venerdì 29 aprile 2011

«Facebook? Troppo popolare» I siti esclusivi per gli ultraricchi

[Corriere della Sera 29/04/2011] Anche i ricchi taggano, ma dove? Anche loro condividono, chiedono l’amicizia, spendono ore alla ricerca di un vecchio compagno di scuola particolarmente antipatico per confrontare gli album (e soprattutto i patrimoni) nel mare magnum di Facebook. Però c’è chi ritiene ormai troppo proletarie e affollate le spiagge dei social network tradizionali. E preferisce raggiungere qualche baietta «esclusiva», «lontani dagli sguardi indiscreti» come dice la signora Caroline Garham, titolare dell’internet resort chiamato Family Bhive. Caroline, che lavora in uno studio legale della City di Londra e si occupa di tasse e successioni, l’ha fondato tre anni fa: è un club online dove i membri vengono addirittura divisi in base al portafoglio. Tre classi sociali: sopra i 100 milioni siete in classe Jet, la Giada va dai 20 ai 100, mentre la classe Ambra comprende i meno fortunati (si fa per dire), quelli con un tesoretto dai 5 ai 20 milioni (l’80 per cento del totale). Siete sotto i 5 milioni? Non vi prenderanno mai. E non provate a fare i furbi: ci sono professionisti che spulciano il vostro borsellino. L’entrata è gratis (i clienti corporate versano 10mila sterline all’anno). Ci lavorano in 7 e quest’anno il bilancio dovrebbe essere in attivo. La signora Garnham vuole aprire nuove «filiali» a Zurigo, Dubai, in Cina e negli Usa. I membri (700 in tutto) sono celebrità, politici, imprenditori, gente che ama restare anonima. Che fanno? Chattano, organizzano eventi mondani e incontri con guru dell’economia, si scambiano idee per investire, fanno joint-venture puntando sulle biotecnologie.

Ecco, una caratteristica dei social network per ultraricchi è questa: mentre voi vi divertite a mettere in bacheca i commenti sulle foto degli amici in vacanza sul cammello, nel club della signora Garnham si briga per investire risparmi. È un fenomeno molto inglese: oltre a Family Bhive (ribattezzata dalla fondatrice «the Facebook of the fortunate») sono spuntati Peers, Ecademy, Pi Capital. Quest’ultimo ospita 300 membri, tariffa di entrata mille sterline più 4mila all’anno di abbonamento. La caratteristica comune a questi network poco social: offrire agli «affiliati» strumenti e proposte di investimento, perché, come dice il responsabile David Giampaolo, «insieme siamo più smart». Social qui fa rima con financial. Anziché proposte di amicizia, circolano proposte di business.

È questa la novità rispetto alle «esclusive» comunità online modello ASmallWorld, ideato nel 2004 da un banchiere svedese figlio di ambasciatore durante una noiosa caccia al cinghiale in Germania. La sua idea era creare nel Wild Wide Web l’equivalente delle «gated community», le comunità chiuse (e sicure) per gente abbiente che si sono diffuse dall’Africa agli Usa. Queste nicchie non sono state spazzate via dallo tsunami Facebook (100 milioni di profili) e affini. Anzi. Le «baiette» diventano più appetibili a mano a mano che la Rete si fa più affollata. La Rete si allarga verso il basso? Sopra la bolgia (per quanto creativa) della piazza virtuale spuntano le terrazze degli «attici virtuali». D’altra parte c’è chi sostiene che anche i social media oggi più popolosi siano nati proprio come oasi di incontro per élite (della cultura o del denaro).

Dice Stacey Haefele, capa di una sciccosa società di marketing di New York: «Storicamente i ricchi sono i primi ad abbracciare le nuove tecnologie». Dall’ascensore allo smartphone, dalla tv ai tablets. Ma la regola vale anche per taggatori compulsivi ed esibizionisti della condivisione? Il banchiere svizzero Joachim Strahle, che guida Bank Sarasin, esprime i suoi dubbi sull’Herald Tribune: «I ricchi cercano la privacy. Non amano condividere informazioni in pubblico, anche se l’anonimato è assicurato. La maggior parte vuole godersi la vita. In sicurezza e in privato». «Esclusivo», diceva il poeta Robert Frost, è la parola più brutta del vocabolario. Oggi tutto è pubblicizzato come esclusivo, e dunque tutto potenzialmente accessibile a cani e porci. Però ammettiamolo, è un’aspirazione (tentazione) molto condivisa: esibire l’esclusivo. Anche i ricchi taggano, ma dove? Uno studio americano recente dimostra che l’80 per cento dei molto-benestanti usa i social network (contro il 61 per cento) della popolazione media. Anche se meno del 20 per cento riesce a collegarsi una volta al giorno (contro il 38 per cento dei comuni mortali). Chi non si è fatto anche solo un giro su Facebook? Obama ci tiene i comizi. Il principe William va a curiosare sotto il nome di Wales. nel mio piccolo ho fatto un test. Sono andato a cercare tra i miei compagni di liceo quello che ha fatto più carriera. Il più ricco. Matteo Arpe, brillante banchiere che ha lasciato la guida di Capitalia su un tappeto volante imbottito di milioni. Quando andavo a studiare a casa sua, spesso lo trovavo in pigiama. O forse era suo fratello. Comunque, comodi si apprende meglio. Beh, su Facebook a suo nome c’è un gruppo di fans. In memoria dei vecchi tempi al Frisi, non potrei chiedergli l’amicizia online (né eventualmente un prestito).

Michele Farina

La lunga coda dei social media

[Carta 28/04/2011]

A proposito di mass media, ecco una chiacchierata in chat con un esperto di social network: Dino Amenduni analizza la relazione tra rete e fenomeni politici e ragiona sugli effetti del web 2.0 sull’opinione pubblica. Un contributo per proseguire il ragionamento sulle nuove forme di comunicazione, l’informazione indipendente e i movimenti sociali.

I network relazionali sono considerati da più parti come la dimostrazione di una rivoluzione digitale in atto. Hanno contribuito in Nord Africa quest’anno e l’anno scorso in Iran a diffondere, ad aggregare e a organizzare le manifestazioni di piazza, coinvolgendo persone, superando la censura, raccontando cose che gli altri media hanno taciuto. In Italia, nonostante la massiccia presenza su Facebook, i risultati sono stati ancora poco eclatanti.

Eppure una dimostrazione del loro potere arriva dall’esperienza di Vendola in Puglia, il cui blog è considerato il migliore sito politico italiano e la cui capacità di aggregazione sui social network è superiore a quella di qualsiasi altro. Ne abbiamo discusso con colui che effettivamente sta dietro tutto questo, Dino Amenduni, da più parti considerato una sorta di guru della materia. Anche l’intervista che segue è realizzata attraverso l’uso di un social media, come si evince dagli emoticon e dallo stile del testo, che abbiamo scelto di conservare.

La nostra discussione prende il via dalla constatazione del moltiplicarsi di corsi e seminari e convegni sul marketing e la comunicazione 2.0.

«Ci sono almeno due fattori che si intrecciano – spiega Amenduni – da un lato la crescente domanda di esperti di nuovi e social media, che porta molti giovani a inventarsi una professione o un percorso curriculare che fino a poco tempo fa non esisteva. La domanda, però, non è così tanta [specie al Sud e nel nostro tessuto imprenditoriale, fatto da piccole e media imprese] da giustificare questo profluvio di formazione. Di sicuro c’è una componente di moda che induce tutti a parlare di questi argomenti o a cercare di formarsi per farsi trovare pronti alle richieste di un mercato emergente».

Ci sono segnali che ci aiutano a capire che il mercato è emergente e non una bolla momentanea?

Il mercato è emergente in Italia, altrove, specie nei paesi anglosassoni, è già maturo.

Questa potrebbe essere una prima parziale risposta che mi fa pensare che non abbiamo a che fare con un fenomeno passeggero o con una «bolla». Potrei anche citarti il caso dei casi, Obama e la campagna elettorale del 2008: i social media diventano alleati cruciali per l’organizzazione del candidato democratico per le elezioni del «Paese più importante del mondo». Nel 2012 pare che l’esperienza si possa ripetere, aggiornata.

Allo stesso tempo non posso certo ignorare il corso della storia. Sei anni fa non sapevamo nemmeno cosa fosse Facebook e ora conta 600 milioni di iscritti. Se aggiungiamo il social media cinese RenRen, con 400 milioni di iscritti, abbiamo un fenomeno da almeno un miliardo di utenti. Stiamo dunque parlando un fenomeno globale e mastodontico, ma non per questo mi azzardo a fare previsioni di qui ai prossimi sei anni :)

Chi ne sa di più dice che i social media non sono un modo più complicato di mandarsi sms, ma un nuovo ecosistema… Tu per esempio sei considerato una sorta di faro nazionale. Come ti ci sei ritrovato?

Una serie di coincidenze mi hanno portato dove sono. Ho studiato psicologia del lavoro, ma in fondo sono un sociologo mancato. Alla specialistica ho proseguito sul campo applicativo, laureandomi in psicologia della comunicazione, con una tesi sul comportamento di voto dei 18enni. Poi ho studiato marketing con l’idea che fosse necessario «conoscere il nemico»: ero già appassionato di politica e studiavo modelli comunicativi. In Italia, in quanto a casi di studio in comunicazione politica, non ci possiamo proprio lamentare.

A questo bisogna aggiungere anni e anni di attività di networking su un sito barese molto popolare a inizio millennio, Skakkinostri, nato come versione online del giornale del mio liceo scientifico e poi diventato la comunità virtuale online più grande d’Italia [70000 iscritti nel 2003]. Nel frattempo ho iniziato a lavorare con Proforma. Le due strade [lavoro e passione personale] si sono incrociate in EmiLab, il gruppo di lavoro di volontari sotto i 30 anni che hanno condotto la campagna elettorale a sostegno di Emiliano. È stata decisamente l’esperienza più bella della mia vita, abbiamo vinto e di lì il passaggio a lavorare anche con Nichi è stato abbastanza automatico.

Vendola è stato riconosciuto come il politico che usa i social media e il web in generale meglio di tutti gli altri. Tuttora il suo primato è ineguagliato. Naturalmente si avvale di professionisti come te. Ma quanto essere Vendola favorisce questi risultati?

PS: la questione social network è diventata di estrema attualità dopo la puntata di Report dello scorso 10 aprile. Mi verrebbe voglia di chiederti se in realtà non siamo tutti vittime della più grossa operazione commerciale della storia. Ma non lo farò. [a meno che tu non voglia rispondere:-)].

Essere Vendola è decisivo: senza contenuti i nuovi media sono particolarmente punitivi e per fortuna abbiamo una base di partenza ottima tra le attività della Regione, quelle di Sel e le attività personali.

Nichi ha una grande capacità di delega, ha capito le potenzialità dei nuovi media e si è affidato a giovani che gli hanno dato una mano a fargli fare il salto di qualità sul web. Inoltre ha capito che solo attraverso Internet avrebbe potuto crearsi una nicchia sempre più grande di pubblico e in modo indipendente dai meccanismi dei media tradizionali, in Italia più che mai.

