martedì 24 luglio 2012

Internet: ogni italiano resta "connesso" due ore al giorno

[AGI 19/07/2012]
E' la "connessione" il nuovo paradigma della socialita': gli italiani passano in media quasi due ore al giorno (i giovani due ore e mezza) al telefono, collegati ad un social network o in chat. E' quanto emerge da "Comunicazione digitale - i nuovi stili della comunicazione", lo studio condotto dall'Eures - Ricerche economiche e sociali su un campione rappresentativo di 618 cittadini maggiorenni. E' una larga maggioranza (il 58,3%) ad essere convinta che proprio grazie alla diffusione delle nuove tecnologie la qualita' delle proprie comunicazioni sia aumentata. E che le ragioni principali di questo saldo positivo siano rappresentate dall'immediatezza (83,7%) e dalla maggiore continuita' (35,9%).
  C'e anche chi, al contrario, imputa ai nuovi media una diminuzione della qualita' delle proprie comunicazioni lamentando minore partecipazione emotiva (54,3%), rischio di fraintendimenti e perdita di sfumature (43,4%, che sale al 54,2% tra le donne), interazione piu' bassa (37,2%), perdita di spontaneita' (22,5%) e rischi per la privacy (19,4%). Ciascun intervistato trascorre in media oltre un'ora al giorno al telefono (61 minuti, che salgono a 67 tra le donne), oltre mezz'ora collegato ad un social network (37 minuti, che diventano 42 tra le donne contro i 31 degli uomini) ed un tempo di poco inferiore (25 minuti) in chat. Inoltre ciascun intervistato afferma di inviare in media 16 sms al giorno e 20 e-mail: naturalmente, sono i piu' giovani a vivere maggiormente il tempo della connessione, che risulta prevedibilmente piu' esteso per i social network (49 minuti nella fascia 18-39 anni e 27 in quella di eta' superiore), per le chat (33 minuti giornalieri contro 19) e per gli sms inviati (21 contro 13).
  Sostanzialmente uguale, invece, l'utilizzo quotidiano del telefono. Cresce, e non potrebbe essere altrimenti, lo spazio dei social network, che per il 18,9% del campione sono divenuti lo strumento abituale per aggiornarsi sulle novita' interne alla sfera amicale (26,2% nella fascia 18-39 anni), mentre per un altro 15,1% costituiscono il canale principale per confrontarsi su questioni di attualita', politica e cultura (18,1% tra gli under 39). Nella vita di coppia le comunicazioni avvengono per lo piu' attraverso scambi diretti (44% delle risposte) o conversazioni telefoniche (38,5%), evidenziando una scarsa attenzione ai richiami e alle opportunita' di comunicazione offerte dalle nuove tecnologie: uno spazio importante, seppur decisamente inferiore, e' preso dagli sms (16,2%) e dalle e-mail (7,6%), mentre i social network veicolano solo il 4,6% dei contenuti. Tra gli altri contesti considerati, la famiglia risulta senza dubbio quello piu' legato a forme e strumenti di comunicazione "tradizionali" (diretta e telefonica), con spazi e ruoli marginali per i nuovi media (la vera competizione sembra verificarsi tra la conversazione telefonica, al 54,3%, e la comunicazione diretta, al 31,8%) mentre sul lavoro e' l'e-mail l'asse portante della comunicazione, abitualmente utilizzata dal 68,6% degli intervistati, molto di piu' della posta cartacea (15,3%). Il ricorso abituale alla posta elettronica presenta i valori piu' alti nella gestione dei curriculum vitae (86,4%), dei preventivi (78,2%), delle attivita' promozionali (72,8%) e dell'organizzazione interna (73,8%); inferiore l'utilizzo per comunicare l'interruzione di un rapporto di lavoro (31,5%), dove affianca la classica "raccomandata" postale (29,9%) e la comunicazione diretta (29%). (AGI) .

martedì 17 luglio 2012

Fuori dai cassetti, dentro la rete così le idee trovano finanziatori

[La Repubblica Firenze 17/7/2012]
Partire dalla propria passione, lo "spaghetti horror" di Dario Argento e Mario Bava, e farne un festival. Denunciare le barriere architettoniche che rendono impossibile, a un giovane disabile americano, partire da solo alla scoperta della vecchia Europa. O ancora esporre le proprie opere in una sede prestigiosa, partecipare a un concerto dall'altra parte del mondo, realizzare un software per manovrare un robot con un iPhone.

