranze del web di non essere travolto sono riposte nell'Html 5 che aumenta le possibili interazioni con un sito e potrebbe colmare almeno in parte la distanza con il mondo delle applicazioni.

Chi ha ucciso il web? Quando c'è un morto c'è anche una causa dietro. Nel determinare l'assassino di questa storia Anderson e Wolff prendono via diverse. Il primo indica l'utente e l'uomo più in generale, che per sua stessa natura finisce per preferire la comodità di un'applicazione a portata di dito rispetto alla navigazione "vecchio stile". Se fino a qualche anno fa pagare per dei servizi su internet sembrava una follia, adesso la qualità del servizio viene riconosciuta come importante da una crescente fetta di pubblico. Poco importa se questa passa dal web: un euro per una canzone su iTunes vale la spesa rispetto al download (gratuito ma illegale) di un mp3 da qualche servizio peer to peer che richiede più tempo o concentrazione.

Secondo Wolff invece la "colpa" della morte del web è in realtà la rivincita dei creatori di contenuto: aziende editoriali, case discografiche e cinematografiche, software house. Dopo 18 anni in cui l'unico modello di business possibile è stata la vendita di pubblicità, adesso si è aperto un altro fronte più remunerativo. Capito che scalzare il dominio di Google sul web era impossibile, si è lavorato a creare un internet alternativo, fatto di "walled garden" (cioè di siti chiusi, non accessibili a tutti). I due protagonisti di questo scenario sono Steve Jobs e Mark Zuckerberg, fondatori di Apple e Facebook, leader di aziende tecnologiche che si comportano però come media tradizionali. Al posto della struttura "alla Google", in cui l'utente con una ricerca viaggia tra siti diversi, tornano in auge i recinti in cui si può fare tutto senza cambiare pagina o programma: Facebook porta i link all'utente e per molti navigatori è ormai esso stesso sinonimo di rete; iTunes e l'AppStore di Apple permettono di acquistare contenuti per i propri dispositivi da un unico negozio e senza dovere (né potere) guardare altrove.

Le critiche. Con un titolo del genere, non potevano che scatenarsi reazioni violente. Dopo la pubblicazione degli articoli di Wired, non c'è testata di tecnologia o blogger del settore (anche in Italia) che non sia impegnato a contestare l'affermazione di Anderson. Una parte rilevante delle critiche si basa sui dati usati per giustificare la morte del web: i grafici di Cisco, come nota BoingBoing 3, indicano infatti la percentuale di traffico sul totale, portando in errore i lettori meno attenti. Il "consumo" di web non è in calo, anzi è cresciuto a dismisura: l'unica differenza è che altri protocolli, spesso ospitati dentro le pagine web (si pensi ai video di YouTube) sono cresciuti di più. Un altro elemento messo in risalto dai critici è la scelta del consumo di banda come parametro per dire che il web è morto: l'articolo di un giornale online pesa centinaia di volte meno di un video, ma questo non significa che la gente impieghi più tempo sui video che su quell'articolo.

Altra critica interessante è rivolta al messaggio che l'articolo veicola. Lo scritto di Anderson ad esempio prende la morte del web come un fatto naturale e per cui non c'è bisogno di preoccuparsi troppo: quello che arriverà dopo lo ameremo lo stesso, anche perché le novità riguarderanno più il mondo commerciale (quello cioè che muove il denaro) e non la piattaforma di gratuità e impegno volontario che ha reso la rete ciò che oggi è. Una posizione che ha sorpreso molti, considerato che Wired ha sempre sostenuto i dettami del web libero, e che sembra una resa nei confronti degli interessi industriali visti sempre con sospetto dai pionieri del web. Nel passaggio al nuovo paradigma inoltre, come contesta Gizmodo 4, sembra che la rivista si sia dimenticata dei problemi veri di internet, legati più alle nuove definizioni di net neutrality (si veda il caso Google-Verizon 5) che al boom delle applicazioni per iPhone.