Una puntata di Report ha sollevato la questione della privacy e del rischio in realtà di essere vittime di una delle più grosse operazione commerciali mai messe in piedi…

Sulla puntata di Report ho scritto sul mio blog sul Fatto Quotidiano. Si chiama «Facebook, il prodotto sei tu: come sempre». Non vedo troppa differenza, né etica né nel marketing, tra la pubblicità classica e l’utilizzo di artifici retorici come quello della condivisione con cui Zuckerberg ci spiega le magnifiche sorti e progressive di Facebook. Anche le pubblicità, in fondo, ingigantiscono i punti di forza di un prodotto e minimizzano i punti di debolezza.
Così come non trovo moltissime differenze tra la segmentazione del mercato attraverso i dati di ascolto televisivo/radiofonico, i dati di customer care o le ricerche di mercato e la profilazione superdettagliata di Facebook, con la differenza che almeno i social media ci propinano pubblicità che, forse, ci interessa davvero :)

La questione è politica più che tecnica. La domanda giusta sarebbe se è possibile che il mondo nuovo e la partecipazione passino attraverso strumenti privati? Cioè non paradossale che il rinnovato impegno civico contribuisca ad arricchire alcuni dei responsabili del disastro socioeconomico contemporaneo?

I media sono strumenti. Possono operare un cambiamento dei paradigmi [«il mezzo è il messaggio», diceva McLuhan e anche nel linguaggio [la parola taggare non esisteva fino a tre o quattro anni fa], ma non possono sopperire, da soli, ad assenza di volontà politica o allo sfascio sistematico del capitale sociale. L’Italia è uno dei paesi più individualisti del mondo nonostante nella nostra indole ci sia la tendenza alla relazione umana, al calore e all’accoglienza.

Dunque la risposta dovrà contenere un se: i media relazionali aiutano, semplificano e accelerano il processo di costruzione della società se chi li usa ha la volontà politica per farlo.

In una conversazione sulla tua bacheca su Facebook però citavi la «lunga coda»…

La coda lunga è una teoria che avrà conseguenze inevitabili, anche sulla costruzione dell’opinione pubblica e delle politiche pubbliche. Ma non sappiamo in quanto tempo avverrà questa transizione né sappiamo se in Italia ci vorrà lo stesso tempo che potrebbe essere necessario, ad esempio, negli Stati uniti.
Dunque, oggi, serve la volontà politica forte di passare all’ascolto della parte lunga della coda. Col tempo il mainstream perderà influenza e dunque il mondo cambierà in ogni caso.
Non so tu, però io non ho voglia di aspettare un periodo di tempo indefinito prima che le cose cambino J

Cosa proponi [considerando l’influenza che riesci ad esercitare]?

Propongo di inizare ad ascoltare i cittadini in modo scientifico. Ai comizi e agli eventi per strada, sacrosanti, si può unire un processo di raccolta di dati e di informazioni da parte di opinion leader, giornalisti, blogger, o anche solo dai militanti di partito che hanno un’opinione che vogliono condividere sul web. A quel punto basterebbe raccogliere questa gigantesca mole di dati [chissà quanto costerebbe comprarli. E invece così si hanno gratuitamente], sottoporla a meccanismi di analisi quantitativa e qualitativa e basare le proprie scelte politiche anche su cosa dice l’Italia, e non solo su esperienza politica o valutazioni tattiche e/o personali. I militanti e gli appassionati di politica farebbero così parte di un progetto in modo oggettivo, sarebbero inorgogliti da questa operazione, scriverebbero e parlerebbero ancora di più, rinforzando la coda della curva dell’opinione pubblica e indebolendo, dunque, i media mainstream. La strategia per battere Berlusconi potrebbe anche essere semplicemente questa.
Inoltre, l’attenzione per i social media in Italia è a mio avviso figlia della disperazione, prima di tutto. In un sistema mediatico bloccato, con tre televisioni gestite politicamente dall’editore delle altre tre, gli italiani [che non votano Berlusconi] oramai sanno di non potersi più fidare troppo di ciò che ascoltano dalla Tv, e dunque cercano altrove. Il web è dunque l’isola felice per chi sogna sistemi di informazione liberi. Certo, c’è tanta confusione e bisogna sforzarsi per pescare notizie di qualità, però l’opinione pubblica italiana non è stata soffocata solo grazie al web, e dunque non mi sorprenderei se a breve ci si interesserà di regolamentazione dell’accesso o dei modi di utilizzo della Rete.

Massimiliano Martucci

mercoledì 27 aprile 2011

Culture Digitali – “Legge 2.0. Il web tra legislazione e giurisprudenza”

[Sentieriselvaggi.it 26/04/2011]

Il maggior pregio del lavoro della Berlingieri è l’estrema attenzione rivolta agli aspetti pratici, al punto da arrivare a dare suggerimenti su come ‘citare’ un’immagine potenzialmente ‘protetta’. E la costante ricerca di un taglio divulgativo rende il libro potenzialmente fruibile da tutti. Ma certo: quando si parla di diritto, i tecnicismi non possono mancare. E perciò Legge 2.0 è soprattutto un utile manuale propedeutico e riepilogativo per gli operatori del diritto e un vademecum indispensabile per tutti coloro che lavorano con, su, per il Web

Legge 2.0 il Web tra legislazione e giurisprudenzaLegge 2.0 – Il Web tra legislazione e giurisprudenza
Elvira Berlingieri
Ed. Apogeo
Novembre 2008
pp.306 – 29 euro
Grandi poteri, grandi responsabilità. E’ la condanna/fortuna degli eroi Marvel. Ma, probabilmente, è un’equazione che riguarda anche Internet. Perché dalle enormi potenzialità del mezzo conseguono necessariamente innumerevoli questioni giuridiche, non sempre di facile soluzione. In realtà il nocciolo del problema è uno, ed è quasi ontologico. L’evidente differenza di velocità tra il Web e il diritto. Le continue innovazioni tecnologiche e i cambiamenti epocali nelle modalità di interazione introdotti dal Web 2.0 non possono, per forza di cose, trovare un adeguato riscontro ‘in tempo reale’ nella codificazione legislativa. In questa rincorsa, forse disperata, del legislatore accade molto spesso che la giurisprudenza sia in prima linea nel tracciare indirizzi e intendimenti. Cosa che, però, in un sistema giuridico come il nostro (di civil law), dà spesso luogo a incongruenze, incertezze, incomprensioni, divergenze. E così diventano sempre più spinose le grandi problematiche aperte dal Web 2.0. Come si tutelano il diritto d’autore e la proprietà intellettuale in un’epoca in cui la riproducibilità e la diffusione delle opere non hanno praticamente più limiti? Come si individuano le responsabilità in un sistema che garantisce massima libertà d’espressione e in cui gli utenti sono al tempo stesso creatori dei contenuti? E, non da ultimo, come si armonizza il tutto, ‘la continua tracciabilità’ dei nostri percorsi in Rete, con il diritto alla privacy e la tutela dei dati personali?
Per ognuna di queste grandi questioni, le ricadute pratiche sono molteplici. E fare ordine e chiarezza, in piena corsa, è fatica improba. Elvira Berlingieri, esperta di diritto d’autore e diritto delle nuove tecnologie, prova a fare il punto della situazione con Legge 2.0. Il Web tra legislazione e giurisprudenza, interessante volume pubblicato dalla casa editrice Apogeo. “Questo testo è stato scritto pensando a chi, nel quotidiano uso della Rete, si chiede quali valori giuridici sono in gioco ogni volta che utilizza strumenti come blog, wiki, e-mail, Second Life, motori di ricerca, social network, ecc.”. Dunque uno strumento pensato innanzitutto per gli internauti, molto attento ai casi pratici, alle questioni già affrontate da legislatori e giudici, ma anche a tutta una serie di interrogativi ‘quotidiani’. Il libro si articola in sei grandi capitoli: “La proprietà intellettuale e il diritto d’autore in Internet”, “File saring, peer to peer e la tutela del diritto d’autore”, “I soggetti che erogano i servizi del Web 2.0”, “La libertà di espressione in rete”, “Second Life e i mondi metaforici”, “La tutela civile e penale dei dati personali”. Per ognuno di questi argomenti, l’autrice introduce il quadro normativo di riferimento e cerca di colmarne le lacune, facendo appello agli altri ordinamenti (specialmente quello statunitense, per forza di cose il più avanzato su tali questioni) e alle pronunce giurisprudenziali più rilevanti. Grande spazio, in particolare, è dedicato al tema della tutela del diritto d’autore, reso estremamente vulnerabile dalla pressoché infinita riproducibilità e utilizzabilità dei contenuti digitali. “…Il bene informatico, a differenza di quelli analogici, non si usura e non si esaurisce dopo l’uso e può essere trasmesso a chicchessia senza che se ne perda la titolarità o la qualità o la possibilità di sfruttamento. Nel modo più economico possibile, cioè gratuitamente…
Naturalmente, la prima risposta al problema, piuttosto insufficiente, è stata quella di una restrizione nelle possibilità di libera utilizzazione delle opere dell’ingegno, un inasprimento delle pene e delle sanzioni. Ma accanto a questa ‘politica’ di severità, si stanno diffondendo sempre più nuovi strumenti volti all’armonizzazione delle possibilità comunicative e interattive del Web con la necessaria protezione dei diritti d’autore. E’ il caso, ad esempio, delle licenze Creative Commons. Ma di estremo interesse sono anche altre questioni affrontate dalla Berlingieri. La libertà di espressione, di cui la Rete oggi sembra essere la miglior garanzia, in rapporto ad altri diritti costituzionalmente (e quindi penalmente) tutelati, l’equiparazione tra le testate telematiche e la carta stampata, la responsabilità dei bloggers e la responsabilità dei provider e dei soggetti che erogano servizi Web 2.0, soprattutto riguardo ai contenuti generati e immessi dagli utenti.
Il maggior pregio del lavoro della Berlingieri è proprio l’estrema attenzione rivolta agli aspetti pratici, al punto da arrivare a dare suggerimenti, ad esempio, su come ‘citare’ un’immagine potenzialmente ‘protetta’. E la costante ricerca di un taglio divulgativo rende il libro potenzialmente fruibile da tutti. Ma certo: quando si parla di diritto, i tecnicismi non possono mancare. E perciò Legge 2.0 è soprattutto un utile manuale propedeutico e riepilogativo per gli operatori del diritto e un vademecum indispensabile per tutti coloro che lavorano con, su, per il Web. Naturalmente, ci auguriamo di poter leggere al più presto un’edizione aggiornata.

