giovedì 30 settembre 2010

I bambini vogliono gli ebook, i genitori no

[webnews 30/09/2010]

Se gli ebook avranno successo sarà, probabilmente, grazie ai bambini. Sembra, infatti, che i giovani nativi digitali preferiscano i supporti tecnologici di questo tipo, considerati più divertenti. Peccato che non tutti i genitori sarebbero d’accordo con la rivoluzione digitale. Questa è la conclusione dei risultati raccolti da Scholastic, l’editore che si è aggiudicato i diritti per l’america di Harry Potter.

Dopo aver coinvolto oltre 2.000 bambini e adolescenti dai 6 ai 17 anni e i relativi genitori nel sondaggio, l’editore americano ha osservato i cambiamenti tecnologici, rilevando che i genitori e gli educatori sono da tempo spaventati del fatto che dispositivi come videogiochi e cellulari possano allontanare i figli dalla lettura. Tuttavia proprio le nuove tecnologie potrebbero introdurre i bambini verso un approccio alla lettura, attraverso i computer, i dispositivi mobili ed infine gli ebook.

Circa il 25% dei bambini intervistati ha dichiarato di aver letto un libro su un dispositivo digitale (computer/ebook), mentre molti altri sarebbero interessati a farlo. Il 6% dei genitori possiede un ebook, mentre il 16% sarebbe interessato ad acquistarlo.

Secondo Francie Alexander, questo cambiamento è una specie di chiamata al’azione: «Non mi rendevo conto di quanto i bambini avessero abbracciato le tecnologie. Chiaramente essi le vedono come strumenti per la lettura e non solo per i giochi. Le considerano un’opportunità per leggere».

Di diverso avviso molti genitori, preoccupati che la lettura dei figli possa essere troppo superficiale, oppure che essi passino ancora più tempo sui dispositivi digitali. Ma dallo studio emerge anche un dato illuminante: i bambini nella fascia d’età tra 9 e 11 anni hanno più probabilità di leggere se i loro genitori li forniscono di libri ed impongono dei limiti all’uso della tecnologia per il gioco. Infine, un dato allarmante: il 39% dei bambini considera le fonti trovate su Internet “sempre corrette”.

Sarà ben contenta Amazon.com, che offre il suo lettore di ebook Kindle: il mercato è in continua crescita, anche se ci sono ancora forti sacche di resistenza. Sono in molti, infatti, coloro che ancora non hanno la possibilità economica di accedere ad un lettore di ebook e la resistenza psicologica al passaggio ne sconsiglia pertanto l’acquisto. In questo senso Amazon ha già risposto avviando decise politiche di riduzione dei prezzi: l’ultima versione di Kindle costa circa 139 dollari, una cifra decisamente inferiore a dispositivi quali i tablet PC.

Twitter supera MySpace e diventa il terzo social network dopo Facebook e Windows Live Profile

[Il Sole24Ore 30/09/2010]

Negli ultimi anni tre social network si sono contesi i vertici delle classifiche globali: Facebook, MySpace e Windows Live Profile. Con rapide ascese e lenti declini. Adesso entra nei giochi un quarto pretendente, Twitter, il servizio per scrivere brevi messaggi con i microblog. E ad agosto ha dimostrato di aver allungato il passo: ha superato MySpace per utenti unici connessi in un mese, con un aumento del 76% rispetto all'anno precedente. A rivelarlo è la società d'analisi ComScore.

Il pubblico online decide il successo su scala globale attraverso la partecipazione. Ma può migrare anche da una rete sociale all'altra. Intanto Facebook continua a macinare record. Resta in cima con 600 milioni di persone che si sono connesse ad agosto e una platea di mezzo miliardo di utenti. Se fosse una nazione, sarebbe la terza al mondo. E progetta di espandersi in Brasile e India, due frontiere dove avanza sui rivali locali. In particolare, a New Delhi gareggia in un testa a testa con Orkut, il social network progettato da Google. Ma guadagna terreno.

Nella classifica globale di ComScore, invece, Windows Live Profile è in seconda posizione: si tratta di una piattaforma che include blog, spazi per la condivisione di immagini, servizi di posta elettronica. Ha raggiunto 140 milioni di visitatori.

Al terzo posto è salito Twitter: come Facebook e MySpace, è stato fondato da ragazzi con meno di trent'anni. Che hanno intuito l'evoluzione delle piattaforme online. Twitter ha puntato soprattutto sul testo: permette di scrivere messaggi non superiori alle 140 lettere, meno di un sms. È un limite che spinge gli utenti a un'estrema capacità di sintesi. E ha semplificato le comunicazioni all'essenziale, con poche parole e link. Negli Stati Uniti è decollato a partire dalla Silicon Valley. E ha conquistato la ribalta globale dopo le proteste degli studenti in Iran: è stato utilizzato per diffondere i messaggi sulle manifestazioni di Teheran.

Nel frattempo è diventato uno strumento di comunicazione per politici, star, scrittori. Anche il Dalai Lama ha aperto un profilo sul microblog. MySpace, invece, affronta un declino. È stato il primo social network a raggiungere una dimensione globale, acquistato dal magnate australiano Rupert Murdoch per 580 milioni di dollari. Poi, però, ha rallentato l'avanzata in seguito all'ascesa di Facebook. Ha puntato da subito sulla musica (consente di ascoltare canzoni in streaming) e per cantautori e band è diventato un punto di riferimento. Ma non è riuscito a seguire il passo di Facebook.
Luca Dello Iacovo

martedì 28 settembre 2010

«Facebook? Occhio alla privacy». L'intervista a Federico Guerrini

[mentelocale.it 28/09/2010] I social network, da Facebook a YouTube passando per Twitter, non sono soltanto un nuovo modo di vivere Internet. Rappresentano anche un nuovo mondo con luccicanti meraviglie e insidie non sempre visibili. Ecco perché nascono professionalità specifiche per esplorare questi nuovi spazi sociali globali.
È il caso dei consulenti per i social media. Uno di loro è Federico Guerrini, nato a Milano nel 1972. Una figura eclettica che incarna la commistione di generi tipica del web: Guerrini, oltre a lavorare come consulente, è un giornalista e scrive libri. Probabilmente la persona più adatta per capire meglio il mondo dei social network.

Federico, iniziamo dalla fine: nel tuo ultimo libro
Facebook Reloaded, analizzi il panorama italiano di Facebook dagli esordi ai giorni nostri. Cosa fanno gli italiani su Facebook? Cosa cercano?
«Gli italiani su Facebook, secondo le ultime rilevazioni, sono circa 16 milioni. È un fenomeno che riguarda tutte le fascie d'età (anche se le più numerose, in valore assoluto, sono quelle fra 19 e 24 anni e fra 36 e 45) e tutte le estrazioni sociali. I comportamenti quindi sono i più variegati: c'è chi lo usa per divertirsi con Farmville o ad altri giochi online, chi cerca di fare nuove conoscenze per scopi sentimentali e c'è anche una piccola ma agguerrita minoranza che lo usa per scopi professionali in senso lato».

Quali sono i tre consigli principali per un utilizzo consapevole di Facebook? Viceversa, cosa va assolutamente evitato?
«Il primo, direi, è quello di non accettare o inviare acriticamente richieste di amicizia. Spesso capita di aggiungere una persona e poi scordarsi di averlo nel proprio elenco di contatti. Si scrive perciò di tutto e di più sulla propria bacheca, dimenticandosi che c'è qualcuno che ci legge e non sappiamo nemmeno chi sia. Il secondo, è quello di creare delle liste di amici, con diversi livelli di permesso, in modo da rendere visibile i contenuti di volta in volta pubblicati solo ad alcuni e non ad altri. Il terzo è quello di controllare e aggiornare periodicamente le proprie impostazioni sulla privacy, magari escludendo determinate persone dalla visualizzazione delle nostra bacheca, senza che per questo sia necessario rimuoverle dall'elenco degli amici».