Qualcuno dice che, perché si avverino, i sogni vanno tenuti chiusi in un cassetto. Ma sono sempre di più coloro che, invece, scelgono di raccontarli su una pagina web, in un video di 40 secondi, e chiedere al mondo un aiuto, grande o piccolo, per realizzarli. La ricetta si chiama crowdfunding e, lanciata negli Usa nel 2008 col sito kickstarter. com, sta prendendo piede anche in Italia, complice la difficoltà di ottenere finanziamenti per nuove idee. In Toscana è un'esplosione, forse perché proprio qui, a Lucca, è nato il portale eppela. com, versione nostrana di Kickstarter, che funziona con lo stesso principio: si presenta l'idea, si fissa un traguardo economico e si chiedono sottoscrizioni tramite PayPal. I finanziatori ottengono, in cambio, una piccola ricompensa, che spazia da un semplice ringraziamento a cadeau come dvd, foto autografate, libri. I progetti si dividono in due categorie: "lab" e "pro".

Se il raggiungimento del traguardo stabilito è, per i primi, condizione imprescindibile per la realizzazione (le quote vengono congelate e, in caso negativo, non si perde un euro), i secondi andranno in porto indipendentemente dal successo del crowdfunding. [Leggi tutto...]

lunedì 16 luglio 2012

Teenager Usa maniaci di social network e sms mentre l'e-mail è un oggetto sconosciuto

[IlSole24Ore 14/07/2012]
Facebook e le chat, i telefonini e i messaggi di testo. Comunicare per i giovanissimi americani è soprattutto queste due cose. Mentre l'e-mail passa per strumento quasi sconosciuto. Questa la sintesi della fotografia che ha scattato la società specializzata Pew Internet, secondo cui il 76% degli adolescenti a stelle e strisce frequenta assiduamente i siti social e di questi il 93% ha un account attivo su quello di Mark Zuckerberg.

Stando allo studio, inoltre, si scopre che solo il 45% dei 12enni utilizza i servizi di messaging e chat online su Facebook e simili ma la percentuale sale all'82% per i 13enni. Su Twitter, questa la curiosità, sono più attive le ragazze (nella misura del 22% sul totale di quelle attive sul web) rispetto ai pari età maschi (che si fermano al 10%).

Il Pew sottolinea inoltre un'importante crescita dell'attenzione dei genitori per le attività online dei propri figli: nel 2000 a controllare i siti frequentati dagli adoloscenti era il 60% di madri e padri americani, nel 2011 tale percentuale è al 77 per cento. Una maggiore attenzione che trova conforto nell'uso delle impostazioni di privacy su siti di social media da parte del 62% dei giovanissimi campionati.

E interessante, infine, è anche il dato che vede nettamente penalizzato lo strumento e-mail rispetto agli sms: via posta elettronica invia almeno un messaggio al giorno meno del 6% degli adolescenti, mentre il 39% la ignora del tutto. Al contrario, il 63% dei teenager fa ricorso ai messaggini di testo con cadenza quotidiana (con una massimo di circa 100 sms spediti in 24 ore). Solo uno su cinque (il 23% per la precisione) è in possesso di uno smartphone.
Gianni Rusconi

venerdì 13 luglio 2012

Internet ci rende pazzi?