Aldo Spiniello

martedì 26 aprile 2011

Identità Virtuali / Virtual Identities

[arte.go 25/04/2011] La mostra analizza il termine ‘identità’ alla luce del crescente ruolo di tecnologie digitali e nuove forme di comunicazione che hanno portato a un suo ripensamento sotto la pressione dello scontro tra privacy e compartecipazione, diritto alla libertà individuale e bisogno di sicurezza collettiva.
Identità virtuali presenta dieci opere e installazioni di artisti internazionali che riflettono sulle conseguenze politiche, sociali e culturali – ma anche sull’impatto nella vita di tutti i giorni – del nuovo rapporto tra uomo e tecnologia nel segno delle “identità virtuali” con cui sempre più spesso affrontiamo la realtà, anche senza accorgercene.

La cosiddetta "Network Culture" sta ridefinendo caratteri e confini della nostra identità sia personale che collettiva, imponendo un ripensamento delle nostre abitudini, attitudini, desideri, bisogni e valori. La nostra identità online sta diventando un’estensione dell’“io” fisico che creiamo per intrecciare relazioni e interagire con altri sulla rete.
Il web 2.0 ha ormai conquistato la vita di tutti i giorni. Condividere pensieri, esperienze e informazioni della propria vita tramite blog e social network è diventata, specialmente tra le giovani generazioni, una pratica giornaliera comune e sempre più diffusa.
Se da una parte, nell’odierna società dominata dallo sviluppo delle nuove tecnologie e di sempre più sofisticati mezzi di comunicazione, una persona sembra esistere solo se presente sulla rete, esposta e coinvolta in un costante flusso di informazioni e interazione, dall’altra sempre minore è la consapevolezza e la volontà di difendere la propria privacy o di proteggere il proprio anonimato.

I primi studi teorici degli anni Novanta ritenevano che assumere identità diverse avesse un effetto costruttivo e liberatorio sull’individuo, oggi invece i diversi servizi online richiedono l’autenticazione dei propri dati con la nostra “vera” identità.
Da quando il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha dichiarato che nel mondo di oggi la sfera privata è diventata obsoleta, possiamo constatare una sempre minore cautela da parte degli utenti nel gestire i propri dati personali e la propria identità online. Mentre per anni l’anonimato, la privacy dell’utente e la protezione della sfera privata erano considerati aspetti fondamentali, oggi la difesa di questi valori sembra destare sempre un minore interesse da parte degli utenti.
Partendo dall’assunto che la continua relazione con i nuovi media implica per l’individuo un nuovo approccio verso computer e rete internet, le opere in mostra intendono affrontare, sia per un pubblico vasto che per esperti della cultura digitale, caratteristiche e contraddizioni di questa nuova relazione privata e personale dei singoli con il mondo virtuale, in una ricerca di identità, di autoaffermazione e di riconoscimento pubblico.

Michael Wolf (Germania), nella serie fotografica Street View Paris, porta all’estremo il paradosso del rapporto tra arte e tecnologia digitale, realizzando le immagini non per le strade della città francese, ma attingendo dal materiale disponibile su Google Street View. Questi casuali frammenti di vita urbana hanno una qualità estetica inaspettata che rimanda a opere della storia della fotografia e, decontestualizzate, raggiungono un valore simbolico del rapporto tra essere umano, spazio urbano reale e mondo digitale.
Il fotografo Evan Baden (USA) coglie volti di adolescenti immersi nella comunicazione digitale. I visi assorti, quasi assenti, sono illuminati unicamente dalla luce degli schermi dei diversi supporti tecnologici che li connettono a una realtá virtuale apparentemente più reale di quella del mondo fisico.
Nell’opera video Immersion, Robbie Cooper (Gran Bretagna) affronta il tema del feedback visivo ed emotivo tra individuo e mondo digitale, soffermandosi sulle reazioni a videogiochi di bambini, i cui volti divengono specchi degli accadimenti sullo schermo.
Analizzando il tema della tracciabilità e del controllo che le nuove tecnologie permettono, il video The Catalogue di Chris Oakley (Gran Bretagna) mette in scena un sistema di videosorveglianza di un grande magazzino in cui le persone riprese, visualizzate e indicate attraverso i loro dati personali rintracciabili, diventano entità/identità trasparenti e, in un certo senso, vulnerabili.
Tracciabilità e visualizzazione di dati personali sono anche al centro del lavoro del designer Nicholas Felton (USA), il quale crea diagrammi e tabelle per documentare meticolosamente tutte le azioni e i dati, dai più banali ai più significativi, che caratterizzano la sua vita quotidiana.
Il collettivo etoy.CORPORATION (Svizzera) propone Tamatar, un’installazione del progetto Mission Eternity, con cui si affronta il tema dell’identità e della sua memoria a partire dalle diverse tracce lasciate nell’interazione con la rete, riflettendo su ciò che rimane della persona dopo la morte.
Il gruppo Les liens invisibles (Italia) si caratterizza per progetti online che, con ironia ma sempre puntando su un forte senso di attivismo politico, riflettono su distorsioni e paradossi nel rapporto con i social network. Il loro progetto Seppukoo permetteva di riprendere possesso della propria identità e del proprio anonimato commettendo il “suicidio” del proprio profilo su Facebook, che ha bloccato questa applicazione intraprendendo un’azione legale contro gli artisti.
Il Sociable Media Group (USA) del MIT di Boston propone Metropath(ologies), un’installazione multimediale che, tramite il semplice inserimento del proprio nome, permette la visualizzazione spaziale di frammenti di informazioni disponibili online di ogni persona, dimostrando la trasparenza e la visibilità dell’individuo sulla rete.
Sul tema della comunicazione partecipativa online, la videoinstallazione Hello World! di Christopher Baker (USA) mette in scena un monumentale puzzle di video provenienti da YouTube, in cui, dall’intimità della loro sfera privata, singoli individui lanciano il loro videomessaggio al pubblico anonimo e globale della rete, creando un’accumulazione in cui centinaia di voci si uniscono in un indistinto rumore di fondo.
Approfondendo ulteriormente i temi della dissolvenza del singolo e dell’omologazione dell’individuo nella massa degli utenti online, l’opera Mass Ornament di Natalie Bookchin (USA) crea un’unica coreografia di movimenti unendo video tratti da YouTube, in cui singole persone ballano nella solitudine delle loro case private, davanti all’occhio della webcam.

La mostra ospita anche un progetto della fotografa iraniana Diana Djeddi (Iran/Germania) che ricostruisce il caso di Neda Agha-Soltan, la giovane studentessa uccisa a Teheran durante le manifestazioni del 2009, esempio delle potenzialità ma anche dei rischi legati alla diffusione di informazioni sulla rete.
Questo episodio ha avuto infatti grande notorietà tramite i social network ma ha dato luogo a uno scambio di identità con un’omonima ragazza iraniana fisicamente molto simile, Neda Soltani, la cui fotografia del profilo Facebook è diventata icona della rivoluzione suo malgrado, costringendo la ragazza a lasciare il paese per paura di ritorsioni.

Accompagna la mostra un catalogo bilingue (italiano/inglese) pubblicato da Silvana editoriale, con contributi di esperti del settore come Michael Wesch (Associate Professor of Cultural Anthropology, Kansas State University), Sherry Turkle (Professor of Social Studies of Science and Technology, MIT, Boston), Roberto Simanowski (Institut for Media Studies, Università di Basilea) e Antonio Glessi (ISIA, Firenze).

Durante il periodo d’apertura, è previsto un calendario di lecture tenute da esperti di vari settori che apriranno spazi di confronto diretto con il pubblico.
Identità Virtuali / Virtual Identities

Periodo: 20/05/11 - 17/07/11

CCCS
CENTRO DI CULTURA CONTEMPORANEA STROZZINA
Palazzo Strozzi
Firenze

Social per beneficenza

[Lettera 43 25/04/2011] n Fight Club, capolavoro di David Fincher tratto dall’indimenticabile romanzo di Chuck Palahniuk, era il leader del Progetto caos, un bipolare cavaliere nero che odiava la società contemporanea e le sue insopportabili esteriorità fasulle.
Ma lontano dal grande schermo la star Edward Norton ha tutto un altro atteggiamento verso la civiltà. La sua idea di creare un social network per il fundraising (guarda il video) a finanziare progetti benefici è infatti diventata un fenomeno.

Colletta digitale

La creatura 2.0 di Edward Norton, fresco ambasciatore per la biodiversità delle Nazioni unite, si chiama Crowdrise.com: un Facebook molto particolare, perché pensato per raccogliere denaro a supporto di iniziative ambientaliste, umanitarie, sociali, animaliste e così via.
Il meccanismo è semplice. Chiunque può iscriversi e compilare un profilo con i propri gusti, hobby, interessi, foto , proprio come sul social network di Mark Zuckerberg. Su Crowdrise però c’è un obiettivo ben preciso: fare colletta per finanziarie le campagne, crowdsourcing secondo la terminologia del momento, e fare del bene al tuo prossimo.
PARTECIPANO ANCHE I VIP. Il social network di Norton funziona con successo, essenzialmente per due motivi. Primo, la potenza della celebrità. Tra gli iscritti figurano decine di vip e star del cinema, tra cui Barbra Streisand, James Franco, Will Ferrell, Ashton Kutcher, Paul Rudd e gli Jonas Brother. Di ogni vip, proprio come per tutti gli altri iscritti, si può visitare il profilo e scoprire quali sono le iniziative che hanno lanciato e per le quali stanno tentando di raccogliere fondi.
DO UT DES. L’altro segreto del successo è l’aspetto ludico dell’interazione: in questa rete di donatori volontari e ispiratori di progetti benefici vige la regola del do ut des: chi offre somme di denaro per finanziare le idee degli altri acquisisce punti da utilizzare in giochi a premi, estrazioni, aste e così via. D’altronde, come recita il payoff sotto al logo del social network, qui «se non doni non piaci a nessuno».

Le campagne delle star e degli utenti

Un meccanismo molto intrigante, anche perché piuttosto democratico: l’idea di Paul Rudd di «mettere in vendita» il suo compleanno per raccogliere fondi a sostegno dell’American cancer society (guarda la photogallery delle campagne dei vip su crowdrise) ha le stesse possibilità di partenza del fundraising per il disastro in Giappone o del Cage’s Pet Society, colletta digitale avviata da un volenteroso bambino di 10 anni che vuole occuparsi degli animali abbandonati e randagi del suo quartiere.
Anzi, la presenza dei vip è un vantaggio: un loro eventuale supporto può essere un clamoroso trampolino di lancio per l’idea degli altri utenti del network, un irresistibile richiamo per i donatori.
CONDIVISIONE E IRONIA. Alla presentazione di Crowdrise, Norton ha spiegato che l’idea ruota attorno al concetto di «narrazioni personali»: le persone possono creare le proprie narrazioni e rappresentazioni di sé e dei propri valori e cause in cui credono, per condividerle con gli altri.
La condivisione serve così a mettere concretamente in pratica le proprie inclinazioni. La particolarità di Crowdrise è che rispetto ad altri siti e strumenti sul web per il social good, qui il registro non è autero e serioso, bensì spesso molto ironico e irriverente. «Si fa volontariato e ci si diverte anche parecchio», ha sintetizzato l’attore e ideatore, che con il suo supporto alla Maasai Marathon, evento internazionale di beneficenza, ha contribuito a raccogliere 1,2 milioni di dollari in meno di due settimane.
TUTTI SU CROWDRISE. Ecco perché decine di Ong e charity internazionali sono accorse su Crowdrise, creando un profilo e postando le proprie campagne. Crowdrise, vero e proprio fenomeno del momento, è il place to be, il luogo digitale in cui ogni associazione umanitaria e impegnata nel sociale non può non essere, quantomeno per quanto riguarda gli Stati Uniti.
Dalla sua il social network delle star dal cuore tenero ha d’altronde anche l’estrema facilità di utilizzo: per creare e proporre un’iniziativa, ha assicurato Norton, bastano 15 minuti. Si carica una foto, si inserisce il nome del progetto e la cifra che si vuole raggiungere per renderlo possibile, più video e qualche riga di testo, meglio se personale e suggestivo. Naturalmente si può selezionare un’associazione già esistente come destinatario finale dei fondi. E il gioco, quello della charitable life digitale, è fatto.


