lunedì 30 maggio 2011

Se il potere non ascolta il popolo di Internet

[La Repubblica 30/05/2011] Si può organizzare un "evento storico" su Internet senza il "popolo" di Internet? Si può esaltare il ruolo di Internet nel rendere possibili cambiamenti democratici e poi essere reticenti o silenziosi sulla effettiva tutela dei diritti fondamentali in rete? Si può definire Internet "un bene comune" e poi affermare l'opposto, la sua sottomissione alla logica della proprietà privata?

Sì, è possibile, per quanto contraddittorio o paradossale ciò possa apparire. È accaduto la settimana scorsa tra Parigi e Deauville, in occasione del G8 che Nicolas Sarkozy ha voluto far precedere da un grande incontro dedicato appunto ai problemi di Internet. Mettere questo tema al centro dell'attenzione mondiale poteva essere un fatto significativo se fosse stato accompagnato da presenze, proposte, conclusioni davvero corrispondenti alle dinamiche innovative, alle opportunità, alle sfide difficili che ogni giorno Internet propone a miliardi di persone. Non è stato così. Le molte parole dedicate a Internet nel comunicato finale del G8 sono vaghe quando si parla di libertà e diritti, e terribilmente precise quando vengono in campo gli interessi. Un esito prevedibile e previsto. Nelle parole di apertura di Sarkozy, infatti, Internet non è il più grande spazio pubblico che l'umanità abbia conosciuto. È, invece, un continente da "civilizzare", dunque un luogo dove si manifestano in primo luogo fenomeni negativi che devono essere eliminati.

Questo rovesciamento di prospettive non sorprende. Sarkozy è il governante che più ha sostenuto la necessità di affrontare i problemi del diritto d'autore unicamente con norme repressive, riproponendo in ogni occasione la sua legge Hadopi come modello, e che ha subordinato il rispetto della stessa libertà di espressione alle esigenze di forme generalizzate di controllo (è appena uscita in Francia una raccolta di analisi critiche delle sue politiche dal titolo Sarkozysme et droits fondamentaux de la personne humaine). È il politico che affida la "grandeur" francese ad una agenzia pubblicitaria, che ha organizzato l'incontro di Parigi, e la fa puntellare dalla presenza di quei padroni del mondo digitale che si chiamano Google, Microsoft, Facebook, che tuttavia hanno profittato dell'occasione per rivendicare un intoccabile potere.

Il comunicato finale del G8 rispecchia largamente questo spirito. Si parla del ruolo fondamentale di Internet nel favorire i processi democratici, ma non compare neppure un pallido accenno alle persecuzioni contro chi adopera la rete come strumento di libertà, alle decine di bloggers in galera in diversi paesi totalitari, alle forme indirette di censura in paesi democratici. Si subordina così il rispetto dei diritti fondamentali, della libertà di manifestazione del pensiero in primo luogo, alle logiche della sicurezza e del mercato, con un evidente passo indietro rispetto a quanto è da tempo stabilito, ad esempio, dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali dell'Onu. Si inneggia alla presenza di tutti gli "stakeholders", dunque di tutti gli attori dei processi messi in moto da Internet, ma poi si opera una drastica riduzione di queste presenze a qualche ministro francese (assenti i politici di altri paesi, in particolare gli americani notoriamente assai critici) e ai rappresentanti delle grandi imprese.

Una scelta così clamorosa e spudorata, che ha portato persino alla esclusione dei rappresentanti delle istituzioni che assicurano il funzionamento di Internet (Icann, Isoc), ha provocato una reazione dei pochi rappresentanti della società civile lì presenti, che hanno improvvisato una dura conferenza stampa, dove hanno preso la parola personalità rappresentative e tutt'altro che estremiste, come Lawrence Lessig e Yochai Benkler.

Siamo in presenza di una preoccupante regressione politica e culturale. L'esclusione degli altri attori, del popolo di Internet, ha determinato la cancellazione delle più interessanti elaborazioni e proposte di questi anni su modalità e principi ai quali riferirsi per il funzionamento di Internet.

Siamo tornati alla contrapposizione frontale tra regolatori, identificati con chi vuole imporre alla rete controlli autoritari, e difensori di una libertà in rete identificata con la libertà d'impresa. è stata ignorata la dimensione "costituzionale", quella che mette al primo posto una serie di principi fondamentali che tutti, legislatori e imprese, devono rispettare. Così stando le cose, sono ben fondate le critiche di chi ha parlato di un "takeover" dei governi su Internet, di una dichiarata volontà politica di mettere le mani sulla rete. E si è svelato pure il significato del richiamo al diritto di accesso da parte delle imprese.

Quando Eric Schimdt, parlando per Google, ha detto che l'unico compito dei governi deve essere quello di assicurare a tutti l'accesso ad Internet, certamente ha colto un punto essenziale, come dimostrano le molte costituzioni e leggi che in tutto il mondo stanno affrontando questo tema. Ma la sua indicazione si concreta poi in una richiesta volta soprattutto a rendere possibile la fornitura di servizi capaci di generare crescenti risorse pubblicitarie (ultimo Google Wallet), dunque di immergere sempre più profondamente le persone nella logica del consumo, mentre altra cosa è il libero accesso alla conoscenza in rete.

Certo, le imprese fanno il loro mestiere. Ma la loro capacità di produrre innovazione non può tradursi nella legittimazione ad essere gli unici regolatori di Internet. Perché è proprio così, dal momento che dispongono delle informazioni sui loro utenti, che sono i decisori unici e finali di molte controversie su che cosa deve entrare o rimanere in rete, che troppe volte hanno accettato le imposizioni di governi con l'argomento che stare sul mercato significa rispettare le regole nazionali, che esercitano un enorme potere economico.

I pallidi e retorici accenni alla privacy nel comunicato del G8, l'assenza di riferimenti alle posizioni dominanti di molte imprese, rivelano l'intento di una politica che vuole salvaguardare i propri poteri autoritari riconoscendo alle imprese un potere altrettanto autoritario. Inquieta, poi, la mancata analisi del tema della neutralità della rete, essenziale presidio per libertà e eguaglianza.

Ma questo disegno, questa nuova distribuzione del potere planetario non sono una via regia che potrà essere percorsa senza resistenze. Si potrà far leva sulle stesse contraddizioni del comunicato, cercando di rovesciarne le gerarchie e mettendo così al primo posto i riferimenti a libertà e diritti, alla pluralità degli attori.

Alla povertà e all'autoritarismo di quel comunicato si potrà opporre la ricchezza del rapporto dell'Onu sulla libertà di espressione che sarà presentato nei prossimi giorni a Ginevra. Peraltro, non sembra che tutti i governi siano pronti ad identificarsi con quella linea, come già mostrano alcune indirette riserve americane e le interessanti dichiarazioni del ministro degli Esteri tedesco. E soprattutto i soggetti e i progetti cancellati dal G8 con una mossa autoritaria rimangono vitalissimi e con essi, con la forza propria di Internet, bisognerà pure fare i conti.