Come giornalista, quali sono le storie, i casi, i personaggi più emblematici dei social network che tu hai raccontato?
«Ti confesso che non mi piace il gossip associato ai social network, per cui non me ne occupo molto; ricordo però il caso di un hacker che aveva messo in vendita online un milione di credenziali di accesso a Facebook, rubate ai legittimi possessori, e anche il caso di un ragazzo che prima di suicidarsi aveva lasciato un messaggio in bacheca».

Secondo te Facebook è una moda di passaggio per divertirsi facendo amicizie oppure sta trasformando internet e il modo in cui comunichiamo?
«Beh, ormai direi che parlare di moda è improponibile. Facebook è online dal 2004, in Italia è esploso tardi, ma sono più di due anni che se ne parla in continuazione. Inoltre, il fatto di aver raggiunto ormai il mezzo miliardo e oltre di utenti, gli garantisce una tale massa critica che sarà difficile trovare un sostituto a breve. È chiaro che sta trasformando molto l'approccio a Internet, ha avvicinato alla Rete tante persone che prima la guardavano con sospetto e ha sostituito in parte l'approccio alle ricerche fondato sulle query di Google con un approccio basato sui consigli degli amici. Se sia un bene o un male non lo so. Per ora, direi che i lati positivi superano quelli negativi».

Si parla spesso di trovare lavoro grazie ai social media. Come si fa? Tu ci sei riuscito?
«In parte. Il contatto per il primo libro che ho scritto è nato proprio grazie a un social professionale, Xing. Una persona ha messo un annuncio cercando autori e io ho risposto. Avevo però esperienza di scrittura e di giornalismo, informatico e non, alle spalle. I social network sono uno straordinario strumento per ampliare i propri rapporti sociali e per raggiungere persone altrimenti inavvicinabili, però bisogna partire da una base, da qualche competenza acquisita sul campo».

Uno dei lati oscuri di Facebook è la tutela della privacy dei suoi membri. Hai scritto un libro anche su questo argomento, intitolato Proteggi la Privacy: quali sono i rischi che corrono i nostri dati online e come possiamo realmente difenderli?
«Ti ringrazio della domanda, è un argomento che mi sta particolarmente a cuore. È meglio chiarire che tutto quello che mettiamo online, in un modo o nell'altro, può essere rintracciato. E questo anche dopo molti anni: il concetto di oblio non esiste su Internet, almeno per il momento. Per quanto riguarda i dati sensibili, i consigli di base sono quello di scegliere una password, lunga e piena di numeri, punteggiatura e simboli. Alcune tecniche per crearne di simili e memorizzarle le racconto nel libro e le trovate anche nel mio blog privacy.blogosfere.it. Poi bisogna ricordarsi di cancellare periodicamente i cookie e la cache del browser e di usare sempre un firewall quando ci si connette. Piccole cose, che non servono contro un tentativo di penetrazione mirato, ma che evitano gli attacchi occasionali».

Hai scritto anche un libro dedicato Twitter, un social network che spopola in America ma non ancora da noi: cosa c'è di diverso rispetto a Facebook?
«Proprio mentre rispondo a questa domanda, Twitter sta cambiando pelle, avvicinandosi molto nell'aspetto e nelle funzionalità a Facebook. Quello che dovrebbe continuare a distinguerlo, è la lunghezza massima dei messaggi che si possono inviare: 140 caratteri di testo. Questo dà luogo a una comunicazione sincopata e senza fronzoli, ma anche senza molto spazio per comunicare emozioni. Quello che distingue Twitter è anche il fatto che la comunicazione è asimmetrica: si può seguire una persona anche se questa non ci segue; in Facebook, invece, l'amicizia è sempre reciproca».

Guardiamo alle novità. Le nuove tendenze sono i geo-social network, come Foursquare, ovvero social network basati sulla localizzazione geografica dei loro membri. Dopo tanti anni di rete globale, riscopriamo quant'è bello l'angolo di fronte e il vicino di casa?
«No, non mi pare che lo spirito di Foursquare o Gowalla o Places sia questo. Si propongono piuttosto come strumenti per individuare qualcosa nella folla, che sia un ristorante, un museo, una libreria. Le tracce lasciate dai nostri amici su una mappa, fungono da ideale filo d'Arianna anche per noi. Oppure possono essere usati per incontri estemporanei fra persone che si trovano momentaneamente vicine e hanno scoperto, magari su Facebook, di avere un qualche tipo di affinità fra loro. Per il momento, mi sembrano però uno strumento più utile per le aziende, per schedare ulteriormente i consumatori, che una vera esigenza per gli utenti».

Ultima domanda: secondo te qual è la prossima svolta epocale nei social media?
«Se lo sapessi, sarei ricco... A parte gli scherzi, di svolte in arrivo ce ne sono parecchie. Quella che mi sembra più di impatto, anche se i social media c'entrano fino a un certo punto, è relativa al cosiddetto internet delle cose e alla tecnologia Rfid. Gli oggetti comunicheranno sempre più fra loro e con noi e con la nostra rete di contatti su Internet. Dai cartelloni pubblicitari che ci riconosceranno quando gli passeremo davanti, agli innesti nel nostro corpo per motivi sanitari o di inserimento sociale. Saremo tutti sempre in Rete, anche senza bisogno di telefonini, un po' come i tecnodroidi di Nathan Never: spero un po' più belli e meno bellicosi».

Wikicrazia di Alberto Cottica, il web 2.0 applicato alla pubblica amministrazione

[Panorama 28/09/2010] Oggi parliamo di un libro scritto da due persone diverse: la prima è un musicista, ha solcato i palchi di tutta Italia imbracciando la fisarmonica dei primi Modena City Ramblers e continua a girare il mondo con i Fiamma Fumana; la seconda è un economista, è project manager del Dipartimento politiche dello sviluppo del Ministero dello Sviluppo Economico e lotta per una “economia il cui motore principale sia l’intelligenza umana”. Entrambe le persone rispondono al nome di Alberto Cottica, e dalla fusione di queste due anime nascono un concetto e un libro di prossima pubblicazione: Wikicrazia (232 pagine, Navarra Editore).

Wikicrazia è una visione entusiasmante di quello che le politiche pubbliche potrebbero diventare nell’era di Internet: la mobilitazione di una intelligenza collettiva, attraverso la collaborazione creativa tra gli amministratori, le organizzazioni nonprofit, e soprattutto migliaia e migliaia di cittadini”. Questo scrive David Lane, professore di Economia all’Università di Modena e Reggio Emilia, in una delle prefazioni al libro.

Si tratta di un ragionamento naturale, ma tutt’altro che banale: in un’epoca dove il web 2.0, il crowdsourcing e l’open source stanno rivoluzionando l’informazione, la comunicazione, l’arte in generale e, in alcuni casi, persino la ricerca scientifica; come può trasformarsi la pubblica amministrazione? Come possono i cittadini sfruttare la Rete per diventare protagonisti della “cosa pubblica” e, soprattutto, cosa dovrebbe fare un governo per rendere questa partecipazione possibile?