Giuliano Di Caro

venerdì 22 aprile 2011

L’analisi netnografica delle conversazioni online: il caso True Blood

[Ninja Marketing 21/04/2011] True Blood è una serie TV statunitense di ambientazione vampiresca ideata da Alan Ball, che dal 2008 tiene i suoi fan con il fiato in sospeso tra scene di nudo, sesso, violenza e splatter.

Il successo della serie nel periodo della rivoluzione mediatica portata dal web 2.0 ha permesso nel tempo la creazione di una web tribe di appassionati che non mancano di scambiarsi pareri, conoscenze e informazioni attraverso le piattaforme sociali.

L’analisi: il consumo telefilmico sui media digitali

Una ricerca del Centro Studi Etnografia Digitale svolta attraverso la tecnica di rilevazione netnografica ha cercato di trarre alcune conclusioni in merito, analizzando 4045 conversazioni avviate dai fan di True Blood su blog e forum online.

L’obiettivo dell’innovativo studio, scaricabile gratuitamente qui, era quello comprendere i contenuti delle conversazioni e, soprattutto, gli universi di senso prodotti grazie a queste ed allo scambio di informazioni tra utenti online (web tribes).

Stando alle parole dello stesso Alex Giordano, uno dei partecipanti alla rilevazione:

“Ciò che in pratica la ricerca mette in evidenza è come i prodotti mediali rappresentino un’occasione per il dispiegarsi di pratiche riflessive, per modi di conoscere e dare ‘senso’ ai propri vissuti e costruire visioni condivise dell’identità”

La ricerca ha permesso dunque di fare chiarezza sulle modalità di produzione culturale tipica degli ambienti in cui si discute di serie TV, e sui modi in cui queste forme sono alla base di forme di vita comuni resistenti.

Nel caso di True Blood, esse resistono a due principali forze: sistema televisivo mainstream e sistema produttivo del capitalismo cognitivo. Lo capiamo per esempio poiché la web tribe di True Blood decide autonomamente quali sono le pratiche di frizione della serie, senza farsi influenzare dagli esperti tradizionali (critici TV, etc.). Oppure nel momento in cui si osserva il tentativo della stessa tribù di riportare l’argomento vampiresco nella sua cornice di senso naturale, adulta, allontanandosi dall’immaginario comune per cui i vampiri sono ‘cose da bambini’.

Per concludere

L’analisi mostra dunque come gli utenti, nei loro scambi quotidiani di conversazioni, pareri e informazioni, riflettono collettivamente su se stessi e sul loro modo di abitare il mondo. Questa è una condizione ormai routinaria del vivere sociale ai tempi della comunicazione digitale 2.0, in cui i prodotti culturali diventano un luogo di auto ed etero riconoscimento.

Vi abbiamo incuriosito e volete saperne di più? Allora scaricate la ricerca completa. Costa poco, solo un tweet!

Coinvolgere i cittadini con i social network: ecco il concorso della Regione

[Romagnaoggi.it 21/04/2011]

BOLOGNA - La Regione Emilia-Romagna organizza un concorso di idee per lo sviluppo di applicazioni web o mobile che aiutino a migliorare la partecipazione dei cittadini alle politiche pubbliche. In palio un primo premio di 3000 euro e 4 iPad 2. Le iscrizioni sono aperte fino al 15 maggio. È possibile sfruttare le potenzialità dei social media, dei giochi on line, e delle applicazioni per smartphone e tablet, per incentivare e arricchire la partecipazione.

La Regione lancia il concorso di idee Ideamocracy, Idee per l'e-democracy in Emilia-Romagna. Sviluppatori, programmatori e tutti gli altri interessati sono invitati a presentare un'idea, vale a dire una breve proposta progettuale, per il possibile sviluppo futuro da parte della Regione di una nuova iniziativa di e-democracy da promuovere ad esempio con un gioco sviluppato e pensato per i social network, o una applicazione interattiva e multimediale per smartphone o tablet.

Per quanto riguarda i temi oggetto delle

applicazioni, la richiesta è di proporre soluzioni che permettano di aumentare la quantità e la qualità della partecipazione da parte dei cittadini emiliano-romagnoli alla definizione delle politiche della Regione Emilia-Romagna. Il suggerimento, non vincolante, è di pensare ad applicazioni che possano riguardare le politiche energetiche o dei trasporti dell'ente, concentrandosi sui processi e i meccanismi della partecipazione, piuttosto che su nuovi servizi di natura informativa da fornire via web, social o mobile.

Le idee potranno essere presentate da tutti i cittadini dell'Unione Europea, oltre che da gruppi capitanati da un singolo cittadino, entro il 15 maggio 2011. Successivamente, entro giugno, una giuria composta da Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab del Massachusetts Institute of Technology, Riccardo Luna, direttore di Wired Italia, Gianluca Dettori, fondatore di dPixel, Linnea Passaler, fondatrice di Pazienti.org e Augusto Pirovano, ideatore di CriticalCity Upload, selezionerà i 5 progetti migliori, tenendo in considerazione il grado di maturità e la fattibilità delle idee, la loro originalità ed innovazione, e il potenziale impatto che potrebbe derivare dalla loro realizzazione.

giovedì 21 aprile 2011

Il cittadino 2.0 e' piu' soddisfatto e consapevole

[viasarfatti25.it 21/04/2011]

Pubblica amministrazione. Un'indagine sulla maturità della presenza online delle p.a. europee

di Luca Buccoliero ed Elena Bellio, rispettivamente, lecturer e borsista presso il Dipartimento di marketing della Bocconi

La crescita delle potenzialità del web ha ridefinito profondamente lo scambio di beni o servizi tra amministrazioni locali e cittadini, favorendo l’empowerment di questi ultimi, i quali manifestano crescenti esigenze di accesso a informazioni qualificate, personalizzate e immediatamente fruibili. Il Journal of E-governance ha pubblicato i primi risultati della ricerca avviata dal Dipartimento di Marketing della Bocconi nell’ambito del ‘nuovo’ fronte di studi sul social marketing, che ha proposto una prima valutazione della maturità della presenza online delle pubbliche amministrazioni europee, con riferimento alla capacità di siti e portali di alimentare un effettivo empowerment dei cittadini. Inoltre, analizzando un caso concreto, la ricerca ha indagato gli impatti delle strategie di web 2.0 sulla fiducia e sulla soddisfazione dei cittadini.

Riguardo al primo obiettivo, è stato elaborato un indicatore di sintesi (Citizen Web Empowerment Index - CWEI) che ha attribuito un punteggio ai siti web istituzionali delle 42 amministrazioni municipali selezionate (in 20 paesi europei), individuate nell’ambito del network Major Cities of Europee. Per la valutazione sono stati considerati: la natura e la tipologia delle informazioni disponibili; la presenza di elementi di web 2.0 e di servizi erogati attraverso il canale mobile; la presenza di strumenti di e-consultation; la trasparenza online dei processi decisionali e l’evidenza del ruolo rivestito dalle valutazioni espresse dai cittadini (ad esempio con la pubblicazione online delle diverse fasi di procedimenti di particolare rilievo).
Rispetto a un valore massimo teorico pari a 100, la media dei siti si attesta ancora sul valore di 37,8. Mentre il contenuto informativo è ormai piuttosto strutturato (74/100), più modesta è la diffusione degli strumenti di e-consultation (32,4/100) e di elementi di web 2.0 (23,2/100). Infine, circa la trasparenza dei processi decisionali, il dato mostra una profonda immaturità (8,3/100).
La prima città italiana nella graduatoria è Venezia (con il punteggio di 66), preceduta dalla greca Trikala (87), un laboratorio di innovazione di reale eccellenza in Europa, da Amburgo (83) e da Vienna (79).
Proprio sul Comune di Venezia è stato condotto un approfondimento volto a mostrare il ‘valore’ creato per i cittadini attraverso gli strumenti del web 2.0 (analizzando un servizio per la raccolta georeferenziata di segnalazioni da parte dei cittadini, con l’obbligo per il comune di gestirlo in modo trasparente sul web). In questo caso il confronto tra due gruppi di cittadini (utilizzatori e non utilizzatori del servizio) ha consentito di dimostrare che il primo gruppo esprime un più elevato livello di soddisfazione nei confronti dell’amministrazione, un migliore giudizio sulle relazioni con il comune, una maggiore fiducia sul buon esito della propria segnalazione e, soprattutto, uno spiccato interesse verso le segnalazioni effettuate dagli altri cittadini e verso i relativi tempi di gestione da parte dell’amministrazione.
Tuttavia, come testimoniato dai valori complessivamente ancora limitati dell’indice, le amministrazioni stentano a comprenderne il vero potenziale e a investire adeguate risorse e progettualità. La situazione italiana è poi resa critica da limiti infrastrutturali, tra i quali l’assenza di connettività wi-fi gratuita (si noti che Venezia, prima città italiana nel nostro ranking, è anche il primo capoluogo ad aver realizzato una rete wi-fi per i propri cittadini e per i visitatori) e i limiti delle reti mobili per il traffico dati. Un superamento di questi limiti è l’auspicabile condizione per lo sviluppo di progettualità innovative volte alla creazione di valore per il cittadino-cliente. Ma, forse, il limite più rilevante è la difficile accettazione, da parte di molti amministratori, dell’elevato grado di trasparenza nei confronti dei cittadini che la rivoluzione digitale rende inevitabile.