Il dibattito. La copertina di Wired e il suo titolo urlato erano attesi da alcune settimane, anticipati da una furba campagna di marketing che potesse creare interesse intorno alla vicenda. Il dibattito che la rivista voleva generare si è scatenato e permette di vedere quante idee diverse ci sono in giro sull'evoluzione di internet. I fatalisti della fine del web contro i convinti difensori della situazione attuale, i tifosi dei browser contro i sostenitori delle app, quelli preoccupati per la net neutrality e gli standard aperti e condivisi contro quelli che vogliono solo vedere YouTube senza aspettare caricamenti infiniti. Le squadre e le argomentazioni che si stanno confrontando sono molteplici: il web non è (ancora?) morto.

Google, l'autodifesa del GF "Non vi spiamo, ecco perché"

[La Repubblica 19/08/2010] vertici dell'azienda Usa rispondono all'inchiesta di Repubblica di venerdì. Per voce del capo dello staff per la difesa della privacy di ALMA WHITTEN

Google, l'autodifesa del GF "Non vi spiamo, ecco perché"

L'evoluzione di Internet pone una serie di quesiti importanti relativi alla privacy. La scorsa settimana La Repubblica ha pubblicato un'inchiesta su questo tema 1 e abbiamo pensato che fosse importante intervenire per far sapere a tutti i lettori quanto Google prenda seriamente il tema della privacy. Posso testimoniarlo personalmente, dato che in questa azienda sono responsabile di un team dedicato a sviluppare e migliorare strumenti tecnologici per tutelare la privacy, instaurare un rapporto aperto con i nostri utenti e metterli in condizione di controllare direttamente le loro informazioni.

Quando effettuate una qualunque ricerca sul nostro motore senza aver precedentemente effettuato login, Google è in grado di raccogliere numerose informazioni ma il nostro obiettivo non è quello di identificarvi. Come molti altri motori di ricerca fanno al fine di fornire il miglior servizio possibile, anche Google conserva dei file di log che indicano le interazioni con i nostri server attraverso informazioni come: l'indirizzo IP del computer o del network di computer da dove è stata effettuata la ricerca, il browser utilizzato, la chiave di ricerca immessa, ora e giorno della ricerca, il sistema operativo del computer utilizzato e il codice identificativo del cookie. Il cookie è semplicemente un file che viene salvato sul vostro computer e che memorizza le vostre preferenze nell'utilizzo del nostro sito: il fatto che volete i risultati di ricerca in italiano e non più di 10 per pagina, ad esempio. Quello che un cookie non ci dice sono invece le vostre informazioni personali: chi siete, dove vivete, il vostro numero di telefono.

Google utilizza le informazioni fornite nei file di log per migliorare la qualità dei propri risultati di ricerca, non per stilare profili delle persone. Nonstante ciò e per proteggere ulteriormente la vostra privacy, abbiamo deciso di cancellare una parte degli indirizzi IP e i codici dei cookies che sono stati salvati nei nostri file di log per più di 18 mesi. Questo riguarda chi naviga su Google o utilizza i nostri servizi senza aver effettuato attività di login tramite un Account Google, poiché in questo secondo caso il livello di informazioni é un altro ancora. L'account Google è infatti associato ad un nome ma si tratta unicamente del nome che voi avete deciso di attribuirgli personalmente ed è l'unico contesto in cui possiamo esserne a conoscenza.

Tuttavia, anche in questo caso, abbiamo deciso di essere trasparenti e permettervi di controllare le informazioni associate al vostro account attraverso un apposito strumento: Google Dashboard (google. com/dashboard). Per chi come noi lavora in ambito tecnologico, la trasparenza è un principio fondamentale. Senza trasparenza non avremmo la vostra fiducia e di conseguenza la possibilità di portare avanti i nostri progetti. Google Dashboard consente dunque a chiunque abbia un account Google di verificare direttamente tutte le informazioni relative a quell'account e al contempo accedere ai link necessari per modificare le singole impostazioni di privacy, controllando direttamente i servizi Google utilizzati tramite login.

Questi principi di trasparenze e libertà valgono per ciascuno dei prodotti e servizi che sviluppiamo, anche quelli adottati da terze parti come ad esempio Google Analytics. Analytics è un programma che fornisce ai responsabili dei siti informazioni sugli utenti che accedono ai loro contenuti al fine di migliorarne l'uso. Si tratta di dati aggregati e anonimi (ad esempio, il numero di visitatori al sito o i clic raccolti da determinate pagine) che però non possono identificare chi accede ai vari siti.