Il libro è il risultato di una lunga serie di riflessioni su come la Rete possa insegnare molto alla politica locale e all’amministrazione del territorio” ha dichiarato Cottica in una recente intervista a Wired; “concetti tipici dell’etica hacker – trasparenza, aiuto reciproco, libertà – sono tutti elementi che possono fare assai bene alle “politiche” prima ancora che alla “politica”. Dalla segnalazione diretta di un problema di fianco a casa (una rotonda costruita male, ad esempio) a forme di discussione più raffinate.”

Un esempio di modus operandi 2.0, del resto, lo ha dato lo stesso Cottica, aprendo al pubblico della Rete il cantiere dei lavori su Wikicrazia. Dopo aver completato una prima bozza del romanzo, il bardo-economista ha invitato i naviganti a contribuire alla versione beta del saggio. Risultato: una quarantina di persone (i Wikicratici) hanno contribuito alla stesura della bozza finale di Wikicrazia che, stando allo stesso Cottica, presenta una qualità notevolmente superiore.

Il libro Wikicrazia. L’azione di governo al tempo della rete: capirla, progettarla, viverla da protagonista uscirà venerdì 30 settembre.

domenica 26 settembre 2010

“Web 2.0 e alta formazione:un connubio possibile?”

[26/09/2010 ]

Da Techmex un articolo che mostra come le TIC possano risolvere l’impasse in cui alcune università sembrano versare.

Passando il rassegna le pecche dell’attuale situazione scolastica, ma anche sociale, in cui versa la formazione italiana, dopo aver ricordato le parole di Tullio De Mauro e della dirigente veneta che denuncia la grave ignoranza delle giovani generazioni in fatto di lingua italiana, la sottoscritta passa a considerare la formazione universitaria, dove sembra che il diavolo non sia così nero come si suole dipingerlo. Non é raro infatti rilevarvi buone pratiche degne di essere applicate con entusiasmo perché efficienti ed efficaci.

Ne é un esempio il progetto L’università che vorrei“, concepito e attuato da Maurizio Galluzzo.“Undici i punti presi in considerazione, tutti basati sulla centralità dello studente, sulla gratuità di mezzi e servizi, sulla partecipazione attiva dei soggetti interni ed esterni all’università (apprendimento cooperativo esteso a tutto il popolo della rete), sul potenziamento e l’accessibilità alle tecnologie d’informazione e comunicazione, sulla continua valutazione in itinere, anonima e dal basso, del processo di apprendimento, sull’assoluta gratuità dei materiali da diffondere in rete e da condividere attraverso gli ambienti più idonei ad una più agevole, creativa, attuale, fattiva, collaborazione (blog, social network come facebook, documenti condivisi e tutto quanto la rete renda di facile compilazione, consultazione, condivisione” [...]

E i risultati ci sono, sorprendenti e accattivanti, come dimostra il successo dello IUAV camp 2010, che ha visto la partecipazione di ben 400 iscritti, di cui 160 allievi che hanno presentato i loro progetti, concepiti, passo per passo, attraverso l’interazione continua con chiunque abbia voluto dire la sua (pensate che anch’io ho osato tanto – sic!), per suggerire, criticare, stimolare e (perché no?) manifestare il proprio compiacimento e la propria sorpresa per un processo assolutamente da studiare, copiare, porre in essere, nelle sue linee essenziali, ma soprattutto nelle modalità operative, ovunque si desideri finalizzare la formazione universitaria allo sviluppo culturale, sociale, economico e tecnologico del nostro Paese.

Allora benvenuto web nella formazione universitaria, che il tuo avvento riesca a fermare il declino dell’istruzione e sia foriero di nuove conquiste, nel sapere, nella scienza, nel progresso!”

sabato 25 settembre 2010

Facebook e Twitter non fermano la crescita dei blog

[lsdi 25/09/2010]

Blogging1Nel 2014 saranno almeno il 60% (contro il 50% di oggi) gli internauti americani che leggeranno un blog almeno una volta al mese – Una ricerca di eMarketer – La crescita continuerà fino a quando i blog aumenteranno la loro influenza sui media mainstream

————-

I social network e i microblog hanno scalzato in questi ultimi anni il blogging dal piedistallo dei social media. Per alcuni utenti, quelli che hanno sotto mano più strumenti di comunicazione rispetto a qualche anno fa, Facebook e Twitter hanno soppiantato i blog come sbocchi principali. Ma i blog continuano ad essere importanti.

eMarketer, in particolare, stima che quest’ anno più della metà degli internauti leggeranno un blog almeno una volta al mese. Nel 2014 i lettori di blog negli Usa cresceranno a più di 150 milioni,cioè il 60% dei navigatori americani. E una delle ragioni di questa crescita è che i blog sono diventati una parte importante del paesaggio mediatico.

“Ci si attende che la crescita continui a mano a mano che i blog continueranno ad accrescere la loro influenza sui media mainstream”, osserva Paul Verna, senior analyst di eMarketer e autore di una nuova ricerca dal titolo “The Blogosphere: Colliding with Social and Mainstream Media. “Ma c’ è un avvertimento da fare: col tempo i blog finiranno per essere sempre più indistinguibili dagli altri canali informativi”.

Blogging2La produzione dei blog, invece, è un’ attività più di nicchia. Solo il 12% della popolazione online aggiornerà almeno una volta al mese un blog quest’ anno, stima eMarketer. Mentre nel 2014 questa percentuale dovrebbe crescere un pochino, toccando il 13,3%.

Ci sono diversi fattori che determinano la crescita del blogging, fra cui la facilità di uso delle piattaforme di personal blogging e il crescente peso dei blog come strumenti di informazione. Ma nello stesso tempo, social media come Twitter e Facebook stanno fornendo agli utenti una strada alternativa e meno intensiva per comunicare le proprie idee al mondo. Il blogging non è più il mezzo principale per esprimere se stessi online.

(via Giornalaio; il sito dà notizia anche di una interessante infografica realizzata da Infographic Labs per The Blog Herald sullo stato della blogosfera aggiornata al 2010)

Foursquare, l'app per scoprire e condividere i luoghi della tua città

[LaStampa.it 25/09/2010] MILANO
Una piattaforma di microblogging e una guida per orientarsi. Sono questi gli elementi che contraddistinguono Foursquare, servizio di geolocalizzazione che consente di condividere con il proprio smart phone il luogo in cui ci si trova, che si tratti di un ristorante, di una piazza, o della stazione della metro. «Tanti più luoghi si scoprono e si condividono con i propri amici, alimentando una sorta di sfida tra i partecipanti al social network, tanti più riconoscimenti si ricevono», afferma Naveen Selvadurai, co-fondatore di Foursquare, ospite dell'ultima giornata del Social Media Week, evento che raccoglie e racconta i trend più importanti che emergono dalle rete. La componente del gioco, sottolinea Selvadurai, è l'elemento essenziale per poter favorire la condivisione di idee e spingere le persone ad utilizzare un determinato servizio.

Federico Ferrazza, coordinatore di Wired.it, sottolinea il fatto che entro quattro anni il mercato della geolocalizzazione negli Stati Uniti avrà raggiunto i dodici miliardi di euro. A questo aspetto si lega inoltre la crescita esponenziale che negli ultimi anni ha coinvolto il mercato pubblicitario locale, a dispetto di quello nazionale. Che cosa accadrà, si chiede Ferrazza, quando Foursquare, che oggi conta circa tre milioni di utenti, avrà raggiunto una vera e propria massa critica? E come verranno sfruttati dalle aziende questo genere di servizi?