[Corriere.it 13/07/2012]
Internet ci sta facendo diventare matti. L'ultimo esempio di follia legata al web è il creatore della campagna Stop Kony - quella contro il generale ugandese che sfrutta i bambini soldato. Il video di Jason Russell in pochi giorni ha fatto il giro del mondo e i suoi account Twitter e Facebook sono stati letteralmente presi d'assalto. Lui è stato sveglio per giorni interi oer rispondere e rimirare il suo successo, finché ha dato letteralmente di matto, è sceso per le strade di San Diego completamente nudo gridando frasi senza senso. «Psicosi reattiva», hanno diagnosticato i medici che l'hanno preso in cura. Poi, come terapia, un mese di silenzio sul web.
COME IL CAMBIAMENTO CLIMATICO - A dedicare una copertina a uno dei problemi dei nostri tempi, ossia alla dipendenza da web, («E' una piaga come il cambiamento climatico», ha detto una docente di farmacologia di Oxford) è il settimanale statunitense Newsweek. Titolo azzeccatissimo: «iCrazy». Secondo alcuni studi, l’eccessiva dipendenza dal web è ormai una patologia simile all’alcolismo o alla depressione. «Il computer è una specie di cocaina elettrica», spiega il direttore dell’Istituto di neuroscienza dell’università di Los Angeles Peter Whybrow. E ancora, il candidato al premio Pulitzer Nicholas Carr, autore di The Shallows, scrive: «È la nostra ossessione, la nostra dipendenza e la nostra fonte di stress». Secondo altri studi, un eccessivo uso di Internet potrebbe aumentare il rischio di contrarre la sindrome ADHD (quella che dà problemi di apprendimento e difficoltà di concentrazione e che si cura con il Ritalin, per intendersi). Ma la correlazione è ancora tutta da dimostrare. Per alcuni studiosi di Taiwan ad aumentare la dipendenza sono i telefonini, come gli iPhone. Un'ossessione compulsiva ci porterebbe a guardare continuamente lo schermo del nostro smartphone, a controllare se qualcuno ci ha mandato un messaggio su Facebook o su Twitter. Come se ci stessimo facendo una dose, insomma.
CENTRI DI TRATTAMENTO E CAMPAGNE - E se gli scienziati sono al lavoro per capire come realmente la rete ci causi problemi, il problema è talmente sentito che il prossimo DSM (il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders che raccoglie tutti i disturbi psichici e psichiatrici) per la prima volta conterrà la voce Internet Addiction Disorder, scrive il Newsweek. E non solo. Il disagio si fa sentire anche nei Paesi asiatici, Cina e Corea in testa. Qui 10 milioni di persone sono considerate "internet addicted", con il governo nordcoreano che sta aprendo centri di trattamento della dipendenza e la Cina che sta lanciando campagne per un uso di internet consapevole. E la diffusione del "virus" non si ferma qui. Israele, India, Brasile: medici, pediatri, psicologi e psichiatri sono al lavoro. Per capire come mai il web ci rende pazzi. Ma sarà vero?
Marta Serafini

Facebook rende stupidi?

[L'Espresso 11/07/2012]
Altro che regno della libertà. Internet assomiglia sempre di più a una specie di casa dello studente globale e abbacinante che ci incarcera in una vita forzosamente pubblica. Colpa dei social media, che frantumano la nostra identità costringendoci a vivere continuamente fuori da noi stessi. E che mettendoci a nudo, sacrificano la nostra privacy alla tirannia utilitaria delle corporation digitali.

Almeno così la pensa Andrew Keen nel suo ultimo libro "Digital Vertigo: How Today's Online Social Revolution Is Dividing, Diminishing, and Disorienting Us". Ovvero come la rivoluzione in salsa social del Web che non risparmia nessuna attività, neppure quelle più tradizionalmente isolate e individualistiche, quali la lettura, ci sta traghettando in un'era di "ipervisibilità" e di ipertrofia dell'ego. Con pesanti conseguenze sociali e psicologiche.

Una tesi piuttosto forte che però, considerata la provenienza, non stupisce. Keen è un saggista e imprenditore della Rete di origine britannica che ama fare il bastian contrario. Nel 2007 destò scalpore il suo "Dilettanti.com", un saggio-pamphlet in cui si scagliava contro il Web 2.0, la produzione amatoriale di contenuti e la loro condivisione gratuita. E il sottotitolo non lasciava spazio a compromessi: "Come la rivoluzione del Web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia". Una critica a Internet che però oggi, riformulata nel nuovo libro appena uscito sul mercato internazionale (per l'Italia è in corso una trattativa con un editore), si avvicina alle preoccupazioni espresse da altri intellettuali (e anche da molti utenti). Non stiamo cioè cedendo troppo dei nostri dati e del nostro controllo sugli stessi alle grandi aziende della Rete? "L'Espresso" lo ha chiesto a Andrew Keen.