La grande partita politica di Internet rimane aperta.
STEFANO RODOTÀ

Scienze: opportunità educative dal Web 2.0

[Education 2.0 27/05/2011]
Il mondo del Web 2.0, in cui ognuno di noi è allo stesso tempo utente e creatore di contenuti, offre opportunità educative eccezionali, in particolare per l’insegnamento delle scienze, tramite la partecipazione diretta degli studenti a progetti di alto profilo scientifico e sociale.



Forse per la prima volta nella storia dell’insegnamento delle scienze è oggi possibile proporre nelle scuole non la ripetizione di esperimenti scientifici vecchi di secoli (ad esempio, in fisica, la caduta dei gravi, fenomeni elettrostatici, ecc.) bensì la partecipazione diretta di studenti di ogni livello (dalle elementari in su) ad attività di ricerca di frontiera. Un paio di esempi.


1. IL PROGETTO GALAXY ZOO

L’obiettivo attuale di questo progetto è la classificazione di centinaia di migliaia di immagini di galassie ottenute dal telescopio spaziale Hubble. L’opportunità educativa è legata all’utilità della classificazione di tali immagini rispetto a criteri intuitivi come la forma della galassia (ellittica, tondeggiante, a spirale…), il colore visibile, la presenza o meno di una struttura frastagliata ecc. Questo tipo di classificazione, che un bambino di dieci anni può effettuare più rapidamente ed efficacemente di un computer, è utile dal punto di vista della ricerca perché la forma e il colore di una galassia sono correlati col suo meccanismo di formazione ed evoluzione. A oggi, oltre 250.000 persone hanno partecipato al progetto Galaxy Zoo e il loro contributo è stato essenziale per ottenere risultati scientifici che sono stati pubblicati in prestigiose riviste internazionali.


2. IL PROGETTO DOCKING@HOME

Questo progetto non utilizza direttamente la capacità di analisi dei participanti bensì le loro risorse informatiche. Ognuno di noi possiede un computer la cui potenza di calcolo è largamente sottoutilizzata, soprattutto quando ci si limita all’uso di programmi come word processors o simili. Installando nel proprio computer (o nel computer della scuola) un software specifico gratuito, nei periodi in cui il computer è sottoutilizzato dall’utente la macchina esegue sofisticati calcoli di dinamica molecolare, di grande importanza per la ricerca di nuovi farmaci (per esempio per la cura dell’AIDS). Simulando al computer l’interazione a livello molecolare fra potenziali nuovi farmaci e proteine (docking), è possibile avere una prima valutazione dell’efficacia delle diverse molecole e quindi selezionare le più promettenti per passare alle fasi successive di sperimentazione. La partecipazione di decine di migliaia di persone (o meglio di computers) al progetto permette ai ricercatori di testare rapidamente un grande numero di potenziali nuovi farmaci, accelerando quindi l’identificazione di un farmaco efficace.


I due esempi descritti sopra sono progetti di tipo “Citizen Science”, nei quali volontari (o gruppi di volontari), spesso privi di conoscenze scientifiche avanzate, hanno l’opportunità di effettuare attività rilevanti nell’ambito di un progetto di ricerca scientifica. Dal punto di vista educativo, la partecipazione di una scolaresca ad una “vera” ricerca scientifica, coronata da pubblicazioni su “vere” riviste scientifiche, permette di creare un alto livello di interesse per la materia e per la scienza in generale. Vale la pena notare che la partecipazione a tali iniziative non richiede alcun investimento finanziario da parte della scuola.


CROWDSOURCING E CROWDFUNDING

Ulteriori opportunità di stimolo alla creatività e all’imprenditorialità scaturiscono dalle piattaforme di Crowdsourcing e di Crowdfunding. Nel primo caso si fa appello alla comunità del Web per la ricerca di soluzioni a problemi incontrati dalle aziende nello sviluppo di nuovi prodotti e servizi, in cambio di un compenso pecuniario commisurato all’importanza del progetto. Non tutti i problemi richiedono competenze tecnico/scientifiche avanzate; in alcuni casi – quelli più interessanti dal punto di vista pedagogico – è sufficiente un’idea originale per trovare il bandolo della matassa!

Nel caso del Crowdfunding, si fa appello alla comunità per finanziare microprogetti innovativi, spesso generati da aspiranti imprenditori molto giovani. Chiedendo pochi dollari a decine di migliaia di persone è possibile trasformare buone idee in piccoli progetti industriali.


Risorse:
• Galaxy Zoo: http://www.galaxyzoo.org/
• Docking@Home: http://docking.cis.udel.edu/
• Crowdsourcing (esempio): https://www.innocentive.com/
• Crowdfunding: http://www.kickstarter.com/


ENGLISH ABSTRACT: Web 2.0 yields unprecedented educational opportunities by enabling the direct participation of students and ordinary people in high profile scientific projects (“Citizen Science”) and other activities with high societal impact proposed by Crowdsourcing and Crowdfunding platforms.

Per approfondire:
Innovatics.ch
• Guarda l’intervista a Claudio Parrinello

Quando l'amico è un tesoro la rete realizza i tuoi progetti

[La Repubblica 28/05/2011] C'ERA una volta chi aveva una grande idea, il sogno di una vita, un progetto su cui avrebbe scommesso anche la mamma, ma nessun mezzo a disposizione per realizzarlo. Oggi c'è Internet e ci sono i social network. E una cosa che si chiama crowdfunding, ovvero finanziamento dal basso, di massa, che punta sull'enorme potenziale di amici e contatti in rete e sfrutta Internet come bacino per la raccolta di fondi. Idea amatoriale? Mica tanto: col crowdfunding il Louvre ha comprato un quadro di Cranach, Le Tre Grazie 1: a forza di singoli contributi, da un minimo di un euro a donazioni ben più consistenti, il museo parigino è riuscito a mettere insieme in un mese un milione di euro, la cifra che mancava per poter aggiungere alla sua collezione la preziosa tela. Tous mécènes, tutti mecenati: questo il nome della campagna che ha permesso di raggiungere l'obiettivo grazie alla massa critica della rete e che distilla perfettamente l'essenza del fenomeno. Con le microdonazioni, poi, Barack Obama, molto attento al web 2.0, su internet ha raccolto 500 milioni di dollari per la sua campagna elettorale, un caso che ha fatto scuola.

L'idea del crowdfunding è semplice: l'unione fa la forza e il mezzo è la rete. Si propone un progetto e chi lo trova interessante può sostenerlo ovunque si trovi, dando un contributo. Donazione dopo donazione, clic dopo clic, si contribuisce a realizzare il budget richiesto per dare vita all'idea. Se lo si raggiunge, nel tempo che ci si è prefissato, si incassano i fondi e, via, si parte.

I big all'estero. Kickstarter 2, la "più grande piattaforma per promuovere progetti creativi nel mondo", come si presenta, da New York, è stato il precursore, scommettendo sul fatto che una buona idea, se presentata nel modo giusto, viaggia veloce. E che un gruppo allargato di persone può diventare una strepitosa miniera di fondi ed incoraggiamento. Su Kickstarter, ad esempio, ha visto la luce Diaspora 3, social network open source, che fa della difesa della privacy la propria bandiera. Una sorta di anti-Facebook che sulla piattaforma ha raccolto 200mila dollari, ben oltre i 10mila richiesti per la partenza.