Alla questione ha provato a rispondere Alessandra De Carlo, responsabile del Marketing Mobile Data di Vodafone Italia. «Foursquare ci piace molto, ha sostenuto De Carlo, soprattutto nei suoi aspetti di mobilità e condivisione». Ciò che Vodafone intende attuare in questa direzione, consiste nell'agevolare la connettività degli utenti e nel fornire un contributo decisivo all'eliminazione del “digital divide” che oramai da troppo tempo affligge il nostro Paese. Il passo successivo sarà quello di portare su mobile sempre più applicazioni, «puntando sulla qualità dei contenuti e lavorando sui social network per poter imparare ad ascoltare i feedback dei nostri utenti».

Dello stesso avviso è Daniela Cerrato, direttore della Business Unit Femminili Mass Market del Digital Publishing di Mondadori, che ricorda la necessità di veicolare il giusto messaggio a un pubblico attivo che reagisce a determinati stimoli e interagisce di conseguenza. In occasione della Fashion Week, spiega Cerrato, Foursquare verrà utilizzato della redazione di Donnamoderna.com per poter aprire ulteriori canali di dialogo con le nostre lettrici.

Malgrado gli sviluppi interessanti che un servizio di questo genere è in grado di proporre, restano da risolvere alcuni punti delicati legati alla privacy degli utenti, all'interoperabilità del servizio e soprattutto ai modelli di business che in questo contesto potrebbero nascere. Nel caso dei primi due, Selvadurai non ha dubbi: «La condivisione delle informazioni avviene tra persone che hanno stretto amicizia in maniera reciproca e sul nostro sito sono disponibili le API della nostra applicazione», ovvero tutti gli strumenti per poter integrare Foursquare con qualunque tipo di servizio. Sul terzo aspetto, pare ci sia qualche perplessità in più. «In quest'ultimo anno abbiamo imparato molto, afferma Selvadurai, e i nostri sforzi oggi sono orientati a capire quali sono i modelli di business che verranno».

GIUSEPPE FUTIA

giovedì 23 settembre 2010

Il tradimento del web 2.0

[Giornalismo partecipativo - Gennarocarotenuto.it 22/09/2010]

L’attrice Sabina Guzzanti è seguita in Twitter da 24.759 persone, ma non è interessata a seguirne alcuna. Il suo non è un caso isolato e mette a nudo il fatto che oggi a Sabina Guzzanti e migliaia di personaggi più o meno pubblici (o ai loro uffici stampa) non importi usare le utilità del Web 2.0 per interagire con chicchessia, ma interessi soltanto utilizzare un medium orizzontale per trasformarlo in uno strumento verticale.

Quando nell’aprile 2004 Silvio Berlusconi mandò milioni di SMS per invitare gli elettori a votare nelle elezioni europee sapeva perfettamente cosa faceva. Stava torcendo il braccio ad un medium uno a uno, orizzontale, per trasformarlo, a suoi fini, in un medium broadcast, col quale si trasmette da pochi a molti.

Silvio Berlusconi, dall’alto di possibilità economiche praticamente infinite rappresenta l’eccezione che conferma la regola: i “media personali di comunicazione di massa” restano un modello di interazione comunicativa nella quale senza scambio, senza forme di equilibrio, c’è una ritrasformazione in broadcast e la comunicazione torna unidirezionale.

Se in un social network come Facebook voler diventare “amico” di un personaggio noto che non si conosce di persona è la cifra di una sinonimia al ribasso tra “amico” e “fan”, in strumenti di informazione come Twitter tale giustificazione non vale perché l’essenza stessa dello strumento, almeno da persona a persona, è altra.

Anche se il Corriere della Sera o CNN usano Twitter ne distorcono il senso perché tendono a inondare il medium con un overflow di informazione scarsamente gestibile. Lo stesso accade per strumenti come i feed RSS nati per seguire molti media partecipativi con pochi post al giorno ma che diviene ingestibile quando è occupato manu militari da grandi media che pubblicano centinaia di articoli al giorno. Ma questa è una debolezza laterale del medium. Il merito del problema qui è che Sabina Guzzanti, o chi per lei, è una persona che con Twitter parla ad altre persone ma rifiuta ( e quello zero alla casella “following” lo dichiara) di ascoltare.

Evidentemente un comunicatore popolare tende ad essere seguito da più persone di quelle che a sua volta segue. Se ti seguono in mille, tu puoi seguire 10-50-100. Ma se scegli di non seguire nessuno vuol dire che il medium non ti interessa per quel che è ma nella misura nella quale lo puoi trasformare in altro: un mezzo di promozione della tua immagine, eludendo qualsiasi tipo di interattività.

Perciò vanno stigmatizzati come un uso distorto del medium esempi come quello di Sabina Guzzanti e che tocca sempre più persone e personaggi più o meno noti, che usano intensamente Internet nella promozione della propria immagine ma rifiutano lo scambio e l’interazione con altri interlocutori, proprio perché questa sarebbe alla pari. Fate come vi pare. Ma, se proprio voglio, vi guardo in TV.

mercoledì 22 settembre 2010

Media sociali, condivisione e partecipazione informata

[Wired.it 22/09/2010]

Tantissimi spunti e zero fuffa smart al primo appuntamento di peso della Social Media Week. Il primo convegno - con un ospite d'eccezione come Stefano Rodotà - è dedicato ai temi più caldi del web 2.0: il rapporto fra le nuove modalità di partecipazione online e la loro applicazione in chiave di etica pubblica.

Secondo Rodotà, la rete non può essere imbrigliata: può però essere regolamentata con una sorta di Costituzione del web in grado di esaltarne le caratteristiche migliori in termini di partecipazione informata. Quando parliamo di navigazione, suggerisce Rodotà, non usiamo soltanto una metafora: la rete è davvero come il mare, qualcosa che sfugge alla sovranità classica - sia essa economica o statale, sia essa la centralizzazione dei grandi gruppi o la legge bavaglio. Per questo serve una carta che ne mappi i diritti: affinché rimanga sempre un patrimonio di libertà, e non venga geneticamente modificata.

"Se rimanesse anche solo il luogo del puro cazzeggio", ride il vecchio Rodotà, "mi preoccuperebbe assai di meno. Quello che mi preoccupa è che la vera partecipazione non sia lesa".

La cittadinanza contemporanea è ormai ridefinibile in termini di possibilità di agire nella sua ricostruzione online, sempre tenendo presente il suo impatto nel mondo reale. Da utenti e navigatori siamo passati una volta per tutte a persone e cittadini che danno voce alle loro possibilità e ai loro progetti.

Apre quindi le danze il direttore del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino, Juan Carlos de Martino. Il professore spiega che le reti sociali sono vecchie di almeno trent'anni (basti pensare ai profili associati alle e-mail di AOL): dunque più dello stesso Mark Zuckerberg. In ogni caso, Facebook invita a delle riflessioni serie proprio per le sue dimensioni inaudite: secondo de Martino, il fatto che così tante persone dipendano da una rete tanto centralizzata non è tanto un vantaggio quanto uno svantaggio.

In primo luogo, come ormai sappiamo, Facebook conosce e traccia praticamente ogni click dei suoi utenti. Quello che potrebbe essere un paradiso di dati per la ricerca sociologica, però, è di fatto un database privato utilizzato per fini commerciali o di marketing.