Perché secondo lei la condivisione on line è una trappola?
«Lo è su tre livelli. Il primo è che Facebook - ma anche Google - l'hanno trasformata in un prodotto da vendere agli inserzionisti. E i consumatori, che sono sempre più spinti a essere trasparenti, a rivelarsi, finiscono col cedere informazioni e quindi potere alle aziende. Perché quelle stesse informazioni possono essere usate in tanti modi, anche per negare un lavoro o una copertura sanitaria. Il secondo livello è che anche i governi usano i social media per aggregare dati sui cittadini, e noi gli abbiamo reso la vita facile. Pensiamo al film "Le vite degli altri", agli sforzi che facevano servizi segreti come la Stasi per carpire informazioni personali: ora gliele cediamo noi in blocco. Infine, e veniamo al terzo livello della trappola, i social network creano dipendenza, proprio come le bibite o le sigarette: una dipendenza alimentata dal nostro narcisismo, dalla vertigine di poter dire al mondo che cosa facciamo, pensiamo, e preferiamo in ogni momento. Tirano cioè fuori la nostra parte più infantile, facendoci dimenticare che spesso siamo più interessanti quando stiamo zitti».

Ma lei arriva addirittura a paragonare Mark Zuckerberg e gli altri imprenditori della Silicon Valley a Jeremy Bentham, il filosofo utilitarista che teorizzò il panopticon, la prigione-modello in cui un solo controllore riesce a sorvegliare tutti i detenuti. Davvero c'è un legame?
«Hanno la stessa concezione dell'essere umano, un'idea infantile degli uomini come aggregazione di desideri. Zuckerberg è così che ci vede. E ricordo che il panopticon non era nato solo per le carceri, ma anche per le scuole e gli ospedali. I problemi che la società digitale sta facendo affiorare oggi in modo plateale erano già emersi all'alba dell'età industriale. La storia si sta ripetendo, non so se con una accentuazione più tragica o farsesca».

E cosa ci porta a restare sui social network nonostante questi problemi?
«E' chiaro che nessuno è materialmente obbligato a rimanere su Facebook, ma di fatto starne fuori è quasi impossibile. Perché, in una economia della conoscenza sempre più individualizzata, siamo costretti continuamente a inventarci, a pubblicizzarci, a fare "personal branding". Diciamo che solo le persone molto ricche o molto povere possono permettersi di ignorare la piattaforma di Zuckerberg. Io ad ogni modo non sono iscritto.ma è una scelta che si accorda, per così dire, col mio brand».
Ma qualcosa di buono in queste piattaforme ci sarà, non crede? Ad esempio come mezzo di diffusione di notizie o di organizzazione dei cittadini...
«Naturalmente hanno anche effetti positivi, specie a livello politico, specie in Paesi autoritari, pensiamo all'Egitto. E tuttavia per la loro stessa natura le mobilitazioni nate sui social media tendono a essere individualistiche, e non favoriscono la nascita di movimenti politici coesi. La Primavera araba, purtroppo, non si è trasformata in estate. E anche Occupy Wall Street non ha fatto un salto di qualità».

Se dipendesse da lei, qual è la prima cosa che cambierebbe dei social network?
«Il modello di business. Farei pagare alle persone qualche dollaro al mese, ma garantirei loro la privacy. Credo che arriveranno presto delle piattaforme così fatte».

Altrimenti?
«Il rischio è di finire come la rana nella pentola, che non si accorge di bollire se la temperatura dell'acqua cresce gradualmente. Non ci sarà un momento netto in cui la privacy finisce, ma assisteremo alla cessione progressiva di un valore importante, la cui riduzione non può che diminuirci come esseri umani».

C'è chi sostiene: «Io tanto non ho nulla da nascondere».
«Una frase triste da dire. Forse si dice quando manca autoconsapevolezza».