Anche qualora sia l'utente stesso ad inserire i propri dati personali nel sito, registrandosi a dei servizi che chiedono di esplicitare il proprio nome e cognome, queste informazioni non vengono raccolte dal programma. Lo scorso maggio, inoltre, abbiamo annunciato la possibilità per gli utenti che non intendono partecipare, anche se in forma anonima, alla raccolta di questi dati di effettuare un opt-out definitivo direttamente dal loro browser attraverso l'installazione di un apposito plugin.

Come molti sapranno, la possibilità di fornire a tutti servizi gratuiti come il motore di ricerca e gli altri prodotti del nostro portafoglio, così come investire risorse per il loro miglioramento, è soggetta all'attività di pubblicità online che rappresenta la nostra principale fonte di introiti. Anche in questo caso cerchiamo costantemente di migliorare i nostri servizi per fornire a quante più persone annunci utili ma lo facciamo nel pieno rispetto della trasparenza e della libertà di scelta di ciascuno.

Un esempio concreto è il recente lancio del servizio di pubblicità basata sugli interessi e che consente a persone che navigano su siti partner del programma AdSense di Google di visualizzare annunci relativi a categorie merceologiche di loro interesse. Quando visitate un sito che mostra annunci pubblicitari provenienti dal programma AdSense di Google, Google associa al vostro browser un cookie la cui funzione é ricordare le visite effettuate. Così, se per esempio da quello specifico browser accedete spesso a siti di cucina, Google assocerà quel browser alla categoria merceologica "prodotti e servizi per cucinare" e di conseguenza mostrerà per lo più annunci pubblicitari relativi a questo interesse. Ci tengo a sottolineare il servizio di pubblicità basata sugli interessi si avvale di un cookie a parte, che non è associato in alcun modo agli account Google o ai file di log relativi alle ricerche effettuate sul nostro motore. Inoltre, sebbene questo ambito pubblicitario fosse già diffuso da anni, abbiamo deciso di entrarci solo a partire dal 2009 quando abbiamo avuto la certezza di poter mantenere fede ai nostri principi fornendo agli utenti appositi strumenti per la tutela della loro privacy.

Per questo abbiamo sviluppato il servizio assieme ad una serie di strumenti atti a tutelare la privacy di ciascuno di voi, primo tra tutti il pannello di controllo per la gestione delle preferenze degli annunci (www. google. com/ads/preferences). Attraverso questo sito, accessibile anche dal link privacy posto sulla home page di Google e dal nostro centro privacy, é possibilità verificare le categorie associate al proprio browser, rimuovere quelle di minore interesse e aggiungerne di nuove. È inoltre possibile vedere chiaramente il cookie associato al proprio browser e scaricare il plugin per disattivare per sempre il servizio di pubblicità basata sugli interessi. Ma ci tengo a chiarire che non esiste alcuna associazione relativa ad informazioni di natura sensibile, da quelle sanitarie alle preferenze religiose, politiche o sessuali. Non raccogliamo queste informazioni per fini pubblicitari, né effettuiamo alcun attività di correlazione dei dati rispetto alle identità dei nostri utenti.

martedì 17 agosto 2010

Il web è morto, dice Wired

[Il Post 17/08/2010]
Il nostro modo di utilizzare internet è cambiato, scrive Anderson, e facciamo sempre più a meno del web
Secondo Wolff le responsabilità sono più degli investitori, che da anni puntano solo su siti di grandi dimensioni

Il numero dell’edizione americana di Wired di questo mese porta sulla copertina un’asserzione impegnativa e definitiva: il web è morto. La tesi muove da un dato che si trova riassunto nel grafico qui sotto: da dieci anni a questa parte la percentuale di banda impegnata dalla navigazione su internet è crollata, mentre è di molto aumentata quella utilizzata dalla fruizione di video, dai programmi per la condivisione di file, da tutte le altre cose che non sono il web.