All'estero il canale è ben testato e ha dato risultati a diverse cifre, soprattutto in ambito artistico e creativo. Colossi come Indiegogo 4 o la vetrina francese di Ulele 5, coinvolgendo la comunità del web, sono riusciti a presentare migliaia di progetti, bizzarri o meno: dall'idea di ripristinare la connessione internet a Misurata, in Libia, al lancio del primo cd per l'esordiente Melissa Simonson. Altri siti vanno più sullo specifico: Spot us 6- che ha anche un equivalente italiano 7 - ad esempio è una start-up che fa incontrare freelance e lettori, che possono decidere di finanziare inchieste o reportage specifici, ricevendo poi aggiornamenti sullo stato di avanzamento del progetto. O emphas.is, 8 per il crowdfunding applicato al fotogiornalismo, mentre Sellaband 9 cerca finanziamenti esclusivamente per promuovere la musica.

Il crowdfunding si è rivelato prezioso anche nel sociale e per la gestione di emergenze: basta pensare a Causes 10, una applicazione su Facebook che permette di far cassa per diverse campagne - e una delle ultime è stata quella per il terremoto in Giappone - che, dal 2004 ha finanziato 300mila progetti, raccogliendo 16 milioni di dollari.

Il panorama italiano. E in Italia? Qualcosa si muove ma l'idea fatica a decollare, un po' per diffidenza, un po' per la difficoltà a far capire esattamente di cosa si tratta. Uno dei primi siti è stato YouCapital 11 - legato all'associazione no profit Pulitzer - pensato per giornalisti, freelance o blogger che hanno un'inchiesta da realizzare e cercano fondi, che oggi ha oltre 21mila sottoscrittori. Eppela 12, piattaforma di crowdfunding made in Italy, è l'ultimo arrivo, nata da poche settimane per finanziare dal basso idee e progetti, come costola dell'agenzia di comunicazione anteprimaADV. Si rivolge a talenti europei, appassionati o professionisti, privati o istituzioni, dando loro una vetrina dove poter presentare le proprie idee, divise in categorie: Public e no profit, art e entertainment, Life e technology.

"E' un progetto aperto e indipendente", ci tiene a spiegare Nicola Lencioni, amministratore delegato, "cui tutti possono partecipare". L'importante è che l'idea sia buona. "Eppela è pensata come uno spazio a 360 gradi, dove si possono avere informazioni ed interagire su diversi livelli, in un'ottica di acquisto e non di charity". Cioè? Si donano, ad esempio, due euro per un progetto in ambito musicale ma in cambio si ha qualcosa di esclusivo, che può andare da un incontro con l'artista che si sceglie di sostenere, al cd autografato che si ha contribuito a far realizzare. Chi dona riceve cioè un plus personalizzato. "Ci sono tantissimi progetti che potrebbero diventare fiori all'occhiello, ma rischiano di non vedere mai la luce se non si hanno le possibilità o gli agganci giusti. Perché i canali tradizionali di finanziamento preferiscono investire sul sicuro e non correre rischi. Eppela vuole dare a loro una chance", dice ancora Lencioni, "che si tratti di singoli o istituzioni", sfruttando le potenzialità della rete e la sua capacità di aggregazione.

Come funziona. Il modello che segue Eppela è quello di Kickstarter: dopo aver superato uno screening di qualità e specifiche di eticità, il progetto può essere presentato sulla piattaforma. Si fissa un budget minimo da raggiungere entro una precisa scadenza e una serie di "ricompense" di crescente importanza a secondo dell'importo donato. Si cerca poi di pubblicizzare il più possibile fra amici e contatti l'idea. Se il budget si raggiunge, la raccolta fondi può continuare, senza limiti, fino alla scadenza prevista. In quella data, all'autore si verrà versata l'intera somma realizzata e il 5 per cento andrà a Eppela. Se il budget non si raggiunge, il progetto viene chiuso e nessuno ci rimette o guadagna nulla.

Un canale ormai rodato all'estero. In Italia però ci si scontra ancora con il pregiudizio legato all'online e alla sicurezza. "Siamo ancora indietro rispetto agli altri", ammette Lencioni, eppure 7 persone su 10 hanno una connessione internet e siamo i secondi in Europa per uso di social network". Il primo progetto di Eppela è Eppela stesso: budget fissato 12mila euro, deadline a 30 giorni. "E' una pura provocazione, per metterci in discussione", dice Lencioni. A una settimana dalla scadenza, rimane da coprire circa un terzo del del budget prefissato.

Parola chiave: trasparenza. Il segreto del successo sta tutto nella trasparenza, per Creative Swarm 13, piattaforma open source creata da un team di italiani per far incontrare progetti creativi con potenziali supporter. "Cerchiamo di differenziarci in diversi modi", racconta Sebastiano Amato, ingegnere, informatico e presidente e cofondatore di Creative Swarm, ora in fase di ridefinizione. "Vogliamo essere completamente cristallini", spiega, "e per questo ci siamo costituiti come associazione no profit. E ci sembra importante tutelare le idee messe on line, certificandone la data di immissione, per mettere al riparo gli autori da eventuali plagi, cosa che purtroppo, a volte, succede", spiega. Su Creative Swarm, sciame creativo, i progetti vengono valutati in base al gradimento del pubblico, al valore dell'idea stessa e in base ad un rating anche etico sulle informazioni che l'autore da di sé stesso. Per i tempi di raccolta dei fondi "non c'è una slot fissa", dice Amato, ma in funzione del rating del progetto e della cifra che si vuole raggiungere, si decide un tempo massimo. E non è detto che il contributo debba essere strettamente finanziario: "sulla piattaforma un progetto si potrà sostenere anche in altro modo, come un libero professionista che decide di aiutare una start-up mettendosi a disposizione gratuitamente come consulente, o un'azienda che decide di concedere uno spazio fisico per un progetto in fase di nascita", chiarisce Amato, che conta di essere pienamente operativo con la piattaforma il prossimo anno.

Amici e contatti? Un capitale. "With a little help from my friend", cantava Joe Cocker. E gli amici in genere sono bendisposti a dare una mano anche mettendo mano al portafogli, ma si devono fidare. Capire dove va esattamente il loro contributo, essere informati dei progressi, sentirsi coinvolti. Ne è convinto Alberto Falossi, consulente informatico e professore all'università di Pisa, dove insegna come sfruttare l'informatica in azienda e nel business. E' lui la mente dietro Kapipal 14, sito italiano di crowdfunding - anche se tutto in inglese - partito nel 2009 il cui mantra è i "tuoi amici sono il tuo tesoro". Sono loro che ti fanno realizzare i tuoi sogni, si legge nel manifesto sul sito. Che continua così: il tuo capitale dipende dal numero di amici, e dalla fiducia e in ultimo cresce a forza di passaparola.

Quello della fiducia è un aspetto chiave, dice Falossi, ricordando che almeno la metà dei progetti in cerca di crowdfunding non trova contributi, sia su Kapipal come sul gigante Kickstarter, perché gli utenti non donano agli sconosciuti oppure perché la comunicazione non ha funzionato.