Va bene, ma se questa è l'analisi, cosa dovremmo fare? Educare le persone a salvaguardare la propria privacy? Intervenire a livello legislativo?
«L'educazione è sempre una soluzione nebulosa. E poi in questo caso si tratterebbe di insegnare a essere umani: come si fa? Forse ha più senso cercare di umanizzare il mondo digitale. Per andare sul concreto, mi piace molto il lavoro che sta facendo la commissaria europeaViviane Reding sulla tutela della privacy e sulla protezione dei dati personali dei cittadini. Ma anche sul diritto all'oblio. Dobbiamo insegnare a Internet a dimenticare; e dobbiamo incoraggiare gli imprenditori a sviluppare tecnologie che ci diano il controllo dei nostri dati. Se è vero, come dice il personaggio di Sean Parker nel film "The Social Network", che dopo le fattorie e le città noi vivremo in Internet, allora dobbiamo rendere la Rete un posto davvero abitabile».

Quando uscì il suo libro "Dilettanti.com", in cui si scagliava contro il mondo amatoriale e gratuito dei contenuti generati dagli utenti, era una voce isolata e anche molto biasimata. Ora è in buona compagnia: Nicholas Carr, Sherry Turkle, Jaron Lanier, Evgeny Morozov... La critica ai social media è diventata una moda?
«E' vero, e mi lasci dire, è anche un po' deludente. "Dilettanti.com" fu denigrato a tutto spiano, e la cosa mi divertì molto. Ora invece ovunque vada è un coro di applausi, perfino dagli amici del Partito pirata. Ironia della sorte, un mio articolo sulla Cnn relativo ai temi del libro ha raccolto 20 mila "Mi Piace" su Facebook. Ma il punto è che tutte queste voci critiche provengono da persone immerse nel mondo tecnologico, e che non possono certo definirsi dei luddisti. Io stesso vivo in Silicon Valley e ho una trasmissione su "TechCrunch", un sito di informazione hi-tech. Al contrario, non vedo in giro opere significative da parte dei "social entusiasti"».

Ha poi rivalutato i contenuti generati dagli utenti e la possibilità data a tutte le persone di usare Internet per dire qualcosa?
«"Dilettanti.com" era un libro che voleva far arrabbiare. Dopodiché riconosco che esiste del valore in questa forma di produzione dal basso. Anche se credo ancora nella necessità di avere contenuti curati da professionisti. Alla fine, le mie tesi hanno tenuto meglio di quelle di Chris Anderson (direttore del mensile americano "Wired" e autore di libri come "La coda lunga" e "Gratis", ndr): la sua teoria della coda lunga, l'idea cioè che la Rete potesse moltiplicare i mercati e i prodotti culturali, dando spazio alle nicchie, si è rivelata essere soltanto un mito.
Carola Frediani

Stare ore su Facebook non porta a depressione

[LaStampa.it 11/07/2012]
WASHINGTON
E' infondato il timore di un legame tra depressione e numero di ore trascorse su Facebook o altri siti di social network. E' quanto è emerso da uno studio condotto dall'Università del Wisconsin per verificare il rapporto pubblicato nel 2011 dall'Organizzazione dei pediatri americani(Aap), secondo cui una lunga esposizione a Facebook aumentava il rischio di depressione tra gli adolescenti.

«Il nostro studio è il primo a presentare prove scientifiche sul presunto legame tra l'uso dei social media e il rischio di depressione», ha sottolineato la ricercatrice Lauren Jelenchick. I risultati, pubblicati sul Giornale della salute dell'adolescente, «hanno implicazioni importanti per i medici che potrebbero aver allarmato troppo presto i genitori sull'uso dei social media e sui rischi di depressione».

Jelenchick e il docente Megan Moreno hanno seguito 190 studenti dell'Università, di età compresa tra i 18 e i 23 anni, che trascorrevano oltre metà del loro tempo su Facebook; e non hanno rinvenuto alcun nesso importante tra l'uso dei social media e il rischio di depressione. Tuttavia, Moreno, pediatra che studia il consumo dei social media tra bambini e adolescenti, ha sottolineato: «Seppure il numero di ore trascorso su Facebook non è associato alla depressione, noi invitiamo i genitori ad essere modelli attivi e insegnanti su un uso corretto ed equilibrato dei media per i loro figli».
(TMNews)