Genitori e prof, attenti all’"insostenibile leggerezza" digitale

[Il sussidiario.net 20/04/2011]

Se un navigatore appassionato di web 2.0 avesse passato i giorni scorsi a curiosare tra blog e social network, si sarebbe imbattuto in due filoni di discussione animata tra i frequentatori della Rete. Uno dei due si riferiva alla recente puntata di Report dedicata a Facebook, Google, Twitter e all’uso che simili siti (e le società che stanno loro dietro) fanno dei dati personali che gli utenti loro affidano. L’altro prendeva le mosse dalla giornata di mobilitazione per la scuola, la “Notte bianca della scuola” organizzata dal Partito Democratico per lo scorso 8 aprile, al quale un nutrito gruppo di blogger ha proposto di far seguire un’analoga giornata di mobilitazione sul Web, per dire la propria sulla scuola italiana e sulle sue prospettive.
Due argomenti solo apparentemente irrelati, che difatti in pochi hanno esplicitamente messo in rapporto. Eppure, parlare di istruzione, di educazione, di formazione, attraverso Internet e gli strumenti di condivisione non può non richiamare a una riflessione sul canale che si sta utilizzando, e che gli stessi partecipanti alla discussione hanno dovuto imparare a maneggiare. Anzitutto, facendo i conti con il suo potere di diffusione.
“Il web 2.0 è un formidabile moltiplicatore, tanto nel bene quanto nel male” afferma Monica Gobbato, avvocato, esperta di privacy e attenta osservatrice delle nuove tecnologie. “Dei centinaia e centinaia di contenuti diffusi ogni giorno su Internet dagli utenti, pochi sono le informazioni, i commenti o i post sensati o interessanti; ma tutti vengono diffusi allo stesso modo, spesso oltre la stessa consapevolezza di chi li ha immessi in Rete”. Tra questi rientrano i dati e le informazioni personali: non solo quelle degli autori stessi dei contenuti, ma anche di terzi, magari citati a loro insaputa, magari non sempre in maniera lusinghiera.

Per carità, niente di più che comuni confidenze da bar: solo che invece che scorrere via, come accadrebbe se fossero nate davanti a un caffè, in Rete restano lì a duratura testimonianza.

“Da tempo parliamo di diritto all’oblio”, afferma ancora Gobbato, “vale a dire del diritto di ogni persona a non essere giudicato per errori compiuti molto tempo prima”: errori che in Rete diventano storia, e faticano ad essere cancellati e quindi perdonati - una lezione importante per chi ha la vita davanti. Oltre alla diffusione, il Web è caratterizzato dalla permanenza: tutto quello che viene scritto o immagazzinato - opinioni, immagini scherzose e/o compromettenti, dati sensibili - resta impresso nella memoria collettiva della Rete, pronto a restituire l’immagine di chi l'ha originato a chiunque si metta sulle sue tracce. E più frequenti e più corposi sono i contributi - come quelli quotidianamente assicurati dalla componente più giovane dei frequentatori di social network -, più l’immagine sarà completa, e indelebile.

Il rischio ultimo è quello di esporre pubblicamente, e prolungatamente, il bene più prezioso che possediamo: la nostra stessa identità. Chi sostiene la necessità della scuola italiana di mettersi al passo con i tempi, auspicando un maggiore coinvolgimento delle nuove tecnologie già frequentate dai ragazzi, non può esimersi dal confronto con questo problema, e con la necessità di educare gli allievi ad affrontarlo a loro volta.
Non perché siano tecnologicamente poco edotti, al contrario: ma proprio questa familiarità “nativa” con la Rete, sostiene Gobbato, potrebbe ostacolare un approccio più mediato e riflesso con il mezzo. Compito degli educatori, a partire dalla famiglia, è quello di smascherare la leggerezza solo apparente dell’immaterialità digitale, che cela l’insostenibile pesantezza della parola. Ma per insegnare a sostenerla, non servono nuove né vecchie tecnologie: serve etica, esempio, rispetto, in una parola responsabilità.

Paola Liberace

mercoledì 20 aprile 2011

iPad alla conquista dei bambini: in Usa sarà venduto come giocattolo

[Il Quotidiano italiano 20/04/2011] Dopo aver conquistato il mercato di tutto il mondo, Asia compresa, l’iPad 2 della Apple di Steve Jobs conquista il mondo dei più piccoli. Obiettivo del direttore dell’industria della “mela” americana è quello di mettere in commercio il nuovo modello dell’iPad ma in una versione del tutto speciale: per i bambini.

La tavoletta elettronica più conosciuta del mondo vuole conquistare i bambini, con un particolare uso didattico e divertente. Non a caso alcune ricerche effettuate negli Stati Uniti dimostrano che i bambini dai 6 ai 12 anni preferiscono ricevere in regalo il nuovo iPad invece del tradizionale videogioco, computer o telefonino.

L’Apple sta riuscendo nel suo intento portando la commercializzazione della tavoletta elettronica nei negozi di giocattoli americani, in particolare nella catena di negozi Toy R Us. Così l’intelligenza e il divertimento si potranno riunire in un unico dispositivo in grado di far convivere giochi e studio in unico strumento, divertente e molto avanzato.

Ma la notizia che stupisce di più agli occhi di tutto il mondo è la decisione di alcuni asili del Maine, una regione americana, che hanno adottato come strumento di lavoro didattico l’iPad. Così i bambini, sin dall’età del gioco, potranno districarsi nella moderna tecnologia e giocarci come se fosse un libro o una costruzione.

Che l’iPad o gli altri strumenti elettronici fossero il futuro per gli studi nelle scuole lo sapevamo, ma mai nessuno avrebbe pensato di ritrovare su un banco di un asilo di un bambino di 3 anni, un “concentrato” altamente elettronico. Del resto è notizia di poche settimane fa che in Italia, anche l’università si sta fornendo di materiale elettronico, sostituendo i manuali cartacei a comodi ebook, inquinando meno l’ambiente e risparmiando qualche soldino per l’acquisto dei libri.

Daniele Fox

martedì 19 aprile 2011

Social networking, allarme stalking per i giovani

[Affaritaliani.it 18/04/2011]

Secondo un sondaggio svolto su incarico della Commissione europea su un campione di 25 000 bambini e ragazzi in 25 paesi europei risulta che il 77% dei ragazzi tra i 13 e i 16 anni e il 38% dei bambini tra i 9 e i 12 anni ha registrato un profilo su un sito di social networking. Un quarto degli intervistati dichiara di navigare su siti come Facebook, Hyves, Tuenti, Nasza-Klasa SchuelerVZ, Hi5, Iwiw o Myvip con un profilo "pubblico", visibile a tutti, e molti di loro vi indicano anche il loro indirizzo e/o il numero di telefono. I più attrattati da questa moda sono i ragazzi dei Paesi Bassi con punte del 70% mentre i più freddi sono i francesi con un modesto 25%.

Altro dato interessante è quello che riguarda il numero dei contatti sul proprio profilo.Il 15% dei bambini dai 9 ai 12 anni indica di averne più di 100 con un picco del 47% fra gli ungheresi. Tra i ragazzi dai 13 ai 16 anni i belgi, i danesi, i greci, gli ungheresi, gli italiani, gli olandesi, i norvegesi, i polacchi, gli svedesi e gli inglesi tendono maggiormente a superare i 100 contatti a persona rispetto ai loro coetanei negli altri paesi.


Secondo Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea responsabile dell'agenda digitale, "un numero crescente di bambini e ragazzi si collega ai siti di social networking, ma molti di loro non adottano i necessari accorgimenti per proteggersi in rete, esponendosi così al rischio di stalking e adescamento. Tutti i gestori di siti di social networking dovrebbero pertanto immediatamente aumentare automaticamente il livello di privacy dei profili dei loro utenti minorenni, rendendoli accessibili soltanto a una cerchia di persone stabilita dagli utenti stessi ed escludendoli dai motori di ricerca online. Gli operatori che non hanno ancora sottoscritto l'accordo europeo sulla socializzazione in rete più sicura sono chiamati ad aderire in tempi brevi, perché è in gioco la sicurezza dei nostri figli". Il commissario si riferisce all'accordo, mediato dalla Commissione, e firmato nel 2009 dai gestori dei principali social network, che hanno deciso di adottare misure a tutela della sicurezza in rete dei loro utenti minorenni.

A breve la Commissione pubblicherà la prima tranche dei risultati delle valutazioni sull'applicazione dell'accordo europeo da parte dei seguenti firmatari: Arto, Bebo, Facebook, Giovani, Hyves, IRC Galleria, MySpace, Nasza-Klasa, Netlog, One.lt, Rate, SchuelerVZ, Tuenti e Zap.

Facebook: bimbi online; UE più di un terzo sotto i 13 anni

[AGI 18/04/2011] AGI - Bruxelles, 18 apr. - Troppi bimbi su Facebook: piccoli dai 9 ai 13 anni ai quali non dovrebbe essere consentito navigare sul social network e che invece, tramite escamotage, fanno circolare i loro dati personali in rete. L'allarme e' della Commissione europea che ha pubblicato uno studio di EuKidsOnline, secondo cui i bambini al di sotto dei 13 anni che hanno un profilo sul famoso social network sono il 38% mentre un altro 70% si colloca nella fascia 13-16 anni.

Complessivamente Facebook viene usato da un terzo di tutti i bambini europei tra i 9 e i 16 anni a dimostrazione che le restrizioni di eta' vigenti, diverse seconda dei paesi, non servono a limitarne il fenomeno. Inoltre un quarto dei bimbi rende 'pubblico' il suo profilo invece che diffonderlo solo ad amici e conoscenti, mettendosi quindi a repentaglio di eventuali predatori di rete. "Un crescente numero di bambini e' i rete - ha detto il commissario Nelie Kreos incaricata del monitoraggio su Internet - e i social network non prendono misure sufficienti per proteggerli".

Il paese piu' esposto, secondo lo studio, e' l'Olanda che ha una percentuale del 70% di bambini su Facebook tra i 9 e i 13 anni e l'87% di quelli tra i 13 e i 16 anni. L'Italia , insieme alla Germania e alla Spagna, e' il Paese con le percentuali piu' basse di partecipazione, 34% di bimbi sotto i 13 anni e il 74% al di sopra. E' invece la Francia, il piu' tutelato in assoluto, con solo il 24% dei piu' piccoli in rete anche se la fascia tra i 13 e i 16 anni balza all'82%. Facebook vieta l'account ai bambini al di sotto dei 13 anni e nel suo regolamento online e spiega che il profilo dei bambini al di sotto di quella eta' "verra' immediatamente cancellato". Ma a quanto pare non basta.

Social network, c'è anche l'Italia

[L'Espresso 18/04/2011] Non è facile, ma qualcuno ci riesce anche da noi: i social network all'italiana non mancano e i piccoli Mark Zuckerberg nostrani crescono. Peccato che qui per mettere in piedi un'impresa Web non basti un'idea vincente: bisogna combattere la burocrazia, la difficoltà di reperire finanziamenti e l'assenza totale di supporto pubblico. Nonostante gli ostacoli, però, anche in Italia emergono startup di valore a caccia di un loro spazio nel Social Web, sia locale sia globale.