La tesi è particolarmente ardita, e il grafico di Wired non è così eloquente: basti osservare alla curiosa decisione di separare il traffico generato dai video da quello delle pagine internet, quando in realtà quei video sono parte integrante di quelle pagine e del web. BoingBoing fornisce dei dati che dicono tutt’altra cosa: il traffico sul web è passato da 10 terabyte al mese nel 1995 a un milione di terabyte nel 2006. Insomma: gode di ottima salute.

Quindi il nostro suggerimento è lasciare perdere il titolo dell’articolo di Wired e la sua tesi, ma leggere comunque con attenzione le varie voci che discutono del tema sul mensile statunitense: dicono molto di come sta cambiando internet e il nostro modo di utilizzarla e abitarla.

Wired propone innanzitutto due punti di vista differenti sul tema, uno firmato dal direttore Chris Anderson e l’altro firmato da Michael Wolff, editorialista di Vanity Fair e fondatore di Newser. Non si dividono sul tema della presunta morte del web, bensì sulle sue cause e su chi ne ha le colpe. Chris Anderson sostiene, in breve, che la colpa è nostra.

Ti svegli e controlli la posta sull’iPad, con un’applicazione. Mentre fai colazione ti fai un giro su Facebook, su Twitter e sul New York Times, e sono altre tre applicazioni. Mentre vai in ufficio, ascolti un podcast dal tuo smartphone. Un’altra applicazione. Al lavoro, leggi i feed RSS e parli con i tuoi contatti su Skype. Altre applicazioni. Alla fine della giornata, quando sei di nuovo a casa, ascolti musica su Pandora, giochi con la Xbox, guardi un film in streaming su Netflix. Hai passato l’intera giornata su internet, ma non sul web. E non sei il solo.

È una distinzione cruciale, dice Anderson, secondo cui una delle più importante svolte nel mondo digitale è stata proprio quella dal mondo spalancato del web a piattaforme chiuse o semi chiuse che usano internet soltanto come mezzo per trasportare i dati. C’entra l’ascesa dell’iPhone, ma c’entra soprattutto il fatto che questo genere di piattaforme sono più semplici da usare e si adattano meglio alle vite e alle abitudini delle persone.

E in realtà, a pensarci bene, perché non dovrebbe essere così? Perché l’ascesa e il predominio del web dovrebbero essere eterni e impossibili da mettere in discussione? Anderson scrive che già nel 1997 Wired scrisse che la tecnologia push – che permette di far arrivare i dati direttamente a te, senza costringere ad andare te da loro – avrebbe messo fine ai browser: in realtà questo argomento potrebbe essere usato contro Wired, visto che i browser sono ancora vivi e in piena salute. Ma Anderson rivendica che è adesso che quella profezia si sta avverando: continueremo ad avere pagine internet, così come oggi continuiamo ad avere cartoline e telegrammi. Ma il centro dei media interattivi non sarà più basato sul linguaggio HTML, per farla breve.

Michael Wolff racconta un’altra storia. Racconta dei venture capitalists, i soggetti che investono il loro denaro in molti piccoli e innovativi progetti nella speranza che qualcuno di questi faccia il botto e li ripaghi di tutti i soldi spesi – e con gli interessi. Il loro stesso comportamento è un po’ il ritratto del web: molto orizzontale, poco profondo. Ultimamente però la tendenza si è invertita. I grossi finanziatori e gruppi d’interesse puntano su meno soggetti e di maggiori dimensioni. Un modello strategico del tutto diverso: invece che puntare su venti social network, per fare un esempio, puntare solo su Facebook. Che è un sito internet, ma con i suoi 500 milioni di utenti è molto più di un sito internet. Secondo un rapporto della società di analisi Compete, i primi dieci siti più visitati negli Stati Uniti producevano il 31 per cento el traffico totale nel 2001, il 40 per cento nel 2006, il 75 per cento nel 2010. I grandi stanno prosciugando i piccoli.

Se stiamo abbandonando la logica del web aperto e orizzontale, è almeno in parte per l’ascesa degli uomini d’affari, che pensano quasi esclusivamente in termini di tutto o niente: molto più simili alle logiche verticali dei media tradizionali piuttosto che a quelle utopiche e collettivistiche del web. Si tratta del risultato di un’idea ben precisa, che rigetta l’etica del web, la sua tecnologia e i suoi modelli di business.