Kapipal - un gioco di parole su capital e pal, amico - a differenza degli altri punta soprattutto su progetti personali. A colpi di mouse si può donare, attraverso Paypal, per la causa che si trova più degna, accattivante, originale o semplicemente simpatica. Si può scegliere, ad esempio, di sostenere Katie Bradley, una ragazza di 14 anni inglese con tanto di occhioni blu imploranti, che vuole andare ai campionati mondiali junior di taekwondo in Gran Bretagna, ma ha bisogno di tirare su 250 sterline. Aiutare una scuola del Perù che deve comprare una lavagna o dare una mano ad Ayana a comprare il regalo di compleanno ideale per il suo Curtis, qualcosa di davvero speciale ma un po' fuori budget per lei.

"Finora abbiamo raccolto circa 280mila dollari, ma il grosso del traffico viene da fuori, dalle Americhe soprattutto", dice Falossi. "In Italia la percentuale è ancora modesta, anche se qualcosa sta cambiando". Scontiamo un problema culturale, di diffidenza verso carte di credito e pagamenti on line. "Ma se si riescono a coinvolgere amici e familiari, allora va decisamente meglio. Per questo preferisco i progetti piccoli, dalla lista di nozze al cellulare nuovo", racconta.

Il papà di Kapipal crede in questa forma di mecenatismo moderno digitale e scommette che prima o poi crescerà anche da noi. "Il potenziale è enorme" dice, "è la potenza della folla". Non sarà la soluzione a tutti i problemi, anche in tempi di crisi, ma "se nel tuo piccolo hai già investito fra i tuoi amici, qualcosa ti ritorna, anche in termini economici", conclude. E' il capipalismo, stupido.
Alessia Manfredi

Tim Berners-Lee contro Twitter: è troppo estremo

[webnews 28/05/2011]

Durante la conferenza londinese Profiting From The New Web svoltasi lunedì presso la Royal Society, il padre fondatore del Word Wide Web, Tim Berners-Lee, ha criticato il social network Twitter definendolo troppo estremo. Secondo Berners-Lee, il problema principale del social network risiede nella politica comunicativa che, non dando la possibilità agli utenti di digitare periodi più lunghi di 140 caratteri, rende le discussioni poco argomentative e scoraggia discussioni ragionate. Inoltre alcuni fruitori, sempre per la mancanza di spazio, tendono ad assumere punti di vista fortemente radicali e non cercano l’argomentazione. Secondo quello che è da considerarsi l’inventore del Web, ci vorrebbe piuttosto uno strumento comunicativo più sofisticato, anche perché l’attuale limitazione potrebbe mettere in seria discussione il futuro dell’idea.

Berners-Lee è inoltre preoccupato per la politica del social network, che permette ai suoi utenti di dire tutto ciò che pensano, a prescindere dalla legalità. Una critica è rivolta anche al funzionamento a “sistema chiuso” di Twitter, che impedisce agli utenti di comunicare con i membri di altri social network. Lo scorso anno Berners-Lee aveva peraltro espresso il suo dissenso, per lo stesso motivo, anche nei confronti di Facebook e Linkedln.

Il genio britannico ha infine dichiarato che gli sviluppatori di software dovrebbero cercare di progettare applicazioni che funzionino su tutta la Rete, inclusi i telefoni cellulari, piuttosto che sviluppare applicazioni per piattaforme specifiche controllate da singoli produttori come iOS di Apple o Android di Google. Quello che vuole il mentore del Web è semplicemente un WWW meno vincolato e più incentrato sulla libertà dell’utente. Più apertura e maggiori opportunità di espressione, insomma, invece di ambiti chiusi e limiti comunicativi.

Connessi col mondo isolati in famiglia

[Corriere della Sera 26/05/2011] Un salotto. un sofà. una famiglia. La tv rigorosamente off, 4 monitor (pardon: tablet) accesi. È la fotografia delle nuove famiglie contemporanee che trascorrono il dopo cena, più o meno fino alla mezzanotte, sempre più “connesse” fuori casa, ma del tutto “disconnesse” al loro interno. I nuovi nuclei individuali dell’era 3.0, visto che il web 2.0 sembra già preistoria, non hanno più nulla a che vedere con il vecchio focolare domestico, dove ci si rifugiava dopo una giornata piena di tensioni sul lavoro o di brutti voti presi a scuola. Sono passati i tempi in cui la sera si stava insieme e si commentavano le notizie dei tg, tenendo magari compagnia alla nonna sulla sedia a dondolo, tra una telefonata di un parente lontano e le discussioni in casa su chi dovesse lavare i piatti o sparecchiare. Il giorno dopo ci si svegliava quasi certamente con una marcia in più. Oggi tutto questo è out. Ognuno ha il proprio device. Si sta tutti e 4 insieme sul sofà, ma si è emotivamente soli. Nella stessa stanza, ma in mondi obliqui e paralleli. Ognuno perso nel cyberspazio del proprio laptop. Liquido e sfuggente, come direbbe il filosofo polacco Zygmunt Bauman. Secondo il New York Times, nell’era del wifi la famiglia 3.0 si delinea sempre più drammaticamente così: il figlio di 8 anni spaparanzato in poltrona incollato a giocare, con la tavoletta tascabile sulle ginocchia, a Mario Kart wii; accanto la sorella, poco più grande, che consulta in modo convulso love calculator, per calcolare la corrispondenza amorosa, sul touchscreen dell’iPhone rosa, rivestito di brillantini. Nell’angolo, il padre attento a scommettere su giochi e partite on line su quello che fino a qualche anno fa era il pc di casa, mentre la madre chatta su Facebook con le amiche d’infanzia, scambiandosi ricette e commentando con il pollice all’insù del “mi piace” foto e siti improbabili. Un tempo si dialogava e si era presenti nella sfera dell’altro e dei figli. Oggi la distanza si è accentuata. Si vive in mondi talmente distanti tra loro, che hanno smesso di relazionarsi, mandando la società in tilt.

La comunicazione multiscreen cambia la nostra sfera domestica, tagliano corto i sociologi. La cultura digitale rivoluziona il nostro agire quotidiano. Il marito preferisce comunicare con la moglie seduta a un metro di distanza con una mail. Lei replica felice e soddisfatta, indaffarata a stare dietro a tutte le schermate aperte, come quelle della lista della spesa open (sostituisce la vecchia lavagnetta con il pennarello) che ogni familiare può consultare in tempo reale, aggiungendo quello di cui ha bisogno: dal bagno schiuma per la palestra, al latte, al quaderno a righe, fino alle sigarette per il papà. E mentre con la mano destra si chatta, con la sinistra si riesce anche a consultare il BlackBerry ogni 5 minuti. Non si sa mai. Il cugino lontano sta per prender parte ad un nuovo flash mob all’Università, mentre il figlio potrebbe aver aggiunto un nuovo post sul suo blog.