In secondo luogo, centralizzazione è il vero nome del tanto citato cloud computing. Può sembrare l'esatto opposto, e invece no: le enormi webfarm come Facebook e Google vanno a sostituire di fatto i personal computer dove ognuno possedeva tutte le informazioni sul proprio disco rigido. Ora disco e CPU sono sottoutilizzati, e tutto è condiviso, ma anche in mano ai grandi colossi.

Una reazione possibile? Riprendere i propri dati, e dunque i propri server - e insieme le proprie regole di esportazione e controllo. In questo senso, Diaspora potrebbe essere il modello giusto per una decentralizzazione autentica. Dove nessuno tocca le tue informazioni finché non glielo consenti.

Appassionato e viscerale lo speech di Giuseppe Attardi, professore di Informatica a Pisa: "Dalla società della conoscenza alla società delle conoscenze". Attardi ricostruisce in breve la storia del web moderno: dal 1995 al 2000 il web ha assistito a una guerra feroce tra i bellhead (che volevano delle reti centralizzate e "intelligenti", con scarsa attenzione alla periferia) e i nethead (che invece sostenevano una rete decentralizzata, quale appunto è internet, dove l'intelligenza sta negli utenti e non nei pacchetti di informazione in sé: in parole povere, i precursori del web 2.0).

La vittoria dei nethead - grazie a Dio, secondo Attanasio, e la sua tesi è condivisibile - è stata consacrata dalla Strategia di Lisbona e le sue proposte di riforma di internet come una vera società della conoscenza: contenuti liberi, tendenzialmente aperti e fruibili per chiunque.

Bene. E dal 2000 a oggi? Qui comincia la parte brutta della storia: non è successo niente. La politica non ha investito in questa rivoluzione, mantenendo spaventosamente alti i prezzi degli accessi (basti pensare agli SMS, che costano zero ai gestori), specie di fronte a un hardware sempre più economico. Per non parlare del crollo dei fondi per la banda larga in Italia: ulteriore conferma, a giudizio di Attardi, di quanto la politica non comprenda le necessità della rete contemporanea.

Quindi l'utopia della società della conoscenza ha fallito, e siamo passati a una società delle conoscenze: si frequentano amici invece di informazioni, e si finisce ad accettare l'idea di pagare per i servizi più banali. "Perché la conoscenza non è più condivisa", conclude Attardi invitando alla resistenza: "e invece di creare contenuti seri, il tempo libero è sempre più dedicato al puro cazzeggio".

In questo panorama critico apre una parentesi luminosa Annibale D'Elia, fra i responsabili del progetto Bollenti Spiriti: un'avventura partecipativa per i giovani pugliesi, con l'obiettivo di rivalutare luoghi abbandonati e impiegare al meglio i finanziamenti europei per gli under 35. Se il tema all'ordine del giorno è "Chi lavora per internet deve o meno scappare dall'Italia", Bollenti Spiriti si interroga se "chi fa qualunque cosa deve o meno scappare dalla Puglia".

La storia raccontata da D'Elia dimostra che la risposta è no. Che dare voce alle buone idee è sempre possibile.

Di fronte a un panorama di effettiva sfiducia nella pubblica amministrazione, e un ecosistema di scarse possibilità rappresentative, Bollenti Spiriti ha creato un'enorme rete sociale a basso costo condividendo innanzitutto le risorse: fuori dai denti, dando soldi ai giovani pugliesi con progetti. In questo modo, investendo i singoli della responsabilità di fare qualcosa per il territorio, ha riattivato un sistema di fiducia e condivisione che sembrava perduto.

Per i risultati, basta guardare il loro sito. Per una sintesi, è illuminante quanto dice D'Elia: "Con questo progetto, l'istituzione pubblica - fossile per tradizione in Italia - è diventata una vera piattaforma di lancio".

Chiude l'incontro il big di turno, Stefano Rodotà. Tirando le fila dei molti temi toccati, l'ex garante della privacy punta l'indice sulla necessità di comprendere politicamente il valore della rete sociale come forma di redistribuzione del potere.

L'unico modo per tenere saldo questo valore è appunto mantenere l'autonomia dell'apparato informativo di ognuno: i miei contatti, le mie informazioni, il cosa mi piace o meno su Facebook, si traducono in danaro per il web advertising. Perché dovrei cederli con leggerezza?

Giorgio Fontana

martedì 21 settembre 2010

Wsj, i bambini sono i più monitorati online

[Quo media 20/09/2010]

Bambini e ragazzi sono gli internauti più ‘monitorati’ della rete. A dirlo è The Wall Street Journal, secondo cui i siti statunitensi più popolari dedicati agli under18 presentano mediamente 4.123 cookie e altre tecnologie simili per tenere sotto osservazione le attività dei navigatori.

In media, i siti per bambini presentano il 30% di sistemi ‘followers’, che raccolgono i dati degli utenti seguendoli online e tracciandone poi un profilo virtuale, al fine di venderlo alle società di marketing e pubblicitarie. Questi dati escludono le informazioni sensibili (nome e residenza), ma raccolgono gusti, abitudini, età utili per definire la tipologia di consumatore di ciascun sito.

lunedì 20 settembre 2010

L'insegnamento telematico passa per il web 2.0

[La Repubblica - Affari e Finanza 20/09/2010] E' Web 2.0 il riferimento comune alle tecnologie telematiche utilizzate dalle università a distanza. «Web 2.0 - spiega Carla Pampaloni, direttore della produzione didattica multimediale dell' Università Marconi - è un termine che indica l' insieme delle applicazioni online, come i blog, youtube, facebook, che consentono una interazione tra utente e programma applicativo». Secondo questa impostazione l' Unimarconi ha costruito la sua piattaforma didattica, brevettata con l' acronimo Sim (sistema integrato multimodale della didattica), che si basa su 5 differenti canali, che lo studente telematico può scegliere per usufruire dei contenuti dei corsi. «Il primo canale - precisa Pampaloni - è la piattaforma web, da cui sono fruibili le video o audio lezioni ed il materiale didattico di supporto, e dove l' attività dello studente viene tracciata, e riportata in un report. Il secondo canale è il tv learning, ovvero la classica web tv, dove possono essere visualizzati servizi di approfondimento, alcuni in chiaro, ed altri criptati, visualizzabili dai soli studenti». Gli altri tre canali sono destinati in particolare agli studenti meno pratici di telematica. Si tratta dell' ebook learning, del mobile learning, e del mp learning. «L' Università Marconi - continua Pampaloni - regala a tutti i nuovi studenti un ebook reader, che può essere aggiornato con i contenuti didattici dei corsi via via disponibili, attraverso un computer connesso alla piattaforma web, sebbene per le videolezioni sia necessario un modello diverso di ebook reader, mentre il mobile learning può essere fruito da qualsiasi cellulare che possa connettersi ad Internet, dove vi è un sito dell' università, dal quale sono scaricabili tutti i contenuti didattici, comprese le videolezioni. Infine, un' ultima possibilità è la fruizione delle lezioni, audio e video, attraverso un lettore mp3 o mp4, scaricabili sempre tramite un computer connesso alla piattaforma web». Anche nell' Università eCampus le tecnologie didattiche sono basate su Web 2.0: «Oltre alla fruizione dei contenuti didattici multimediali, è ormai disponibile l' apertura di un profilo per gli studenti - annuncia Riccardo Botteri, coordinatore dei sistemi informativi - così che gli studenti possono decidere di consentire alla propria famiglia la condivisione della propria vita universitaria, in una logica tutto sommato simile ai profili che si aprono nei social network, dove si condividono esperienze e si scambiano opinioni e consigli. Un' altra novità è l' utilizzo di server esterni con una capacità di trasmissione dati molto più grande di quelli nostri, con il risultato che ora è più rapido il trasferimento dei contenuti didattici, che comprendono videoconferenze, ricevimenti virtuali e scambio di esercitazioni tra docente e studente. Altre innovazioni - conclude Botteri - sono costituite dalla possibilità di emettere certificati universitari con firma e timbro digitale, e dall' apertura di un sito destinato ad aziende e studenti per il placement e le altre opportunità di esperienze lavorative come gli stage». Per Pampaloni dell' Università Marconi la scommessa del futuro si chiama web 3.0: «La tecnologia didattica farà un salto di qualità con l' intelligenza artificiale, che permetterà di ottenere simulazioni sempre più aderenti alla realtà, con il vantaggio, a differenza dei laboratori reali, di poter ripetere più volte gli esperimenti, il tutto in un ambiente a tre dimensioni». (m. d. p.)