Wired propone anche un lungo scambio di email tra il direttore Chris Anderson e due esperti di web 2.0. Gizmodo ha già commentato la tesi di Wired, la stessa cosa ha fatto Techcrunch: entrambi con qualche perplessità. Parliamone, insomma.

sabato 14 agosto 2010

C'è Narciso su Facebook

[Avvenire 14/08/2010] Dilettanti allo sbaraglio lungo le vie del web o esperti di nuovi media competenti e capaci di cavalcare le onde del mare magnum dei bit. Il futuro del rapporto persona-personal computer ha questa doppia faccia anche quando il Web 2.0 si trasformerà in 3.0, 4.0 e così via. Per il New York Times il 50% dei blogger scrive con l’unico scopo di raccontare e condividere le proprie esperienze personali. Il motto di YouTube recita «broadcast yourself», cioè «trasmetti te stesso». E noi? «Lo facciamo, con tutto lo sfrontato autocompiacimento del mitologico Narciso. Se i mezzi di comunicazione tradizionali hanno lasciato il posto a media personalizzati, internet è ormai uno specchio che ci riflette». Ne è convinto uno tra i principali critici contemporanei della Rete: Andrew Keen, che vive a Berkeley, in California, e ha scritto molto sulla cultura, sui media e sulla tecnologia. Il suo blog ha scatenato diverse polemiche da parte degli entusiasti del web, o ome li chiama lui «tecno-utopisti» per via delle sue affermazioni nel libro The cult of the amateur che in Italia è uscito tradotto con il titolo Dilettanti.com edito dalla De Agostini. Il volume – pubblicato in quindici lingue – non manca di prendere di petto applicazioni e software, modalità di accesso a Internet ma soprattutto critica i media fondati sulla creazione dei contenuti da parte delgi utenti, come per esempio i diari on line, primo tra tutti il blog: «Sono aumentati così vertiginosamente da mettere in pericolo la nostra capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è reale da ciò che è immaginario – spiega Keen –. Oggi i ragazzi non sono più in grado di comprendere la differenza tra una notizia credibile firmata da un giornalista autorevole e ciò che leggono su joeshmoe.blogspot.com». Per questi, che Keen chiama «utopisti della generazione Y», ciascun commento rappresenta semplicemente un’altra versione della realtà. «La finzione non è che una versione alternativa dei fatti». Keen bacchetta anche Wikipedia: «È l’enciclopedia on line al cui interno chiunque sia dotato di pollici opponibili e del diploma elementare può pubblicare qualsiasi cosa su un qualunque argomento, dagli Ac/Dc allo zoroastrismo». Ma perché queste critiche? «Non dobbiamo lasciarci abbindolare dal culto del dilettante, con la sua diffusione della cultura "da banco", il suo abbraccio rousseauiano dell’innocenza e della giovinezza – dice Keen –. Competenza e sapere, dobbiamo ricordarlo a noi stessi, sono generalmente il risultato dell’esperienza e del mestiere, dell’impegno di una vita teso alla conoscenza e all’atto creativo. Dobbiamo accettare la spesso sconfortante verità che il talento è universalmente distribuito e che le opinioni della maggior parte della gente non sono interessanti né hanno valore per la restante parte. Il rimedio è di continuare a sostenere i mezzi a pagamento privati con scrittori di talento, giornalisti, editorialisti, commentatori e produttori cinematografici». Il rimedio a tutto questo è uno solo: «Comperare i giornali, comperare i libri, pagare per la musica e i film. Se noi questo lo facciamo online o no non ha importanza. Io sono assolutamente a favore di Internet come distributore di piattaforme di contenuti, fino a quando questo sostiene un sistema accettabile di una classe professionale creativa». Un modo molto semplice per dire "no" alla cultura del «copia-e-incolla» di cui spesso il Web 2.0 viene accusato? «La rivoluzione del Web 2.0 ha promesso di diffondere a un numero sempre più ampio di persone una sempre più ampia conoscenza, ma in ogni momento ci si interroga sull’affidabilità, l’accuratezza e la verità delle informazioni che troviamo in rete. Allo stesso tempo le istituzioni culturali come i quotidiani, le riviste, il mondo della musica e del cinema sono minacciate da una mole di contenuti amatoriali gratuiti e generati dagli utenti stessi. Se siamo tutti dilettanti, non ci sono più esperti. Se anonimi autori di blog e videoamatori, non condizionati da regole degli standard professionali e dei filtri editoriali, possono manipolare l’opinione pubblica, la verità si trasforma in merce da acquistare, vendere, impacchettare». Le società del Web 2.0 stanno tutte costruendo modelli di mercato basati sul libero contenuto generato direttamente dall’utente, ma poi vendono pubblicità contro questo contenuto. «È difficile competere con il libero mercato, specialmente se, come accade nei giornali tradizionali, bisogna pagare i reporter per il loro lavoro. Quindi i giornali tradizionali e le riviste si stanno arrovellando per cercare un nuovo modello di mercato. In America questa situazione è sfociata in una profonda crisi economica di tutti i media tradizionali, dalle riviste ai quotidiani agli editori ai network televisivi».
Vincenzo Grienti