Da Bologna, ad esempio, è partita pochi mesi fa l'avventura di Spreaker, il sito sociale che permette a ogni utente di creare la propria stazione radio con programmi, palinsesto e musica. Ogni mese vengono pubblicati 30 mila contributi sulle circa 65 mila radio ideate dagli utenti, destinate alle più diverse nicchie di appassionati: "Nelle stazioni tradizionali inevitabilmente non c'è spazio per soddisfare gli interessi di tutti", spiega Francesco Baschieri, il fondatore: "Abbiamo 200 mila ascoltatori al mese, segno che la nostra idea piace". Gli utenti sono in gran parte italiani, ma Baschieri e la sua squadra di under 35, che hanno ottenuto 300 mila euro di finanziamenti dagli investitori della rete Iag (Italian Angels for Growth), puntano al mercato mondiale e hanno già aperto un piccolo ufficio in California: "Abbiamo capito subito che dovevamo andare in Silicon Valley per crearci un network e allargare il nostro pubblico: negli Stati Uniti la burocrazia è dieci volte più snella e la rete di contatti non ha paragoni. In Italia non c'è un sistema dell'innovazione. Così abbiamo deciso di adottare il modello "testa nella Silicon Valley e braccia in Italia", mantenendo lo sviluppo del prodotto a Bologna ma portando la direzione in California".

Anche la storia della milanese MobNotes parte dall'Italia e passa dalla Silicon Valley. Si tratta di un social network georeferenziato che permette di lasciare dei post-it digitali nei luoghi visitati. MobNotes inizia come un progetto parallelo nel 2008, grazie a una squadra di tre persone. Sempre nello stesso anno l'idea viene presentata in California al concorso TechCrunch 50. "Nei prossimi mesi", spiega Gino Micacchi, cofondatore di MobNotes e un passato in Splinder, "rilasceremo delle applicazioni per community verticali con Rai e con Mtv", mentre il 30 per cento dell'azienda dovrebbe essere acquisito dal gruppo Brainspark (compagnia di investimenti quotata a Londra) per 600 mila euro: il che dovrebbe permettere al social network di raddoppiare la propria base di utenti, che oggi conta 150 mila iscritti.

Sempre a Milano è nata Fubles, la startup per "trovare il quinto a calcetto". Il progetto parte da Vito Zongoli, instancabile organizzatore di partite del Politecnico, che ha costruito un programma Web per gestire le convocazioni ed evitare le assenze dell'ultimo minuto. Una curiosità: il team di sviluppo si è incontrato proprio su un campo di calcetto e in sei mesi ha realizzato la prima versione del sito. Oggi Fubles conta tre dipendenti full time e 25 mila utenti in Italia: sta provando a espandersi in Spagna e Stati Uniti, anche grazie a un finanziamento di 300 mila euro da parte della Pino Partecipazioni (la società di investimento presieduta da Elserino Piol). "A chi usa il nostro sito ormai forniamo un servizio completo", spiega Mirko Trasciatti, Ceo di Fubles con un passato in Buongiorno.it: "Chi vuole giocare trova i campetti, le partite in cui serve un calciatore e può conoscere altri appassionati come lui".

Per guadagnare, Fubles punta sugli accordi con le strutture sportive, che versano una parte dei guadagni per le partire organizzate dal sito o acquistano il software gestionale per integrarsi con il social network e snellire la procedura di prenotazione dei campetti. Anche per Fubles prima dei finanziamenti c'è stato però un limbo fatto di lavoro gratuito, investitori poco reattivi, tempo e soldi persi: "Siamo andati a cercare dei finanziamenti quando il prodotto era appena finito", dice Trasciatti, "ma per più di un anno siamo dovuti andare avanti da soli e con doppi lavori. Inutili poi i bandi dei ministeri e in generale quelli pubblici, i cui responsabili hanno scarsa competenza e tempi lunghissimi per l'erogazione dei finanziamenti. Per una società Web invece il tempo è fondamentale, non si possono aspettare anni".
Dai campi di calcetto agli ospedali: la milanese Pazienti.org è nata nel luglio scorso ed è il primo social network in cui condividere il proprio rapporto e le proprie esperienze (positive o negative) con le strutture sanitarie e i centri medici. Lanciato grazie a fondi personali, è una delle aziende vincitrici del progetto Working Capital di Telecom, che ha fornito strumentazione e supporto logistico. "In un primo momento ci siamo concentrati sulla raccolta di informazioni come la lunghezza delle liste di attesa per gli interventi o gli esami", spiega Linnea Passaler, medico e fondatrice del social network: "Poi però abbiamo capito che ai pazienti interessa soprattutto sapere qual è il posto migliore in cui ricevere le cure e ci siamo sviluppati in quella direzione". Pazienti.org si è trasformato così in una piattaforma per la recensione delle strutture sanitarie, riprendendo in parte il modello che ha decretato il successo di TripAdvisor (consigli e sconsigli di viaggio, hotel etc). I ricavi arriveranno dalle funzioni aggiuntive a pagamento che le strutture sanitarie interessate potranno attivare, mentre l'accesso per gli utenti è gratuito.

Una startup può partire anche da una tesi di laurea, come nel caso di Thounds, nata dall'idea di Francesco Fraioli e diventata un'impresa vera e propria a fine 2009, attraverso l'incubatore di Treviso H-Farm. Un team di quattro persone, con in media 30 anni, ha sviluppato il social network che permette ai musicisti di condividere un'ispirazione o una parte di un brano e di farlo completare al resto della community. Insomma, si fa musica insieme, on line. Gli utenti iscritti sono circa 10 mila, un terzo dei quali italiani: "Un progetto come il nostro ha senso solo se parla al mondo", spiega Fraioli, "e fin dall'inizio abbiamo comunicato solo in inglese per non rischiare di ghettizzarci nel mercato di casa nostra. Anche per questo oggi tanti utenti arrivano dal Sud America e dall'Oriente". E nulla, si sa, è più globale della musica.
Mauro Munafò

lunedì 18 aprile 2011

News e social network: Facebook vuole diventare “amico” dei giornalisti

[Blitz quotidiano 18/04/2011]

PALO ALTO – L’onda lunga di Facebook sembra essere ormai irresistibile, ed il gigante di Palo Alto, California, compie passi verso la conquista di territori ancora poco sfruttati. Il social network più famoso e importante del mondo ha dato il via ad una nuova politica nei confronti del mondo del giornalismo. Secondo le aspettative dei manager, in futuro i feed del sito (i feed sono strumenti che permettono di raccogliere dati eterogenei di Internet – notizie, musica, aggiornamenti, etc. – in una sola interfaccia) dovranno contenere più attualità ed informazioni. Per raggiungere l’obiettivo, Mark Zuckerberg sta assumendo persone con l’incarico di costruire relazioni con reporter ed istituzioni, ed inoltre di creare eventi dedicati al giornalismo.

Tra i nuovi acquisti della scuderia, Vadim Lavrusik, bielorusso di origine, comincerà una nuova carriera da «program manager». Dalla base operativa di New York, dovrà trovare le strategie più conveniente per convincere i giornalisti che Facebook è uno strumento fondamentale per il reporter, per la ricerca delle informazioni come per la promozione del proprio lavoro. Se è vero che ormai Facebook, grazie al suo mezzo miliardo di utenti iscritti, rappresenta un onnipresente ed imprescindibile mezzo di socializzazione, è anche vero che nel mondo dell’informazione il sito non ha mietuto i successi che i suoi potenti mezzi avrebbero potuto far prevedere.

Nella comunità dei reporter sono altri i social network che si sono radicati con successo. Siti come Twitter ed oggi anche il giovane Tumblr costituiscono degli strumenti utilizzati in moltissime redazioni per raccogliere e propagare informazioni. Per comprenderne il successo, basti pensare che il porta parola del Presidente degli Stati Uniti, Jay Carney, adempie il suo compito facendo un frequente uso di Twitter.

Rispetto a questi social network, Facebook resta di molto indietro. «Molti giornalisti non hanno ancora una presenza professionale su Facebook – dice Lavrusik – Pensano che sia qualcosa che si aggiungerebbe al loro carico di lavoro.. quando invece potrebbe rendere il lavoro più semplice.» Tra le diverse iniziative a cui il nuovo project manager sta già pensando c’è quella di creare una sorta di gigantesche pagine bianche del giornalismo, che permetterebbero ai reporter di entrare in contatto con le loro fonti. «L’obiettivo – continua Lavrusik – è colmare il vuoto tra i giornalisti e Facebook. Twitter è molto pubblico. E’ una piattaforma per informazioni. E’ facile vedere come si applichi alle informazioni.»

Secondo alcuni, la nuova missione grornalistica di Facebook trae origine da un caso di rivalità con Twitter. Mark Zuckerberg aveva tentato l’autunno scorso di acquistare la compagnia di «microblogging» con un’offerta di 2 miliardi di dollari che era stata però immediatamente rifiutata. E’ chiaro a tutti che l’implementazione delle nuove potenzialità di Facebook rappresenta una minaccia in primo luogo proprio per Twitter, che sembra però non preoccuparsene più di tanto.

Secondo i suoi manager, le diversità insite nei due social network imporranno automaticamente una diversificazione degli utilizzi. Sembrerebbe dunque che nella sconfinata rete ci sia spazio per tutti.

L'innovazione non abita qui Italia dietro Barbados e Oman

[La Repubblica 17/04/2011] Il World Economic Forum (Wef) boccia l'Italia in tecnologia e innovazione e stronca le politiche del governo. L'impietosa pagella è nell'ultimo rapporto (435 pagine) dell'organizzazione indipendente internazionale. È il decimo anno che il Wef pubblica un Global Information Technology Report e ogni volta va sempre peggio per l'Italia, nella classifica che analizza 138 Paesi mondiali. Ora siamo 51esimi, sotto Paesi come India, Tunisia, Malesia. Abbiamo perso tre posizioni nell'ultimo anno. Nel 2006 eravamo 38esimi: un tracollo costante. Questa classifica è un giudizio sull'essenza innovativa di un Paese. L'indice del Wef infatti ne analizza la capacità di trasformare le tecnologie in vantaggi per la vita quotidiana delle persone e per l'economia. Tanto più si è in cima alla classifica- dominata anche quest'anno da Svezia e Singapore- tanto più significa che il progresso è penetrato a fondo nelle strutture economiche e nella società di quel Paese, migliorandolo.

Il Wef, per arrivare a questo giudizio, considera numerosi indicatori oggettivi (rilevati da organizzazioni indipendenti come le Nazioni Unite) e li correla: si va dalla diffusione di internet e cellulari, alla qualità dell'istruzione fino alle politiche statali a favore dell'innovazione e dello sviluppo tecnologico. Ed è proprio per questo aspetto che l'Italia incassa una strigliata dal World Economic Forum. Nel capitolo in cui analizza l'Europa, comincia con le lodi alla Francia, Germania, ma poi nota "all'estremo opposto, Paesi come la Grecia e l'Italia". Il Wef accomuna Grecia e Italia anche nei consigli: dovrebbero migliorare fattori propedeutici al progresso (minori tasse e burocrazia, più libertà di stampa, tra le altre cose), aumentare l'adozione delle nuove tecnologie e, soprattutto, mettere informatica e telecomunicazioni al centro delle politiche nazionali. È qui la critica severa al governo. Quello italiano è giudicato al 113esimo posto, nel mondo, per apertura all'innovazione e al 89esimo per uso delle tecnologie. Fa peggio della Grecia per entrambi gli aspetti. "Lo Stato italiano investe molto meno degli altri europei per diffondere la cultura tecnologica, tra l'altro. Ma è stato in grado di spendere oltre un miliardo di euro nel digitale terrestre", nota Maurizio Dècina, ordinario di reti e comunicazioni al Politecnico di Milano.