Comunicazione non è overdose di rumore

[Il Fatto Quotidiano 20/09/2010]
C’è uno spazio comunicativo in crescita, davvero prezioso per rivitalizzare il dialogo democratico, a fronte di un rischio gravissimo: il suo inquinamento acustico e la sua colonizzazione da parte di ristretti interessi economici.

Il sociologo di Berkeley Manuel Castells lo definisce “autocomunicazione orizzontale di massa”: la piazza virtuale creata dai cosiddetti Web 2.0 e 3.0, “ossia il grappolo di tecnologie, dispositivi e applicazioni che supportano la proliferazione degli spazi sociali in Iternet” (Comunicazione e Potere, Egea Milano 2009).

Dimensione frequentata in prevalenza dalle generazioni più giovani, i cosiddetti Millenials (quanti hanno compiuto il percorso all’età adulta nel Terzo Millennio) che si sono formati sulla schermata del Pc o del cellulare; a differenza di noi anziani che l’abbiamo fatto sulla pagina scritta del libro. Non è un caso – per inciso – il successo de Il Fatto Quotidiano cartaceo che conquista lettori anche in questa fascia generazionale, solitamente refrattaria al cartaceo, proprio perché ha saputo sintonizzarsi con i format dell’on line.

Qui, nel cyberspazio, nel mondo wireless, si aprono autostrade per la discussione e la partecipazione in forme nuove, ancora tutte da esplorare e mettere a punto. Comunque già sappiamo che la vittoria elettorale di Zapatero in Spagna è anche figlia delle centinaia di messaggini che smascherarono la truffa mediatica tentata dal premier uscente Aznar per attribuire ai baschi l’attentato terroristico islamico della stazione di Atocha; che il successo di Obama è legato all’uso intelligente dei social forum; che la dissidenza cinese e iraniana utilizza i blog come megafono per denunciare le malefatte dei rispettivi regimi. Non va dimenticato come nel 2003 il blocco informativo delle autorità di Guangdong sull’epidemia Sars venne forzato grazie alle e-mail e agli sms dei medici e dei parenti degli ammalati.

Ci siamo ripetuti più volte che la mobilitazione per le grandi adunate del No-B Day del dicembre scorso è stata attivata proprio grazie alle potenzialità connettive della “mobile comunication”.

Dunque, le nuove tecnologie aprono opportunità pressoché infinite di incontro e confronto democratico. Ma su questo spazio di libertà stanno indirizzandosi le mire di chi vorrebbe asservirlo alle logiche della commercializzazione e del profitto. Si parla di “murdochizzazione dei media” e la battaglia per “Internet libera” è tuttora in corso. Così come la crescente denuncia dei rischi autoritari insiti nei processi di concentrazione nel mondo delle informazioni e ormai sono noti i danni arrecati alla determinazione degli orientamenti collettivi da tycoon come Rupert Murdoch o il nostro Silvio Berlusconi.

Ma c’è un’altra minaccia incombente, altrettanto pericolosa, rappresentata dall’uso deviato (e sostanzialmente distruttivo) che noi stessi facciamo di tale opportunità. Prendiamo questo blog, dove provo ad avviare discussioni critiche (e la critica – dice Michel Foucault – è lo smascheramento del Potere nei suoi discorsi di Verità e la Verità nelle sue pratiche di Potere). Fateci caso: non pochi interventi sono in perfetta sintonia con l’intento, seppure – ovviamente – sostenendo anche tesi molto divergenti e al limite contestative. Ed ecco che subito dopo irrompono post che non entrano nel merito ma tentano di bloccare la discussione con aggressioni verbali e sentenze apodittiche. E la comunicazione (che significa processo a due vie, come scambio di enunciati e feed back) viene sommersa da rumori antichi, tra l’insulto gratuito o il pernacchio plebeo; la brutta abitudine di storpiare i nomi (uso fascista, rilanciato per primo da Emilio Fede). Non è questione di bon ton, è molto di più: la dissipazione incivile della straordinaria possibilità di intendersi reciprocamente. Imbarbarimento delle pratiche discorsive spiegabile con il fatto che si sono perse le regole del dialogo e ormai ci siamo assuefatti allo spot come sostitutivo del ragionamento. E la garanzia di anonimato dello pseudonimo diventa il riparo da dove il cecchino può sparare indisturbato i suoi colpi proditori, un po’ vigliacchi.

Poi ci sono altri aspetti inquietanti, che inducono al sospetto sulla conclamata natura “sorgiva” di tanti discorsi in rete. Leggi simulazione commerciale della spontaneità. Infatti già operano società che – previo pagamento – intasano di commenti avversi un sito sgradito. Persino uno dei blog più frequentati – quello di Beppe Grillo – risulterebbe un artefatto: MicroMega (rivista a cui collaboro da oltre quindici anni) segnalava due numeri fa la sua totale gestione da parte di un gruppo di tecnici ex Telecom.

Insomma, contro le manipolazioni si consiglia come sempre l’uso critico della ragione. Perché, se le tecnologie sono neutrali, tale non è l’utilizzo che ne facciamo. Di cui dobbiamo assumerci la responsabilità. E vigilare. Soprattutto se si tratta dell’aggressione ai nuovi spazi comunicativi democratici.

Pierfranco Pellizzetti

giovedì 16 settembre 2010

Se i bambini sono esperti navigatori

[Punto Informatico 16/09/2010] Roma - Un imponente studio di circa 260 pagine, recentemente pubblicato dalla società di ricerca statunitense Nielsen Norman Group. Un'analisi approfondita, partita da un campione di 90 ragazzini tra i 3 e i 12 anni d'età. Obiettivo, scoprire le nuove abitudini di navigazione degli utenti più giovani.

Nielsen Norman Group aveva infatti pubblicato un precedente studio nell'anno 2001, sottolineando in sintesi come le competenze dei netizen più giovani non fossero paragonabili a quelle degli adulti. Una situazione che pare ora cambiata in maniera radicale.

La nuova analisi ha infatti mostrato come gli utenti più piccoli siano maggiormente propensi verso una navigazione da esperti della Rete. Ovvero una navigazione che sfrutti bookmark ed elenchi di siti preferiti anziché il più tradizionale meccanismo di ricerca online. L'utilizzo dei search engine sarebbe dunque appannaggio degli adulti.
E sono stati 53 i siti selezionati da Nielsen Norman Group per analizzare le varie modalità di interazione da parte dei giovani netizen a stelle e strisce. Che sembrano - ovviamente? - preferire le interfacce più colorate e dinamiche, votandosi principalmente all'intrattenimento a mezzo web.