Un popolo di scimmie, ci ha definito il Premio Nobel per la letteratura, Mario Vargas Llosa: «internet ha messo in soffitta la grammatica, l’ha liquidata, per cui si vive in una specie di barbarie sintattica. Se scrivi in quel modo è perché parli in quel modo. Se parli così è perché pensi così, e se pensi così è perché pensi come una scimmia». Come dire, più ci si evolve in questa visione post-orwelliana e più la nostra mente regredisce all’età della pietra. Sarà poi così? In fondo i personal media in questi ultimi mesi hanno permesso anche battaglie democratiche importanti. È possibile che non ci sia proprio nulla da salvare? Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università La Sapienza di Roma «la connessione non deve essere un pretesto per isolarsi. Quando in famiglia non si va d’accordo, la tavoletta diventa una scusa per non affrontare la realtà. L’ideale sarebbe avere una sola tecnologia con tutti i parenti intorno, con mamma e papà che insegnano ai figli come usarla, aggiornando in primo luogo se stessi». In una società convergente come questa, il ruolo e la responsabilità dei genitori sono aumentati rispetto al passato, quando l’ambiente esterno condivideva i valori e li sosteneva nelle loro scelte educative. Oggi c’è bisogno di una guida. Alla base di questi nuovi modelli cognitivi, c’è una collettività di interessi che cresce a dismisura ogni giorno. Le persone si “autoconfigurano” continuamente, nonostante siano soggette a stress tecnologico, senza esser più in grado di dire dei sani no. Per Roberto Grandi - professore di Sociologia dei Processi Culturali all’Università di Bologna - «i rapporti interpersonali sono in concorrenza con quelli virtuali, ma lo spazio virtuale non sostituisce gli spazi fisici».

Concorda l’esperto di tecnologia Carlo Infante: «Una tecnologia è desiderabile perché rimbalza indietro come una palla. Tutti i sistemi touchscreen inducono una corrispondenza, un elemento di contagio che ha a che vedere con il nostro desiderio». Ma le tecnologie alla fine non sono altro che elettrodomestici. E se ce l’ha fatta Bin Laden a vivere cosi tanto a lungo senza wireless, perché non dovremmo farcela noi alle prese dopo tutto con un tran tran di vita quotidiana, lo stesso da decenni? Ai tablet, per fortuna, c’è ancora chi continua a preferire le scene di vita domestica, come quelle dipinte da Vermeer.

Barbara Millucci

giovedì 26 maggio 2011

Cinguetta e naviga. La politica scopre il web

[Terra 26/05/2011]

«Parte da noi», recita il claim della campagna di Obama per le presidenziali 2012. Di sicuro effetto perché parla alle persone, potenziali diffusori nel bene e nel male – ed a volte inconsapevoli – delle idee del candidato grazie ai social. La comunicazione politica sul web è nata, di fatto, con le elezioni americane del 2008. Barack Obama è divenuto presidente degli Stati Uniti per merito (anche) di un personal branding costruito attraverso i principali social network. In Italia non esiste uno staff di 100 persone (come quello di Obama) addette esclusivamente a condurre una campagna tramite social, però i politici di casa nostra, soprattutto in queste ultime elezioni – non ancora concluse – ha scoperto il web 2.0. La pagina Facebook di Nichi Vendola, aggiornata al 20 maggio, conta 448.615 fan. Dal 13 al 20 maggio, il candidato a sindaco di Milano, Giuliano Pisapia ha avuto un incremento su Facebook di 1915 fan al giorno, più o meno uno ogni 45 secondi, seguito – com’è immaginabile – da Luigi De Magistris con 1526 fan al giorno per un totale di incremento di 10684, dato aggiornato al 20 maggio (baroncelli.eu/politici_italiani/ ). Il movimento a 5 stelle è più evoluto in rete perché da lì trae la sua forza, solo la pagina di Mattia Calice su Facebook – candidato 20enne per Milano - raccoglie oltre 6000 fans.

Secondo l’osservatorio Vox Politica (facebook.com/VoxPolitica), sulle attività di comunicazione on line dei candidati alle Amministrative 2011, la presenza sul web dei politici rispetto alla tornata elettorale del 2009 è cresciuta: l’88% dei candidati tiene d’occhio i social network con un incremento di 21 punti percentuali rispetto alla rilevazione 2009. Il 79% dei candidati di centro-sinistra a tutt’oggi usa Facebook contro il 75% dei candidati di centro-destra. Geograficamente parlando, poi, il sud – presumibilmente indietro, e ad errore, rispetto al resto d’Italia – ha fatto registrare un ben 71% di presenza on line dei suoi candidati, arrivando ad essere più “diligentemente social” rispetto ai colleghi del nord. Anche Twitter, il social più “sconosciuto” nel 2009 (solo 2%) si è diffuso nell’ultimo anno: un candidato (e mezzo) su cinque cinguetta, soprattutto se è di centro-sinistra (29%), mentre solo il 17% è di centro-destra. Non bastano però i numeri a definire un fenomeno né, tanto meno, a dare la “cifra” reale della partecipazione dei politici ai social. Molti di loro (quelli eletti alla carica di sindaco), sempre secondo Vox Politica, non hanno più aggiornato le loro pagine Facebook dal giorno delle elezioni, interrompendo così il presunto dialogo con i cittadini/elettori.

In realtà, però, ed è questo il dato più interessante, gli account dei politici stanno subendo un vero e proprio assalto da parte degli altri utenti. In altre parole, i candidati possono comodamente astenersi dal pubblicare post perché ci pensano gli altri contatti, anche quelli non “amici”. In questo senso, dilagano in queste ore – soprattutto su Twitter – le “quotes”, ovvero le citazioni, il più delle volte fakes, inventate dagli utenti ma ispirate da una dichiarazione vera, di alcuni candidati a danno di altri. Indimenticabili quelle di Letizia Moratti contro Giuliano Pisapia, il quale ne guadagna abbondantemente: Pisapia attacca le gomme da masticare sotto i banchi, sedie e sedili dei mezzi pubblici! O ancora: Pisapia, diventato nuovo capo di Al Qaeda, vuole fare di Milano la base del terrorismo islamico. La comunicazione sui social la stanno facendo realmente gli utenti/cittadini/elettori: in altre parole la campagna la stanno costruendo loro, con i rischi che tutto ciò può comportare per un candidato.

Chiara Organtini

Facebook anche per gli under 13? Zuckerberg smentisce

[Corriere della Sera 26/05/2011] Non è piaciuto a nessuno l’annuncio di Mark Zuckerberg che lotterà per eliminare il limite di età di 13 anni imposto per l’utilizzo di Facebook, perché convinto dei vantaggi educativi del social network da lui fondato. Dev'essere per questo che, dopo la divulgazione di questa sua intenzione su giornali e siti, il fondatore di Fb ha scelto di precisare meglio il suo pensiero, durante l'eG-8 di Parigi: «Non è in cima alle nostre priorità. In futuro potrebbe aver senso esplorare questa possibilità, ma non stiamo lavorando su questo».

LA FRASE - «La mia filosofia è che per istruire i ragazzi bisogna cominciare quando questi sono ancora molto giovani – aveva detto il 27enne miliardario in occasione del summit sull’innovazione nelle scuole a Newark, in New Jersey – ma a causa del divieto non abbiamo ancora iniziato questo processo di apprendimento e solo eliminandolo potremmo vedere se funziona davvero».