Altri Paesi invece galoppano. Molti di quelli emergenti sono giudicati più pronti e aperti all'innovazione. Così il Wef mette il Costa Rica tra i casi eccellenti dell'ultimo anno, per aver investito in alfabetizzazione informatica e ridotto gli ostacoli al commercio di beni tecnologici, tra le altre cose. Così quest'anno ha superato l'Italia, nella classifica, per la prima volta.

Da noi qualcosa bolle in pentola, ma siamo ancora alla fase delle idee, per sbloccare la situazione. Un gruppo di docenti ed esperti, dietro il portale Agendadigitale. org, sta raccogliendo proposte di legge di parlamentari bipartisan. Il ministro all'Innovazione e alla Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, si è detto disponibile a esaminarle nelle prossime settimane. Obiettivo, creare la prima Agenda Digitale italiana, cioè un piano programmatico di governo per lo sviluppo tecnologico.

ALESSANDRO LONGO

Privacy, guida alla tutela sui social network

[Vostrisoldi 15/04/2011] Una guida per destreggiarsi sui social network nel rispetto della propria privacy. L’ha redatta il Garante per la Privacy ed è consultabile gratuitamente online. Certo, per difendere i propri dati possiamo fare molto, ma molto altro non dipende da noi. I dati contenuti nei social network sono una preda ambita delle aziende che su di essi sviluppano nuovi trend commerciali e nuovi prodotti da immettere sul mercato.

Facebook, social network per eccellenza, ha deciso di mettere a disposizione delle aziende HP, Intel e Dell i dati dei suoi oltre 500 milioni di utenti – foto, video, aggiornamenti di stato – conservati nei nuovi data-center e server di Prineville, nell’Oregon. Non solo, recentemente, sempre dagli Stati Uniti, si è appreso che alcune applicazioni dell’Iphone violerebbero la privacy degli utenti, mettendo a disposizione delle aziende i loro dati.

Insomma, per la tutela della privacy non tutto dipende da noi, però qualcosa in nostra difesa possiamo fare. Per prima cosa si può scaricare la guida “Social network: attenzione agli effetti collaterali” redatta dal Garante. La guida, redatta in termini non tecnici, è disponibile in italiano e in inglese e può essere richiesta anche in formato cartaceo all’indirizzo ufficiostampa@garanteprivacy.it. In secondo luogo si dovrebbe cercare di “postare” meno informazioni personali possibili e bandire assolutamente i dati cosiddetti sensibili, come l’orientamento politico, sessuale, religioso.

Men che meno, poi, bisognerebbe pubblicizzare i propri averi e i propri minorenni (figli, nipotini). Attenzione poi ai falsi profili: persone che rubano l’identità di personaggi noti o di semplici utenti. Una volta “pescato” un proprio falso sosia, comunicarlo al social network e alla polizia postale.

sabato 16 aprile 2011

Facebookmania: allarme minori

[Geekinformatico 15/04/2011] Nell’ultimo anno come tutti ben sanno Facebook è diventato il social-network più utilizzato in tutto il mondo, sia minorenni che maggiorenni ne usufruiscono per comunicare con i propri amici. Facebook però, contiene anche alcune pericolosità: infatti basta digitare date di nascita fasulle per raggirare il divieto di iscriversi. Con un totale di 600 milioni di iscritti nel mondo e quasi 18 milioni in Italia, un terzo della popolazione italiana è iscritta sul famosissimo social-network. Il fattore allarmante è che poco meno di 3 milioni e mezzo hanno meno di 17 anni, è ancora più sconcertante scoprire che quasi 1 milione di baby utenti sono bambini con meno di 13 anni. Ad oggi risulta anche che ben 7 bambini su 10 hanno un profilo su Facebook ed addirittura 4 su 10 hanno avuto richieste di incontro da vicino da parte di uno sconosciuto tramite il social network (adescamento online – grooming“). Dati abbastanza allarmanti.
Oltre alle misure imposte dalla legge per la tutela dei minori, i genitori devono imporre limiti precisi e seguire l’attività dei propri figli su internet, anche la scuola deve cercare di indirizzare ed intervenire sul minore con un programma di sensibilizzazione del problema. Molte volte i bambini sono pieni di curiosità e non sono consapevoli delle conseguenze delle loro azioni o sopratutto del contesto in cui si trovano. Gli strumenti messi a disposizione dalla rete e dai cellulari possono essere utilizzati da adulti potenziali abusanti per entrare in contatto con ragazzi e ragazze. Nella Grande Ragnatela Mondiale del Web le regole vengono facilmente eluse e solo i genitori mantenendosi sempre aggiornati possono seguire e guidare i figli. Si potrebbe arrivare a temere che Facebook diventi un’ossessione per i giovani, infatti solo il 3% dei ragazzi tra i 18 e i 30 anni non ha un profilo su Facebook. Facebook non deve diventare per gli adolescenti una vera e propria droga. Esistono anche dei social-network dedicati ai minori: Toghetherville, Star Doll e MyPagee.

Il “grooming” più dettagliatamente, è il fenomeno in cui l’adulto potenziale abusante, induce gradualmente la potenziale vittima (bambino/a o ragazzo/a) a superare le resistenze attraverso tecniche di manipolazione psicologica.

Si ricorda anche, che esiste una nuova legge contro l’adescamento online che introduce i reati di adescamento dei minori anche attraverso Internet. Infatti, i reati di pedofilia e pedopornografia culturale o di istigazione sul web, secondo il nuovo articolo 414 bis del codice penale verranno puntiti con un periodo di detenzione dai 3 ai 5 anni.



venerdì 15 aprile 2011

Net Delusion: Chi è Evgeny Morozov

[IlSole24Ore 14/04/2011]

Quando internet aiuta lo sviluppo della democrazia? È una domanda per ricostruire il percorso di Evgeny Morozov, blogger e ricercatore universitario che sfida le convinzioni monolitiche dei guru del web. E ha dimostrato, per esempio, che pochi iraniani hanno scritto messaggi sul social network twitter durante le proteste di piazza a Teheran. Anzi, racconta nel suo libro "Net Delusion" che in Russia gli spazi di intrattenimento online spostano l'attenzione dei giovani dalla partecipazione civica. E negli ultimi mesi ha indagato sulle connessioni tra le manifestazioni in strada e l'attivismo online nelle nazioni del Nord Africa: Tunisia, Libia, Egitto.

Quella di Morozov è una biografia complessa. È nato in Bielorussia, la nazione dove sopravvive l'ultimo dittatore dell'Europa, il presidente Alexander Lukashenko. Ha partecipato a organizzazioni non governative impegnate per la democrazia nell'Europa orientale. Poi è entrato nella Open Net Initiative, un'associazione per difendere la liberà di espressione attraverso internet.

Ma ha conquistato l'attenzione dei blogger tre anni fa, quando ha scritto un post sulle proteste in Moldavia, al confine con la Romania: i manifestanti comunicano su twitter per amplificare la loro voce, come sarebbe avvenuto pochi mesi dopo in Iran durante la "rivoluzione twitter", quando gli studenti scendono in piazza contro i risultati delle elezioni presidenziali. E arriva una pioggia di messaggi sui social network.

Morozov, però, è stato tra i primi a dubitare dello slogan "rivoluzione twitter". Poco tempo dopo dimostra che in realtà soltanto una frazione delle comunicazioni proveniva dall'Iran. La maggior parte, invece, ha origine all'estero: gli utenti segnalano link o inoltrano altri micropost. E alimentano l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale. Morozov scrive in quei giorni che l'attività sui social network è stata "un grande aiuto per portare le informazioni fuori dalla nazione. Ma se abbia contribuito a organizzare le proteste – un'idea che i media stanno dichiarando al momento- non è del tutto certo. Una piattaforma pubblica come twitter non è molto utile per pianificare una rivoluzione (le autorità potrebbero leggere i messaggi!)". E il suo blog, Net Effect, diventa un punto di riferimento per giornalisti, politici, analisti. Inotre pubblica articoli per la stampa internazionale: Economist, Wall Street Journal, Financial Times, Washington Post.

L'ex attivista della Bielorussia ha criticato altre volte l'ideologia di chi sostiene che internet sia sempre sinonimo di democrazia. Fino a scrivere un libro, "Net Delusion", che esplora i limiti delle "cyberutopie". Ricorda, per esempio, che la caduta del muro di Berlino è stata ricollegata alla diffusione di fotocopiatrici e fax che hanno facilitato la diffusione di messaggi per la libertà dietro la "cortina dell'informazione" nell'ex Urss. Ma, sottolinea Morozov, sono ipotesi prive di analisi dei contesti sociali, culturali e politici. Negli ultimi anni ha esplorato Runet, l'universo online delle Russia contemporanea: osserva che la proliferazione di contenuti di intrattenimento attraverso video e social network non incrina il consenso verso il Cremlino. Anzi, alcuni blogger sono diventati parte dell'establishment.

Nelle recenti proteste in Medio Oriente i social network come Facebook hanno contribuito a diffondere, anche all'estero, i messaggi di libertà. Soprattutto in Tunisia. Per Morozov è un'occasione di capire l'attivismo per la democrazia, in strada e su internet. Nelle ultime pagine di "Net Delusion" propone un manifesto per i "cyber-realisti": "Accetteranno che un mondo fatto di bytes può sconfiggere perfino la legge di gravità, ma non esiste assolutamente nessuna imposizione sul fatto che dovrebbe piegare anche la legge della ragione".

Luca Dello Iacovo

giovedì 14 aprile 2011

Usa: 300 iPad 2 per i bambini dell’asilo

[Newnotizie 13/04/2011] Usa: iPad nelle scuole. Cari bambini del Maine, dite addio ai libri che tanto amate scarabocchiare. A breve sarete dotati del nuovo iPad per la scuola. No, no! Non sono delle nuove caramelle. Ma stiamo parlando del tablet dell'Apple che vi accompagnerà nelle lunghe ore scolastiche. Il distretto scolastico americano del Maine sarà il primo del paese a dotare i propri bambini dell'asilo di un iPad 2 che fungerà da supporto didattico multimediale. Un intervento nelle scuole che porterà circa 300 Apple iPad 2 e che costerà allo stato del Maine circa 200.000 dollari. Le polemiche sono arrivate immediatamente proprio perché si pensa sia un errore assegnare un prodotto del genere a bambini di 4 e 5 anni, troppo piccoli per il tablet della casa di Cupertino. Al suo posto, infatti, genitori e maestre preferiscono i classici libri da colorare rispetto a un prodotto multimediale.