C'è dunque chi ha ipotizzato una sorta di nuova divisione tra due categorie anagrafiche di pubblico. Mentre gli adulti rimarrebbero ancorati ad una navigazione marcatamente orientata verso il search, i più piccoli avrebbero imparato a sfruttare una mentalità decisamente più mobile, ovvero orientata verso la dimensione delle app.

Mauro Vecchio

"Il 2.0": l'intervento di Marco G. Matteoli alla conferenza de LoSchermo.it

[LoSchermo.it 16/09/2010] Con l'incontro di domenica scorsa si è parlato, tra l'altro, di Giornalismo 2.0, un ruolo - o una convenzione - che prelude ad una nuova concezione del rapporto che lega informazione, informatori e fruitori. Cosa sono, come si definiscono, qual'è il loro ruolo. Riapriamo la discussione, qui.

Bisogna partire - come scrive Giancarlo Livraghi - da due considerazioni importanti.

La prima è che le tecnologie vanno e vengono, le relazioni umane durano. La seconda è che il WEB non è l’INTERNET – e questo non è un “dettaglio tecnico” ma un fatto fondamentale. Molti oggi confondono internet e web, e certo giornalismo non ha contribuito in questo senso. Ora proverò a riassumere com'è andata.

Internet nasce circa cinquant’anni fa. Lo sviluppo è prima militare/universitario, poi commerciale ma solo dal 1991, quando nasce il web.

- - - - - - - -

Un po' di storia per determinare cos'è l'Internet e cosa il WWW.

Nel 1945 Vannevar Bush, il direttore del MIT e consulente del presidente Roosevelt, teorizzò un sistema di diffusione della conoscenza chiamato Memex. Il progetto non partì, ma ispirò pensieri futuri.

In quegli anni Neil Mc Elroy, un manager del settore pubblicità di Procter & Gamble, stava facendo carriera, fino a diventare presidente dell'azienda nel 1948. Lasciò Procter&Gamble nove anni dopo, chiamato dal presidente Eisenhower a sostituire il ministro della Difesa che si dimise il 9 ottobre del '57, giusto quattro giorni dopo il lancio nello spazio da parte dell'Unione Sovietica dello Sputnik I, il primo satellite al mondo. McElroy, pubblicitario e uomo di marketing, fu l'artefice, nel 1958, della nascita del progetto Arpa, che poi avrebbe prodotto gli studi di ArpaNet (l'antesignano di Internet) nei primi anni sessanta.

Nel 1965 Ted Nelson inventò il termine ipertesto per definire un linguaggio che permetta una gestione articolata nei contenuti (un concetto che era già stato definito vent’anni prima nel progetto Memex).

Nel 1967 si tiene la prima conferenza mondiale su ArpaNet, nel 1969 Arpanet fa il suo debutto operativo realizzando la prima rete tra quattro università americane.

Nel 1971 nasce il servizio di posta elettronica.

Nel 1973 si definisce il protocollo FTP per il trasferimento dati.

Nel 1981 c'erano complessivamente 200 host collegati alla rete delle reti nel Mondo

Nel 1982 il primo host internet italiano, il CNUCE di Pisa (oggi il CNR a Pisa è sede unica del NIC, cioè del registro dei domini .it)

Nel 1985 nascono le prime mailinglist, ossia gruppi di discussioni basate sullo scambio via email.

Nel 1989 Tim Berners-Lee al Cern di Ginevra sviluppò l’idea e le soluzioni pratiche da cui è nato il sistema world wide web, che lo avrebbero portato a mettere online il primo sito Web, il 6 agosto 1991. Oggi gli standard su cui è basato, in continua evoluzione, sono mantenuti dal World Wide Web Consortium (W3C).

Nei primi anni novanta si sviluppano i siti web un pò ovunque nel mondo, e aumentano velocemente gli host internet. Nacquero i primi motori di ricerca per il web e mororono pian piano quei sistemi di scambio e quei gruppi che erano basati su protocolli diversi dal worldwideweb, in (relativa) voga negli anni ottanta.

Poi si arriva al nostro decennio (2000-2010), con i dubbi sulla necessità di un sistema parallelo al primo (internet 2) a causa della possibile mancanza di indirizzi IP disponibili per le macchine collegate all'internet. Il problema non fu mai affrontato, grazie alla adozione di sistemi di distribuzione degli indirizzi per le aziende attraverso i router e con l'adozione dell'IPV6, che consentirà di gestire miliardi di miliardi di miliardi di indirizzi possibili.

E prende forma una nuova tendenza alla semplificazione, grazie anche alle relazioni con lo sviluppo della velocità di accesso all'internet. Si definisce per la prima volta il WEB 2.0

- - - - - - - -

Possiamo immaginare l'internet come una sfera di capi, di estremi, di collegamenti, alla quale ognuno di noi col nostro dispositivo (host) connesso è un estremo, ed è in relazione potenziale con chiunque altro. È nata in modo totalmente aperto e gratuito (internet è "stupida", grazie ai suoi inventori che erano intelligenti)

E possiamo immaginare il World Wide Web come un servizo che possiamo sfruttare una volta connessi all'internet, un servizio di relazione tra i contenuti cui si può avere accesso grazie agli ipertesti.

Ma come possiamo immaginare il Web 2.0? E di conseguenza, tutti i suoi derivati? Non è cambiato nulla dal punto di vista dei protocolli. Non è cambiato niente di tecnico, tra il world wide web di prima e quello di oggi. E allora?

Ma si tratta di un brand. Ossia di un marchio, creato ad hoc come per le patatine. Per vendere di più, o meglio, di nuovo.

Si dice che il termine Web 2.0 debba essere utilizzato per definire un particolare momento storico dell'evoluzione naturale dell'internet. Ecco, la prima riflessione da fare è sul "si dice".

Credo possa essere utilizzato anche per definire un paradigma, per superare un particolare momento di sfiducia dell'opinione pubblica e soprattutto degli investitori in relazione alla famigerata bolla speculativa nata per lo sviluppo smodato e vacuo di aziende (principalmente deputate alle transazioni commerciali) alla fine degli anni novanta. Tutti ricordiamo "la bolla delle dot com" come convenzione anche dell'informazione che etichettò la "new economy" come inconsistente attività.

Allora per cercare nuova linfa, per far partire nuove startup con maggiore attenzione e aspettativa di risultato si applicò un metodo sempre valido: cambiamo nome all'esistente. La comunicazione del world wide web aveva bisogno di uno slancio nuovo, per nuove applicazioni che offrissero le opportunità che l'internet davvero è in grado di offrire con la sua stolida efficienza.

La crisi globale che ancora oggi respiriamo è stata la fame che ha tolto il lupo dal bosco: un bosco che alla fine dei novanta era intricato di soluzioni, di tecnologia raccontata in modo misterioso e di idee di sviluppo dell'internet utopiche e assurde.

La convenzione è stata accolta dalle masse, grazie all'informazione (tradizionale, sui vecchi media) trasmessa presentando il Web 2.0 come la panacea della crisi che i servizi e i siti web avevano subito: un nuovo inizio, tutto bello, semplice e luccicante, come nuovo. Ma non sono i siti che consentono la partecipazione a determinare l'evoluzione.

C'è stato un cambiamento, nemmeno troppo auspicato dagli inventori del 2.0 sulla stampa e sui bollettini di marketing.

Il vero cambiamento è nella società.

