Si chiama Qwert ed è il primo social network che non spaventa docenti e genitori. Anzi è stato pensato e ideato per i più giovani, per i ragazzi nati e cresciuti nell’epoca delle chat. A progettare il Facebook senza rischi ci hanno pensato l’Azienda Ulss 9 di Treviso con il Comune, il Lions Club e l’ufficio scolastico provinciale. Di fronte al problema del cyber bullismo e all’allarme Ask.fm, Treviso ha provato a dare una risposta: un social network per i ragazzi degli istituti scolastici secondari di primo grado del territorio dell’azienda sanitaria 9; un bacino potenziale di 2500 studenti in tutte le nove scuole, sia pubbliche e private, della città (oltre ad altre tre in provincia). Una sperimentazione che punta ad estendere il modello a tutti i distretti arrivando a coinvolgere dieci mila studenti. Il tutto è nato con l’intenzione di dare ai ragazzi la possibilità di usare un social network dove potersi presentare, scambiare e conoscere pensieri, chattare, taggare in sicurezza. Non solo.
L’idea di H-Farm,
che ha sviluppato tecnicamente il progetto, è quella di aiutare i
giovani all’uso corretto di questi strumenti con adulti che si
“impicciano” online e offline (in contesto scolastico) favorendo il
pensiero critico.
“Qwert – ci spiega il capo progetto
Francesco Marini che con il direttore Enrico Di Giorgi hanno seguito il
tutto dall’inizio – è stato modulato dalla parola “qwerty” che sta ad
indicare la posizione dei tasti nella tastiera dei personal computer
occidentali. In realtà il suono richiama la parola trevigiana “coperto”
come se i ragazzi potessero trovare nel social network pensato per loro
un riparo, una tettoia sotto cui stare e dialogare. Al sistema si accede
tramite password e username e tramite la sottoscrizione dei genitori di
una liberatoria. La password è consegnata manualmente al ragazzo”.
Una vera e propria sfida educativa in un
momento in cui sembra che l’anonimato assicurato da Ask sia l’unica
cosa che affascina i giovani. I risultati sono confortanti: ad oggi sono
iscritti a Qwert più di 1630 ragazzi con una media di 350 attivi al
giorno e oltre 2000 discussioni. Gli utenti hanno creato più di 5.800
gruppi e si sono scambiati 2500 messaggi privati al giorno. Ma non
basta. Il social network di Treviso non si è limitato a coinvolgere i
ragazzi solo dietro lo schermo ma è riuscito a strappare dal pc gli
adolescenti e a creare momenti di aggregazione. Dal 2011 al 2013 sono
stati organizzati ben sei eventi: dal raduno promosso dagli stessi
giovani in piazza dei Signori, al flash mob su tematiche scelte dagli
stessi utenti del social network, alla caccia al tesoro, al mercatino di
Natale.
Ma che succede dentro Qwert? Si chatta,
ci si tagga, si scrive pubblicamente ma oltre a lasciare che i ragazzi
si scrivano liberamente sono state create delle “stanze” tematiche sui
temi della sessualità e dell’affettività con “esperti” dietro ai quali
si celano i professionisti dell’Ulss 9.
Ora Qwert punta sugli smartphone. In
un’Italia dove la maggior parte dei ragazzi usa i cellulari di ultima
generazione per dialogare con gli amici della rete, il social network
trevigiano sta pensando di adattarsi alla lettura device mobile. Tra i
progetti futuri c’è anche la creazione di una mappa del territorio di
Qwert dove i ragazzi potranno taggarsi o geo referenziarsi tramite
cellulare e arricchire la stessa cartina con immagini e video.
A Treviso hanno puntato in alto. Ci
stanno provando. Una sperimentazione per dare una risposta alla
richiesta dei giovani, senza dare giudizi su Facebook o Ask.fm. Anzi:
siamo di fronte ad un vero tentativo d’educare, senza paura, all’uso dei
social network. “Non siamo in concorrenza – aggiunge Marini – ad altro
social ma vogliamo essere una palestra per l’uso consapevole di essi”.
Un progetto che forse è eccessivamente
protettivo come un buon padre di famiglia ma che attrae i giovani.
Un’idea che è riuscita a coinvolgere anche le scuole che spesso parlano
solo con toni negativi di ciò che accede nella rete. Una proposta che il
Ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe promuovere e adottare per
gli istituti scolastici di tutto il Paese, magari offrendo
un’opportunità formativa anche ai docenti ancora troppo analfabetizzati
sulla didattica 2.0.
Alex Corlazzoli