LE REGOLA - Oggi Facebook, che conta oltre 600 milioni di utilizzatori in tutto il mondo, vieterebbe l’iscrizione agli under 13, ma in realtà tale regola viene spesso aggirata, come ha confermato una recente indagine inglese, nella quale è emerso che un bambino su cinque fra i 9 e 12 anni ha il suo profilo regolarmente registrato su Facebook mentre, allargando il discorso al resto del pianeta, sono risultati essere oltre 7 milioni gli under 13 che hanno la loro pagina sul sito. Non a caso, sono stati numerosi in passato gli episodi che hanno coinvolto dei minori, vittime di bullismo o di pedofili incontrati online, e che hanno sollevato dubbi sulla sicurezza del social network. E proprio i tasti del cyber-bullismo e della pedofilia online sono stati quelli toccati da Claude Knights, direttore della charity Kidscape, per rigettare la proposta di Zuckerberg che, comunque, non è nuovo ad uscite perlomeno discutibili, visto che poco tempo fa arrivò a sostenere che le preoccupazioni per la privacy online erano state gonfiate a dismisura.



CONTRARI - E la balzana idea del fondatore di Facebook di eliminare il divieto dell’età non è piaciuta nemmeno alla famiglia della 17enne Ashleigh Hall di Darlington, che venne uccisa da Peter Chapman, che aveva conosciuto proprio sul social network, dove questi si era spacciato per un ragazzino. «Vogliono che accada un’altra tragedia come la nostra prima di fare qualcosa? - ha tuonato il nonno della ragazzina, Mike Hall, sul londinese Daily Mail. – È veramente scandaloso. Se questa gente avesse passato quello che abbiamo passato noi, capirebbe cosa significa. Dicono di avere tutte le impostazioni di sicurezza, ma permettere agli under 13 di andare sul sito è una cosa assolutamente ridicola». La regola degli under 13 è stata imposta dal Children’s Online Privacy Protection Act (Coppa), diventato legge federale negli Usa nel 1998, anche se ora vi è in atto una revisione. «Mi sentirei davvero a disagio se venisse eliminato il divieto agli under 13 - ha spiegato al Daily Telegraph la conservatrice Claire Perry – e credo che sia molto, molto irresponsabile da parte di Facebook anche il solo suggerirlo».

Simona Marchetti

mercoledì 25 maggio 2011

Più di 7 insegnanti su 10 usano le nuove tecnologie

[La Stampa 23/05/2011] Didattica digitale e i suoi potenziali sviluppi: un argomento in rapida evoluzione, su cui si continua a dibattere e su cui si gioca il futuro della scuola.
Ma chi l’avrebbe mai detto che già il 73,7% dei docenti adottasse le nuove tecnologie nelle proprie lezioni?

Pochi, forse nessuno, ma invece è proprio così. Lo testimonia una ricerca sull’e-learning compiuta da Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) e realizzata in collaborazione con il ministero dell’Istruzione, che mette in evidenza anche come il 70% dei giovani impari ad usare le ICT (Information and Communication technology) da solo, al di fuori delle aule scolastiche. Un dato che stavolta non sorprende.

L’indagine Isfol-Miur sottolinea un altro aspetto importante: l’integrazione dei metodi didattici è stata scelta dal 61,9% dei docenti intervistati. Secondo loro, i vantaggi delle nuove tecnologie per lo svolgimento del lavoro didattico riguardano la progettazione didattica (38,3%), il risparmio di tempo e lavoro (35,6%), una maggiore efficacia della comunicazione didattica (28,8%), le opportunità di personalizzare i percorsi di studio (29,7%).

La conseguenza è un miglioramento nell’apprendimento, in quanto i nuovi strumenti digitali permettono di attirare con maggiore facilità l’attenzione dei ragazzi e di integrare con successo i tradizionali metodi di formazione. A sostenerlo, rispettivamente, sono il 30,2 e il 22% % degli insegnanti.

Per concludere, vale la pena evidenziare qualche altro dato inaspettato: più dei due terzi dei docenti adotta una modalità d’uso complessa delle nuove tecnologie mirata a produrre ed erogare il materiale didattico in modo integrato, circa un terzo produce tramite le ICT oggetti multimediali a forte valenza interattiva e una percentuale poco superiore condivide e scambia in rete unità formative con altri colleghi.
Alla faccia di chi pensava che tecnologia e corpo docente avessero poco da spartire!

Deboli e pigri: ecco i bambini cresciuti con il pc

[La Stampa 25/04/2011] L'allarme inglese sulle nuove generazioni.
"Non sanno più usare il proprio corpo"
Quando il professor Gavin Sandercock, dell’Università dell’Essex, ha chiesto al piccolo Richard Maloy di attaccarsi alla sbarra per vedere quanti secondi riusciva a stare appeso, quello, nove anni, lo ha guardato rabbioso, gli ha mollato un calcio ed è scappato via. «Manco morto».

Sandercock lo ha salutato con un sorriso sbilenco e si è massaggiato la caviglia come se nulla fosse, poi ha preso la sua cartella d’appunti e l’ha aggiornata a penna: «Su trecento ragazzini testati trenta non sono stati in grado di reggere il proprio peso. E trenta se la sono dati a gambe infuriati». Trenta su trecento. Più trenta fuggitivi bizzosi. Il triplo di quelli che avevano mollato in un esperimento analogo fatto nel 1998. «Che succede alle nuove generazioni?». Senza nascondere l’ovvia retorica implicita nella domanda, il Professore, leader di un gruppo di scienziati inglesi che ha pubblicato lo studio sulla rivista medica «Acta Paediatrica», si è dato in fretta una risposta. «Semplice. Sono più deboli. Hanno meno muscoli, meno volontà e più grasso addosso. Non è un’ipotesi. E’ un fatto». E si è sorpreso di averlo detto ad alta voce. Ma è certo quello che ha pensato per tutto il tempo della ricerca: la teoria dell’involuzione.

Li chiamano i bambini-divano, under dieci smidollati e ipotonici, cresciuti con i videogiochi e con Facebook, ipnotizzati dalla televisione, sequestrati dai computer, abituati a pensare in 3D ma incapaci di arrampicarsi su un albero e terrorizzati dall’idea di compiere esercizi fisici che alla fine dello scorso millennio i loro coetanei avrebbero fatto senza battere ciglio. Reggersi a una fune o afferrare un pallone al volo. «Beh, tutto qui?».

I numeri emersi dal confronto di due gruppi di oltre 300 ragazzi studiati a dieci anni di distanza sono imbarazzanti. La capacità di restare seduti in posizione eretta dei bambini nati nel Duemila è calata del 27%, la forza nelle loro braccia del 26% e la capacità di afferrare un oggetto del 7%. «Non fanno più quelle attività comuni che si facevano fino a pochi anni fa. Semplice esercizio fisico che consentiva a chiunque di alzare e sostenere il proprio peso corporeo. Per i bambini di dieci anni di oggi è un’impresa titanica». E’ il caso di Matthew Bryanson. Quando è crollato come un pupazzo dopo essere rimasto appeso sette secondi ad una sbarra a due metri da terra si è messo a piangere disperato. «Gli ci è voluto un minuto per rialzarsi in piedi. Non aveva mai fatto uno sforzo in vita sua». Sembrava esausto, come se fosse stato inseguito da un coguaro. Inutile dire che i test di corsa sono andati allo stesso modo. «Abbiamo valutato la loro velocità su una distanza di 20 metri. Il 95% è andato più piano dei coetanei di dieci anni fa». Un disastro.