Le persone, un pò alla volta, hanno cominciato a prendere coscienza del loro posto nella società in rete. Una società che per riunirsi non deve trovarsi nello stesso posto. Individui che nella società possono rivolgersi a chiunque, potenzialmente. Individui che potranno controllare l'informazione, discuterla, confrontarla, analizzarla.

Nulla di nuovo nel web, tranne la coscienza e le conversazioni. La partecipazione degli utenti. Strumenti più adatti per attrarre quel pubblico che prende le misure e si garantisce la possibilità di partecipare.

- - - - - - - -

Se quindi si definisce il neologismo "Giornalismo 2.0" anche qui siamo di fronte ad un marchio, e forse il giornalista crea uno spettro a se stesso per una questione di definizioni. In Italia c'è ancora una larga dissonanza di informazioni sull'argomento, più che in altri paesi, perchè si sta facendo chiarezza su temi che altrove nel mondo sono più noti alla società.

Il giornalismo si arricchisce o si evolve, così come si è evoluto nel secolo scorso, quando non esistevano giornalisti televisivi, e la novità fu salutata con sospetto anche allora.

La comunicazione, come ha sapientemente indicato Watzlawick possiede aspetti di contenuto e di relazione, ossia oltre il significato delle parole ogni comunicazione contiene più informazioni: l'approccio e il tono con cui chi comunica affronta i suoi ascoltatori, e anche la qualità intrinseca dello stile di comunicazione, per esempio.

Il giornalismo 2.0 è solo il giornalismo nell'era in cui ognuno ha accesso alla critica dell'informazione. Un ruolo che deve arricchirsi dei contributi dei lettori, che impone la qualità dell'approfondimento e la comunicazione "aumentata" da parte del giornalista, che necessita di profondità nel trattare qualunque notizia, e attenzione alla componente della relazione per farsi capire e coinvolgere i lettori.

La notizia oggi può fornirla chiunque. Il dovere del professionista è analizzarla, discuterne, riproporla.

Il commento è un esempio di comunicazione. Quello che lo differenzia dalla notizia che lo ha generato è la mancanza di una componente di relazione importante per il giornalismo, costituita tra l'altro dalla reputazione del giornalista e della testata su cui scrive. Quindi l'autorevolezza.

La marca "Giornalismo 2.0" ha senso solo se la intendiamo come cambiamento di socialità dell'informazione. Una volta acquisita e sentenziata nella forma ritenuta corretta dagli editori. Oggi arricchita, proposta con la certezza della fonte e miscelata con il commento - quello che nei contenuti è corretto e aggiunge valore.

Un ruolo nuovo per il lettore. Un ruolo sociale. Cogliamo l'opportunità.

Marco G. Matteoli


mercoledì 15 settembre 2010

E' arrivata l'ora di abbandonare Twitter?

[Download|blog.it 15/09/2010]

Negli Stati Uniti si parla inequivocabilmente di disastro per Twitter: John Mayer ha chiuso il proprio account. Per chi non conosce Twitter e per chi non ha mai sentito parlare di John Mayer, facciamo un passo indietro.

Twitter è stata la moda del web 2.0 di due o tre anni fa: chi non aveva un account era considerato “out”. Con il tempo Twitter ha iniziato a diffondersi tra i personaggi pubblici, grazie alla particolare modalità di comunicazione. Twitter avvicina la star di Hollywood, così come il politico più navigato, ai propri fan. Possono far sapere ai propri “followers” cosa stanno facendo durante la giornata, allegando foto della vita di tutti i giorni. Gli utenti si sentono in questo modo più vicini ai propri beniamini, come mai era stato possibile in precedenza. Si tratta però di una vicinanza “falsa”, perchè il canale di comunicazione è ad un senso solo. Osservando la situazione da un’angolazione diversa possiamo infatti vedere che da una parte c’è chi scrive e decide a chi rispondere, mentre tutti gli altri possono unicamente leggere, rimanendo in questo modo spettatori passivi.

Arretrati culturalmente a livello tecnologico, i personaggi pubblici italiani non sono mai stati in grado di portare avanti un proprio profilo Twitter. Questo, unito alla monodirezionalità della comunicazione, ha messo Twitter nella condizione di non sfondare davvero in Italia. Da quello che possiamo notare, Twitter ha trovato comunque la propria nicchia nel nostro Paese nella distribuzione immediata delle notizie. I più grandi quotidiani, agenzie di stampa ed emittenti televisive hanno un account Twitter dal quale poter ricevere immediatamente le notizie pubblicate.

Torniamo allora negli Stati Uniti e diamo qualche numero, per capire l’impatto del fenomeno Twitter. L’account del presidente Obama è seguito da quasi 5 milioni e mezzo di utenti, Lady Gaga si attesta sui 6,2 milioni mentre Justin Bieber, astro nascente della musica pop, è attorno ai 5 milioni. Da tenere presente che il 3% di tutti i server di Twitter sono occupati a gestire l’account di Bieber, uno che tra l’altro aggiorna spessissimo il proprio “status”.

Veniamo allora alla questione iniziale. John Mayers è un cantante e chitarrista americano. Mayers è uno dei pochi che ha saputo usare Twitter per rompere quella sorta canale monodirezionale di cui accennavamo qui sopra. Rispondeva un po’ a tutti i fans, regalava biglietti gratis per i proprio concerti, dibatteva con Perez Hilton, si difendeva da accuse scaturite tramite interviste mal rilasciate su Playboy. Come dicono su CNet: John ci mancherai. Una sorte di elogio funebre per i 3,7 milioni di utenti che lo seguivano.

Mettiamo insieme i pezzi per capire cosa è successo e cosa potrebbe accadere. Uno dei personaggi più seguiti e che più avevano intuito cosa fare “su” Twitter, scarica in un istante tutti i propri “followers”. E come avete letto si tratta di numeri stratosferici. Ufficialmente la motivazione è che l’account era nato per promuovere il proprio tour e che ora non serve più. Come motivazione ci sembra poco probabile. Forse l’ennesima mossa studiata a tavolino per far parlare di sè? Potrebbe essere. Una sorta di snobismo nei confronti di un mezzo che oggi negli Stati Uniti usano tutti? Anche questa potrebbe essere un’ipotesi valida. Ma se così fosse, quanti personaggi potrebbero lasciare Twitter? Un po’ come coloro che affermano orgogliosamente di “non avere un profilo Facebook”: una sorta di rifiuto per poter dimostrare di far parte di una minoranza “illuminata”. Se far parte dell’avanguardia dei primi utenti Twitter poteva essere “cool”, oggi potrebbe essere vero il contrario, ovvero far parte di quelli che per primi lo hanno abbandonato.

La notizia che Mayer ha lasciato Twitter, ed ovviamente i suoi 3,7 milioni di “followers”, sta facendo parlare i media americani ma sta facendo ancora più parlare “dove” sia finito ora il cantante. Perchè come avrete capito questo Mayer è uno che, almeno per quanto riguarda la rete, sa il fatto suo. Potete trovarlo su Tumblr, altra piattaforma di microblogging. Su Tumblr è altrettanto facile aggiornare il proprio status ma è più semplice postare immagini o links. Soprattutto su Tumblr è possibile ricevere commenti al post specifico, cosa impossibile su Twitter. A quanto pare la cosa sta funzionando, perchè negli ultimi due post sono presenti quasi 1500 commenti sul primo e più di 2000 sull’altro. Che Mayer ci abbia visto giusto? E’ arrivata davvero l’ora di abbandonare Twitter?