Il Maine: all'avanguardia. Il Maine non è nuovo a queste innovative iniziative. Già nel 2002 aveva distribuito notebook a quasi il 50% dei propri studenti delle scuole di I e II grado, equivalenti alle nostre medie e superiori. Ma le distribuzioni di iPad a carico del sistema scolastico non sono più una novità: per attirare nelle scuole superiori o università i migliori studenti, sono ormai moltissimi gli istituti che offrono un iPad tra la dotazione scolastica gratuita. Un piccolo prezzo da pagare per avere i migliori cervelli nella propria scuola.

Daniela Ciranni

mercoledì 13 aprile 2011

Aziende, caccia e spionaggio sul web per "scoprire" il candidato da assumere

[La Repubblica 13/04/2011] I direttori del personale, quelli che decidono il destino di molti, vogliono saperne sempre di più. Quando si tratta di assumere qualcuno, ci pensano due volte e quasi sempre digitano sui motori di ricerca il nome e cognome di chi gli ha inviato un curriculum. Vogliono trovare quante più tracce possibili. Vogliono scoprire quello che, durante un colloquio di lavoro, non viene fuori quasi mai. Come innamorati irrequieti, cercano in rete qualcosa che possa colmare il vuoto che gli sembra sempre di provare.

Nei primi mesi di quest'anno, sette imprese su dieci hanno cercato sul web informazioni su chi ha presentato una candidatura. "Tutte le informazioni che si possono trovare su Internet - dice Giorgio Aravecchia, direttore di gruppo delle risorse umane della Panini Spa, l'impresa produttrice di figurine - sono utili per riuscire a individuare meglio la personalità della professionista che ci si trova davanti. Quando uno fa il colloquio c'è sempre un po' di marketing reciproco. La società dà prevalenza agli aspetti positivi della figura che offre e cela quelli che ritiene meno appetibili. Lo stesso fa il candidato, parla bene delle esperienze, dice di essere stato il protagonista dei punti di svolta dell'impresa in cui ha lavorato. Anche se così non è stato".

Tabelle 1 1 - 2 2 - 3 3 - 4 4 - 5 5

La frase e l'assunzione rinviata. Ogni traccia può svelare qualcosa di utile e di inatteso. Può essere un progetto realizzato qualche anno prima e che neppure noi ritenevamo più rilevante o anche un mese di volontariato in un paese lontano. Può essere un risultato conseguito che avevamo sottovalutato e non lo avevamo riportato nel cv. Oppure dei commenti su Facebook che era meglio non scrivere. Consuetudini o eccentricità. Alle volte, per insinuare un dubbio in testa a un datore di lavoro, può bastare anche una sola frase. Come quella che un giovane ingegnere, poco prima di un colloquio, aveva lasciato scritta in un forum: "Tra un anno mi trasferisco in Giamaica". Non importa se concreta dichiarazione di intenti o effimero sogno di una sera, di sicuro al direttore del personale non ha fatto piacere leggerla.

Carattere e competenze. Le aziende d'altronde assomigliano sempre di più a organismi complessi che respirano e si muovono grazie all'interrelazione stretta di uomini e funzioni. "Ogni due mesi - spiega Aravecchia - lanciamo sul mercato un prodotto che può vendere tantissimo o pochissimo e contano molto la capacità di dedicarsi a un progetto urgente e sapersi congedare da quello che si stava facendo, il tutto senza incidere negativamente sul gruppo. In un colloquio è difficile che queste caratteristiche vengano fuori". In questi ultimi mesi, dice l'indagine realizzata per la nostra testata da Gidp, associazione di direttore del personale, il 71 per cento delle imprese ha cercato informazioni sui candidati. La gran parte lo fa per saperne di più e capire meglio il contesto in cui si muove e se il suo stile di vita è coerente con la posizione e la filosofia aziendali. Solo il 29 per cento dei responsabili ha negato di avervi mai fatto ricorso.

Il volto nascosto. "Ormai Internet ha più conoscenza di quanta ce ne possiamo ricordare noi stessi". Dice Angelo Alfieri, direttore risorse umane e organizzazione di Sofinter, gruppo operante nel settore dell'energia: "Googlare qualcuno è ormai un'abitudine anche professionale. Non è soltanto il caso dei social network, ma tutto quello che è la Rete. Tutto quello che possiamo trovare. Penso che la vita della persona sia facilmente identificabile nel web. E' come vedere l'altra faccia del candidato, quella che non ti viene mai mostrata direttamente durante il colloquio".

Lo sguardo sul giardino del vicino. Ma sul web, e soprattutto sui social network professionali, i responsabili delle risorse umane vanno a cercare anche i profili della concorrenza. Informazioni che prima era molto più complesso avere. Alice Mattiello, human resources manager di Everel Group, fornitore di componenti elettromeccanici per i produttori di elettrodomestici, spiega come ora sia "possibile capire se nelle aziende concorrenti ci sono figure con una certa anzianità e che potrebbero essere motivate al cambiamento". "Sempre più professionisti - spiega - mettono il loro profilo su Internet e sono pronti a valutare nuove possibilità". Insomma le imprese possono costruire da sé, in questo modo, una rosa interessante di candidati senza avere bisogno, almeno fino a questo stadio, di pagare inserzioni o coinvolgere società di selezione.

Le bugie e la verifica. C'è poi il bisogno di controllare quel che dicono i candidati. I responsabili delle risorse umane mostrano ormai una certa diffidenza, giustificata o meno, nei confronti di quello che viene dichiarato in cv e colloqui. Anche perché in questi ultimi mesi sembrano aumentati i casi di chi tende a ingigantire incarichi e mansioni. A farlo sono soprattutto le figure intermedie dell'amministrazione e delle divisioni tecniche. "In più occasioni - racconta Mattiello - mi stanno capitando persone con attività e ruoli che non corrispondono a quanto dicono. Casomai hanno svolto ruoli più marginali, difficile che mentano sull'azienda. Non dicono la verità sull'area e le funzioni. Approfittano del cambiamento per proporsi per ruoli superiori e abbozzano un profilo di responsabilità che invece non era effettivo. Si può dire che anticipano la loro crescita professionale".

Con l'affanno di chi ha bisogno di trovare un lavoro, i protagonisti di questi piccoli inganni alle volte non fanno neppure attenzione a riportare sul profilo del network sociale le stesse caratteristiche descritte sul cv consegnato in azienda. Con qualche effetto negativo. "E' sempre meglio dire la verità. Ad ogni modo - prosegue Mattiello - , se non emerge qualcosa di grave, io tendo a non precludere il contatto diretto e il primo colloquio di persona. Quel che trovo però mette già dei punti da cui partire e che io vado a riscontrare in occasione dell'incontro".

Soprattutto manager e neolaureati. Le figure che vengono più attentamente scrutinate sono quelle che devono andare a ricoprire posizioni dirigenziali e i giovani che escono dalle università e non hanno ancora avuto esperienze in realtà imprenditoriali. "I manager - spiega Paolo Citterio, presidente di Gidp/Hrda - attirano maggiormente l'interesse, visto che devono essere reclutati per posizioni importanti ove la credibilità, l'onestà, lo stile di vita e le relazioni personali incidono in misura significativa sul loro futuro ruolo professionale". Ma anche i giovani che entrano in azienda. "Perché - aggiunge Citterio - mentre per gli impiegati e i quadri esistono delle referenze date dai precedenti datori di lavoro, dalle relazioni emerse dai contatti nelle associazioni o da persone, sui neolaureati visioniamo solo il cv scolastico e la fotografia quando ci viene trasmessa oltre agli hobby e null'altro."

Importanti ma non decisive. Ma quanto incidono davvero queste tracce lasciate sul web dal candidato e attentamente recuperate dal selezionatore? Le informazioni pesano sia sul colloquio sia sulla decisione finale e condizionano, in parte o in maniera decisiva, circa i due terzi dei direttori del personale. "Le informazioni corredano un curriculum - sottolinea però Citterio - , ma non sono decisive. Servono per conoscere meglio i candidati, per verificare se il loro stile di vita, i valori che loro esprimono sono simili a quelli dell'impresa. Senza parlare poi degli atteggiamenti espressi dai candidati che possono favorirli rispetto agli altri o meno".

Quello che l'azienda non vuole leggere. Quel che sarebbe meglio evitare sono soprattutto opinioni negative, informazioni riservate e commenti sul precedente datore di lavoro. "Non è bello trovare dei passaggi offensivi verso le vecchie aziende o i lavori precedentemente svolti - spiega Alfieri - ; meglio una persona che è stata solo tre settimane in un'azienda e scrive 'esperienza breve ma intensa' che chi rimane più a lungo, ma poi inveisce con volgarità contro il precedente datore di lavoro. Non è un segno di tranquillità della persona". Negativi riscontri anche per dichiarazioni razziste e discriminatorie, consumo di alcol e droghe, inesattezze su competenze e titoli di studio e immagini non appropriate.

Quello che accadrà domani. Quale che sia la nostra abitudine e propensione a rendere pubblico ciò che ci riguarda, sarà bene prestare sempre più attenzione alle tracce che lasciamo. Anche perché le aziende attingeranno sempre di più a informazioni sul web e a profili presenti sui network sociali. Il 27% delle imprese dice che nei prossimi due anni utilizzerà proprio questi strumenti per individuare i migliori candidati e un altro 54% lo farà saltuariamente. Tra le ragioni che spiegano questa evoluzione, sopra tutte, c'è la convinzione che nell'oceano digitale ci siano ormai molti professionisti di ottima qualità. A questo si aggiunga che tramite web è possibile raggiungere anche chi cerca lavoro passivamente. E, soprattutto di questi periodi, permette di tagliare sulle spese di ricerca. Sarà comunque un bene se almeno una parte di quei soldi risparmiati nei costi di selezione finirà nelle tasche dei nuovi assunti.
Federico Pace

Storify - Raccontare una storia aggregando frammenti raccolti dal web

[100blog 11/04/2011] Storify è una innovativa piattaforma Web 2.0 che consente di aggregare tweet, post, commenti, foto e video per raccontare una storia.

Tramite una comoda interfaccia drag&drop è possibile "assemblare" il proprio racconto con frammenti raccolti in rete e restituiti al lettore in forma strutturata.

Storify è un ottimo strumento per il webgiornalismo ma non solo. E' anche un potente strumento per blogger e creatori di contenuti.

La piattaforma è ancora in beta e molto è ancora da fare ma si offre certamente come un ottimo strumento per creare rapidamente del valore aggiunto partendo dalla grande massa di informazioni presenti in rete.

Cosa c'è di meglio nel descrivere cosa è Storify con una storia scritta con Storify?

Eccola qui!

Massimiliano Puccio