I Migliori Siti Web 2.0 in un Unico Elenco

[GeekItaly 14/08/2010] I Siti Web 2.0 offrono dei servizi utili (e gratuiti) che possono risolvere qualsiasi problema online. Sono caratterizzati da una grafica molto innovativa, da icone molto belle e da colori giovanili e moderni. Le funzionalità messe a disposizione da queste applicazioni online sono davvero numerosissime. Tanto per citare qualche utilità importante, ecco cosa ci permettono di fare i migliori siti web 2.0: Modificare Foto, Ascoltare Musica, Creare Fotomontaggi, Creare Video con Foto (Slide), Acquistare prodotti Online, Creare Web Radio, Caricare Foto ed altri file su Internet, Scambiarsi documenti sul web, Inserire Opinioni di prodotti o aziende, Inviare micro messaggini (Twitter) e tanto altro ancora.

Come potete notare, i servizi web 2.0 riescono a ricoprire tutte le funzionalità più richieste su internet. Ma come si fa per trovare un sito per ogni singola necessità? Ci sono due modi. Il primo: Seguite GeekItaly che ogni giorno vi propone software e servizi web 2.0, recensiti e descritti nella maniera più semplice o, il secondo: Salvate tra i preferiti il sito Go2Web 2.0
Non lo conoscevate? E’ un ottimo elenco che contiene tutti (o quasi) i servizi web 2.0 più importanti.

venerdì 13 agosto 2010

Habbo: il nuovo Facebook per teens

[SeidiModa-Repubblica 13/07/2010] È il social network del momento: ha 172 milioni di utenti, tutti adolescenti under 18, un target che interessa tantissime aziende. Non permette un'esperienza di blog ma fornisce un avatar da personalizzare a piacere. Storia, caratteristiche e dubbi di un sito che farà molto discutere

L'ultima mania della rete si chiama Habbo: è un social network nato dieci anni fa in Finlandia, proprietà del gruppo Sulake Corporation. È tradotto in 11 lingue e raccoglie un numero impressionante di utenti, 172 milioni, provenienti da 150 paesi. La grafica è accattivante, colorata e molto pop. Lo scopo di Habbo, con le sue proposte in fatto di bar, cinema, biblioteche e negozi (tanti negozi), è favorire la conversazione tra persone lontane. Ma la cosa che caratterizza di più questa piattaforma è l'età del suo pubblico: adolescenti dai 13 ai 18 anni. A questi teenager Habbo permette di creare un avatar da abbigliare, pettinare e accessoriare ad hoc. Stesso discorso per la versione virtuale della propria camera, da arredare e abbellirre secondo il proprio gusto.
Va da sé che attraverso questo sito si possono captare tendenze e preferenze dei teenager di mezzo mondo.
Habbo, poi, incoraggia l'acquisto di accessori attraverso crediti e promuove prodotti ed eventi reali vendendo i propri spazi a investitori pubblicitari.