Tv e Minori: per il Consiglio nazionale degli utenti, nuovo decreto consente ancora l’aggiramento dei divieti

[Key4biz 10/07/2012]
Il Consiglio Nazionale degli utenti solleva alcuni dubbi riguardo al Testo Unico dei servizi di media audiovisivi in materia di tv e minori (Leggi Articolo Key4biz).
Per il CNU, vanno bene le modifiche introdotte dal governo tese a recepire i rilievi della Commissione europea per la tutela dei minori, “non è, però, del tutto fugato il rischio che possa essere aggirato il no a trasmettere prima delle 23,00 e dopo le ore 7,00 film vietati ai minori di anni 14, che costituiva uno dei punti di rafforzamento della precedente normativa a tutela dei minori”.

Il CNU nella riunione di ieri ha preso atto delle modifiche, ha accolto positivamente le disposizioni riguardanti il divieto assoluto per le trasmissioni televisive che “possono nuocere gravemente” allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori, salve le previsioni applicabili unicamente ai servizi a richiesta, e ha inoltre valutato con favore che la trasmissione di contenuti inadatti ai minori venga identificata mediante una chiara segnaletica durante l’intera durata del programma, secondo quanto previsto dalla direttive europea.

Tuttavia, “il CNU non condivide l’enfasi secondo cui questo decreto introdurrebbe norme più severe a tutela dei minori nella programmazione televisiva. Al contrario manifesta seria preoccupazione per l’ambiguità di una norma che potrebbe prestarsi a interpretazioni lassiste con ricadute negative per i giovani telespettatori”.
Perché, spiega il CNU, “l’art. 34, comma 2 stabilisce che i programmi che possono nuocere allo sviluppo fisico, mentale o morale dei minori e film vietati ai minori di anni 14 possano essere trasmessi anche in orario diurno in presenza di accorgimenti tecnici che escludano che i minori che si trovano nell’area di diffusione vedano o ascoltino normalmente tali programmi”.

Per il CNU, qualora si ritenesse l’attuale cosiddetto ‘controllo parentale’ rispondente a tali requisiti, “si consentirebbe praticamente l’aggiramento del divieto di tali trasmissioni prima delle 23,00 e dopo le ore 7,00 e si verrebbe così a determinare un quasi completo svuotamento del divieto alla trasmissione di film vietati ai minori di anni 14, che costituiva uno dei punti di rafforzamento della precedente normativa a tutela dei minori”.

Secondo il Consiglio nazionale degli utenti televisivi, “gli accorgimenti tecnici dovrebbero essere idonei ed effettivamente in grado di escludere che i minori accedano a programmi nocivi, ma in realtà il controllo parentale attualmente implementato in Italia, peraltro non operativo come default ma solo su iniziativa dell’utente, non garantisce in alcun modo l’esclusione dei minori dai programmi nocivi come invece prescritto dalla direttiva europea”.

Il decreto, approvato dal governo su proposta dei ministri per gli Affari europei e dello Sviluppo economico, di concerto con i Ministri degli Affari esteri, Giustizia, Economia e finanze, recepisce i rilievi della Commissione Ue, applica i precetti suggeriti dal Comitato per la Tutela dei minori e distingue in modo più chiaro la diversità tra il regime delle trasmissioni lineari (in chiaro o a pagamento) e quello delle trasmissioni non lineari (on-demand).

La nuova normativa proibisce, spiega una nota del MiSE, la messa in onda di film classificati come “vietati ai minori di 18 anni” e di programmi considerati gravemente nocivi dello sviluppo psicofisico dei minori (che potranno invece essere fruiti solo ed esclusivamente mediante servizi a richiesta dell’utente, purché dotati delle necessarie tutele, quali il parental control e il servizio di avvertenza tramite bollino rosso).

I film vietati ai minori di 14 anni e tutti gli altri programmi comunque nocivi dello sviluppo psicofisico dei telespettatori più piccoli potranno andare in onda solo fra le ore 23.00 e le 7.00 del mattino, oppure con l’uso obbligatorio di un parental control. In entrambi i casi dovrà sempre essere presente l’apposita avvertenza televisiva (bollino rosso). 

Raffaella Natale