Eppure, per evitare che il problema della forma fisica fosse confuso con quello dell’obesità, i ricercatori dell’Essex erano andati a scegliere le loro piccole cavie a Chelmsford, una delle cittadine più ricche del Regno Unito, quella con la media di scolari sovrappeso più bassa del Paese. Li hanno misurati e messi sulla bilancia e si sono accorti che l’indice di massa corporea era uguale a quello dei coetanei di fine secolo. «Sembrava un buon punto di partenza. In verità dopo i test abbiamo capito che era un altro segnale inquietante. Perché se la massa corporea è identica e i muscoli sono diminuiti, significa che è aumentato il grasso». Preoccupato, Sandercock ha preso i dati e li ha consegnati al ministero dell’educazione. «Non sarebbe il caso di pensare alla forma dei giovani nelle scuole?». «Prima dobbiamo ridurre il numero degli obesi», hanno risposto, senza rendersi conto di avere appena ricevuto il ritratto di una generazione destinata a squagliarsi come chi scivola su un fiume di lava con un canotto. Grassi, pigri, sfatti, ma perfetti per un mondo virtuale.
Andrea Malaguti

Social Network: Libboo, perchè leggere e scrivere non passa mai di moda

[trackback 25/05/2011] Beato il mondo dei Social Network, sempre pronto a stupire ogni giorno di più, oggi con Libboo, una nuova piattaforma creata per chi ha voglia scrivere romanzi, storie o racconti, ma anche per chi ha solo voglia di leggere, sperimentare e interagire con autori e il mondo della letteratura. Libboo è tuttavia un grande esperimento di scrittura partecipativa online che ha lo scopo di creare un libro scritto a più mani. Che molte “sfaccettature” del mondo siano sempre più 2.0 è certezza da tempo, con Libboo si apre un nuovo capitolo tra editoria digitale e social network.
Quando si produce un qualsiasi contenuto in rete il “problema” è sempre quello dell’attribuzione dei contenuti, in questo senso Libboo esprime il primo dei suoi punti di forza, il sistema automatico per assegnare i diritti, dallo sharing al creative commons, anche il copyright. Tante e svariate le modalità di attribuzione che stanno già attirando scrittori da mezzo mondo.

Particolare sezione del sito è quella dedicata al progettoFlight of the Burning Stallion“, uno dei libri scritti dagli utenti, che hanno carta bianca sull’inserimento di nuovi capitoli, modifiche alla storia e personaggi; L’idea è quella di rendere ogni modifica un potnziale trampolino di lancio per un nuovo racconto nel racconto o racconto a se stante.

L’idea di Libboo arriva direttamente dal MIT e dal ricercatore Christopher Kevin Howard che insieme allo scrittore Richard Wiseman hnno voluto creare quello che almeno inizialmente voleva essere uno strumento didattico. Magie della rete ecco un nuovo social network in tutto e per tutto nonchè un progetto di scrittura in “crowdsourcing“. Del futur non v’è certezza, scrisse un grande della letteratura, e mai come questa volta le parole suonano più attuali, intanto vi linkiamo il sito, sia che siate aspiranti scrittori o sicuri lettori, male di certo non fa.

Facebook: benvenuti bambini

[Punto informatico 23/05/2011] Roma - Il rapporto tra Facebook, privacy e tutela dei minori è sempre stato alquanto controverso. Dopo un recente studio di Consumer Reports dal quale emergeva che oltre la metà dei 20 milioni di minorenni statunitensi iscritti al social network avesse un'età inferiore ai 13 anni, ora Mark Zuckerberg confessa di voler creare un ambiente digitale sicuro e adeguato a chi non ha ancora raggiunto l'età stabilita per iscriversi al sito in blu.

"L'educazione è chiaramente l'elemento più importante che guiderà la crescita dell'economia nel lungo termine", ha detto Mr. Facebook nel corso di un'intervista.

Il settore dell'istruzione, dunque, sembra essere un bacino di affari al quale guardare. Ci sono pochi dubbi, infatti, che possa diventare sempre più social nei prossimi anni: "In futuro, il software e la tecnologia permetteranno alle persone di imparare molto dai propri colleghi studenti" sostiene Zuckerberg. Ad esempio, gli studenti potrebbero incontrarsi online per studiare, migliorando in questo modo le proprie performance scolastiche.
Cristina Sciannamblo
lunedì 23 maggio 2011

Facebook: benvenuti bambini

Mark Zuckerberg si dice intenzionato a modificare Facebook per accogliere i minori di 13 anni. Si guarda al settore dell'educazione come uno dei più promettenti per gli affari del social network. Ma la schiera degli antagonisti è folta

Roma - Il rapporto tra Facebook, privacy e tutela dei minori è sempre stato alquanto controverso. Dopo un recente studio di Consumer Reports dal quale emergeva che oltre la metà dei 20 milioni di minorenni statunitensi iscritti al social network avesse un'età inferiore ai 13 anni, ora Mark Zuckerberg confessa di voler creare un ambiente digitale sicuro e adeguato a chi non ha ancora raggiunto l'età stabilita per iscriversi al sito in blu.

"L'educazione è chiaramente l'elemento più importante che guiderà la crescita dell'economia nel lungo termine", ha detto Mr. Facebook nel corso di un'intervista.

Il settore dell'istruzione, dunque, sembra essere un bacino di affari al quale guardare. Ci sono pochi dubbi, infatti, che possa diventare sempre più social nei prossimi anni: "In futuro, il software e la tecnologia permetteranno alle persone di imparare molto dai propri colleghi studenti" sostiene Zuckerberg. Ad esempio, gli studenti potrebbero incontrarsi online per studiare, migliorando in questo modo le proprie performance scolastiche.Per questo motivo, il fondatore di Facebook vorrebbe permettere ai bambini di socializzare sul social netowork, volontà che, tuttavia, si scontra con il Children's Online Privacy Protection Act (COPPA), secondo il quale i siti web hanno l'obbligo di respingere le richieste di iscrizione da parte di individui che hanno meno di 13 anni.

Il cortocircuito sembra essere vicino. Da una parte infatti Bret Taylor, CFO di Facebook, rassicura i politici statunitensi sulla sicurezza del sistema di tutela della privacy e dei minori di 13 anni da parte del social network; dall'altra, il CEO della stessa azienda si proclama intenzionato a cambiare le leggi.

"Arrivati a un certo punto, comincerà la lotta", ammette il 27enne multimilionario proprietario di Facebook. "Se le restrizioni saranno eliminate - continua - inizieremo a studiare per come lavorare". Possiamo prendere molte precauzioni circa le sicurezza dei più piccoli".

I progetti di Palo Alto dovranno fare i conti con l'agguerrita opposizione delle associazioni in difesa dei consumatori, tra le quali Consumers Union, impegnata a richiedere la tutela anche per i minori maggiori di 13 anni presenti su Facebook.