Oltre al target adolescenziale, però, Habbo differisce dagli altri social network perché non permette di postare foto o scrivere commenti (bloggare, insomma), cosa che rende molto difficile identificare realmente l'utente. La domanda che sorge spontanea, quindi, è come verificare l'età effettiva di chi naviga in questo sito. Anche se bisogna avere almeno 13 anni per iscriversi, risulta impossibile sapere se dietro un ID Habbo si possano nascondere ragazzi con meno di 13 anni o adulti con cattive intenzioni. A questo riguardo, va ricordato che Habbo, come Facebook, ha previsto uno speciale tasto per segnalare molestie on line, con avvertimenti che consigliano di non rivelare informazioni personali o di non incontrare, nella vita reale, altri utenti senza aver consultato un adulto. Pena l'esclusione dal network.
Le potenzialità del sito sono enormi: il suo bacino d'utenza, infatti, è un tesoro reale, più che virtuale, per ogni azienda alla ricerca di dati e statistiche sulle tendenze del pubblico giovane. Ma i dubbi che fa emergere riportano in luce la scottante questione dei minorenni in rete. Una realtà che chiede ai social network e alle istituzioni nuove forme di tutela e di salvaguardia.
Elisa Poli

venerdì 6 agosto 2010

Con Foursquare, sulle strade della California, alla scoperta del Boy Scout che c'è in noi

[IL Sole24Ore 06/08/2010] In principio la promessa era il gioco ma presto ci si è accorti che era solo un pretesto. Foursquare, il "geo"social network del momento, ha festeggiato pochi giorni fa i 100 milioni di chek-in e ora non può più nascondersi. Con la scusa del gioco è riuscito dove altri hanno fallito stimolando il boy scout che c'è in noi. Il meccanismo è diabolico in sé ma sorprendentemente semplice perché fa leva sull'innato piacere che proviamo nell'esplorare e nel raccontare dove siamo, cosa abbiamo visto e se ci è piaciuto.

Ecco come funziona: l'utente dal cellulare dotato di Gps può segnalare dove si trova e volendo anche cosa sta facendo. Gli iscitti a Forsquare possono così sapere dove è l'amico ma anche semplicemente cosa dicono gli altri iscritti. A rendere il tutto più stimolante si inserisce il gioco inteso come sistema di incentivi. Il meccanismo è perverso ma funziona. Più chek-in, ovvero più segnalazioni si effettuano e più talloncini (badge) si vincono. Un po' come le spillette dei boy scout.

Se poi si è il primo a segnalare un luogo allora si viene eletti sindaci. Per ora due milioni di utenti giocano con Forsquare "colonizzando" a colpi di check-in il globo terrestre. Pochini rispetto al mezzo miliardi di utenti di Facebook (cento milioni i profili aperti). Ma il confronto è ingiusto e irrispettoso perché i due social network fanno mestieri diversi. L'idea segreta del fondatore Dennis Crowley è quella di trasformare il suo social network in una sorta di guida turistica per cellulari aperta, dove i tutti i partecipanti possono segnalare e recensire locali, ristoranti, alberghi, cinema insomma tutto. Per poi, una volta raggiunta la massa critica, vendere tutto il pacchetto - dati degli utenti inclusi "possibilmente in forma anonima"- a motori di ricerca interessati a mappare il territorio con i consigli e recensioni di appartenenti al network. Detto in altri termini, i candidati potrebbe essere venduti a Google, Microsoft insomma i big del web interessati a dati geolocalizzati. Almeno sulla carta. Ma a che punto è la redazione di questa Lonely Planet aperta e condivisa? Perché non provarla direttamente negli Stati Uniti, dove risiede il 60% di quei due milioni di fousqueristi? E precisamente perché non provarla direttamente in California terra di valli al silicio e imprenditori del 2.0?
Il viaggio inizia a Los Angeles. Scesi dall'aereo la prima cosa da fare è accendere il cellulare, collegarsi e vedere un po' che cosa c'è in giro. Si scopre che esistono locali che, in cambio di pubblictà gratuita, offrono birre o ingressi omaggi a chi si presenta e effettua un check-in. Iniziative che durano una giornata per puristi della geolocalizzazione. Ma, promozioni a parte, l'aspettativa è un'altra.

Ovvero trovare qualche cosa che non c'è nelle guide cartacee come la "dritta" sulla specialità dello chef, l'ora giusta per visitare un Museo, eccetera. Ecco, da questo punto di vista il network non ha ancora le idee troppo chiare. Mike A., per esempio, segnala che all'ultimo piano della libreria di Barner & Nobles dentro a The Grove, una cittadella per lo shopping bene a Los Angeles, si gode la migliore vista. Rachel J mette in guardia da non andare nel centro di sabato perché troppo affollato (che scoperta!), mentre la maggior parte dei 4square-scout si limita a segnalare quanto è bello lo shopping. Meglio sui ristoranti: collegando a Foursquare da Harry's a San Francisco si scopre che Erict T. consiglia il manzo Kobe anche se ammette che è due volte più caro degli altri ristoranti. La stessa informazione si può però trovare in una guida normale. Come anche il fatto che all'Hotel Luxor di Las Vegas ci sono stanze poco luminose e che non bisogna fidarsi di tutte le reti Wi-fi aperte. Insomma, nulla di eclatante.

Più interessante invece è l'interazione con possibili nuovi amici. Il sistema in tempo reale segnala se per esempio qualcuno intorno a te sta effettuando un check-in. Si scopre così che magari a pochi metri di distanza qualcuno come te con un cellulare in mano è connesso a Foursquare. La sensazione è intrigante ma anche inquietante. Dipende naturalmente dal carattere. Qualcuno potrebbe sentirsi violato nella proprie prerogative di anonimato (privacy). Altri potrebbero cogliere l'occasione per nuove conoscenze. Del resto, se si sceglie di giocare a Foursquare se ne devono anche accetare le regole. Altrimenti che gioco è?

Luca Tremolada

mercoledì 4 agosto 2010

Linkedin: un social network da 2 miliardi di dollari

[iPlazaNetwork 04/08/2010] Nell’immaginario collettivo quando si nomina la parola “social network” si pensa immediatamente a qualcosa che ha che fare con il tempo libero, lo svago e il divertimento. Questa considerazione non è esatta perché gli aggregatori sociali permettono anche di aiutare concretamente la vita degli utenti, a partire dalla ricerca di un lavoro. È il caso del famigerato Linkedin, il primo social network (se non addirittura l’unico) in grado di mettere in contatto tutti coloro che sono già inseriti nel mondo del lavoro, o magari dare una mano a chi aspira a farne parte.
C’è una recente novità che riguarda proprio il social network con sede a Palo Alto (California): In seguito all’investimento di un fondo hedge, Linkedin ora vale piu’ di 2 miliardi di dollari. Tiger Global Investment, veicolo di investimento fondato da Chase Coleman, ha versato 20 milioni di dollari per assicurarsi una quota di partecipazione nel sito di social network per professionisti.
Questo cosa vuol dire? Che da oggi Linkedin ha un valore molto superiore a quello di Twitter (stimato sugli 800 milioni di dollari) , di Bing (425 milioni di dollari) e di Buzz (il social network made in Google scavalca di poco di 200 milioni di dollari).

SALUTE: TROPPO INTERNET RADDOPPIA RISCHIO DEPRESSIONE NEGLI ADOLESCENTI

[Asca 04/08/2010] (ASCA) - Roma, 4 ago - Attenzione agli adolescenti che fanno un uso eccessivo di internet: corrono infatti un rischio due volte e mezzo maggiore di cadere in depressione rispetto ai coetanei che rimangono alle prese con social network ed email per un tempo piu' limitato. A sostenere il legame internet-depressione per le giovani menti e' uno studio australiano guidato dalla School of Medicine di Sydney in collaborazione con la University of Notre Dame, con il Ministero della Pubblica Istruzione cinese e con la SunYat-Sen University (Cina).

Nella ricerca che verra' pubblicata a ottobre su Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, gli studiosi guidati da Lawrence Lam e Zi-Peng Wen hanno esaminato l'uso patologico di internet in 1.041 ragazzi cinesi di 15 anni d'eta' media e ne hanno quantificato i livelli di ansia e depressione.

Dallo studio e' emerso che il rischio di depressione per gli utilizzatori patologici di internet e' risultato pari a circa due volte e mezzo rispetto ai normali utenti del web, mentre nessuna relazione e' stata osservata fra l'uso patologico della rete e l'insorgenza dell'ansia.

noe/sam/alf