Cristina Sciannamblo

lunedì 23 maggio 2011

Mark Zuckerberg: i minori di 13 anni dovrebbero usare Facebook

[Italiamagazine 21/05/2011]

L’età minima di Facebook non sembra funzionare come deterrente. 7.500.000 bambini si sono registrati a Facebook e hanno meno di 13 anni, e 5 milioni hanno meno di 11 anni. Così il Chief Executive Officer di Facebook ritiene che questa regola debba cambiare.

logo privacy facebookL’unione dei consumatori ha chiesto a Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, di fare di più per mantenere lontani da Facebook gli utenti minorenni dopo che un recente sondaggio ha mostrato che 7,5 milioni di bambini sotto i 13 anni aveva un account sul social network. I risultati del sondaggio sono chiari. Viene chiesto a Facebook di essere maggiormente diligente se 20 milioni di persone, di età inferiore ai 18 anni, usano il Social Network. “Chiediamo a Facebook di potenziare i suoi sforzi per identificare e chiudere gli account degli utenti minori di 13 anni di età (età minima per utilizzare Facebook), e anche per implementare metodi più efficaci di verifica dell’età quando ci si iscrive al Social Network”.

Come reagire ? Zuckerberg ha raccontato al vertice a Burlingame, in California all’inizio di questa settimana, che il miglioramento dell’istruzione e rendere Internet più aperto sono due dei suoi temi preferiti. Dice che il miglioramento dell’istruzione migliorerà l’economia e che il miglioramento del livello tecnologico permetterà alle persone di imparare molto dai loro compagni. Zuckerberg ha detto anche che vuole ammettere i più piccoli a social network come Facebook, ciò sebbene il Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) richieda ai siti web che raccolgono informazioni sugli utenti (come Facebook fa) di non autorizzare a firmare, a chiunque abbia meno di 13 anni. Ma Zuckerberg è determinato a cambiare questo atteggiamento.

Cosa ne pensate di questo atteggiamento? Siete d’accordo che i bambini dovrebbero iniziare a conoscere i social network (come Facebook), e Internet in giovane età ? Noi siamo di questa opinione. Purchè vengono attuate misure preventive identiche a quelle presentate qualche giorno fa da Eugene Kaspersky.

Bauman, «Noi ai tempi di Facebook»

[Ottopagine 21/05/2011] Avellino- Facebook come paradigma delle relazioni interpersonali nel mondo contemporaneo è questo il messaggio che ha voluto lasciare al pubblico avellinese Zigmunt Bauman. igmunt Bauman, uno degli intellettuali più noti del pianeta, ha rappresentato una memorabile ciliegina sulla torta all'ultima edizione de' 'Il borgo dei filosofi' e delle celebrazioni per il 150enario dell'unità d'Italia promosso dall'ente Teatro e dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Avellino. Un incontro che è atteso in Irpinia da oltre tre anni e che per via di una serie di sfortunatissime circostanze è stata rinviata in più occasioni. Questa voltala maledizione si è sfatata.

Il professor Aniello Montano, direttore del dipartimento di filosofia dell'università di Salerno, introducendo Bauman ha parlato di: “Un incontro di grandissima importanza, ci mette in contatto con una delle menti più lucide nell'analizzare la società contemporanea, uno dei grandi maestri del nostro tempo”.

Il grande merito del sociologo dell'Università di Leeds, secondo Montano è quello di: “Cercare di comprendere le motivazioni profonde della configurazione delle società, andando oltre un approccio descrittivo delle relazioni umane, ma, sorretto da forti categorie filosofiche, ha cercato di capire non solo come vanno le cose, ma perché vanno così. È filosofia quella di Bauman”.

Il professor Montano ha giustamente evidenziato che: “La categoria forte, in Bauman, è l'individuale. Egli ha saputo cogliere i cambiamenti del tipo di individui del nostro tempo, non più produttori, ma consumatori. Individui che nono costruiscono un futuro, ma che vivono i un perenne presente”.

Colpito dal calore della platea Avellinese. Bauman, ha premesso come come la filosofia italiana ha segnato la sua crescita. La lezione è stata incentrata sull'opposizione tra la categoria della segretezza (privacy) e vicinanza, due categorie che coesistono nella vita di ogni persona, assieme un'altra coppia quella dell'appartenenza e dell'autonomia, che si riconducono all'opposizione tra sicurezza e libertà. È quest'ultima coppia il nocciolo del discorso intavolato da Bauman, trattandosi di: “Un dualismo che è fondamentale la sicurezza senza libertà porta alla schiavitù, l'opposto, invece, ad un individualismo sfrenato”.

Ma come spiegare questa accoppiata di opposti? La risposta del pensatore è semplice, attraverso: “L'invenzione del 21esimo secolo sono i social-network. Soprattutto Facebook. Un successo clamoroso per numero di utenti e guadagni. Ogni iscritto trascorre, in media, quasi un ora al giorno. Il social-network, nasce da un'esigenza diffusa nella società. Mark Zuckerberg, proprietario di Facebook, diventato uno degli uomini di maggior successo degli ultimi anni, è stato bravo a far diventare questa domanda realtà”.

In fondo il successo di Facebook, ha spiegato: “Parte dalla paura della solitudine, il voler essere visibile, tornare al centro dove c'è azione e movimento”. Un aspetto un particolare lo ha colpito: “Si può essere in contatto, chiamare amici, persone che abitano dall'altro lato del pianeta. Allo stesso tempo gli amici che dovrebbero essere più prossimi, si riducono ad una relazione via chat. Ci sono naturalmente diversi tipi di amicizie, più solide e impegnative, o più superficiali”.

Qui Bauman fa emergere la grande differenza imposta dall'utilizzo di internet, come 'spazio' per coltivare le relazioni umane: “L'attività su Facebook è quella di un network, una rete, che è un qualcosa molto diverso da una comunità. La comunità è caratterizzata da regole, da un'appartenenza, dei riti di accesso al gruppo e non si è liberi di lasciare. Il network invece appartiene al singolo, non c'è il piacere di incontrare le persone. Le persone si possono cancellare e aggiungere quando vogliamo, basta premere un tasto. Un grande senso di libertà, nel network, che si oppone alla sicurezza fornita dalla comunità”.

Quello che è scomparso, ha evidenziato: “È il concetto del segreto che prima serviva a legarmi ad un altro individuo, obbligava alla relazione. Su Facebook, tutti conoscono la mia vita privata, è messa in vetrina. Non è più lo Stato che entra nelle nostre vite, siamo noi a farlo. Abbiamo dimenticato ciò che prima era invisibile ai nostri occhi, la nostra parte più intima, adesso siamo chiamati a esporre tutto ciò che era tenuto solo per noi. Usciamo dall'invisibilità e diventiamo personaggi pubblici, come facevano solo i vip, fino a poco tempo fa.”

L'utilizzo dei social network, nasconde un cambiamento più profondo, di cui il sito di Mark Zuckerberg è stato solo un veicolo, ha concluso Bauman: “Tutto questo nasce dalla mercificazione, dal vendere tutto, anche noi stessi. Siamo tutti clienti e venditori allo stesso tempo. In questo contesto facciamo molte azioni a caso, senza programmare. Facebook è solo uno strumento di una strategia che segue la stessa logica del mercato, in cui c'è chi compra e chi vende e noi stessi siamo un bene di consumo, di scambio, che si vende facilmente. L'individuo fa tutto ciò perché vuole essere al passo con i tempi, è un obbligo, è prigioniero di questa logica”.

Mario De Prospo

Al Nobili studiando i social network

[La Gazzetta di Reggio 20/05/2011] REGGIO. Educazione interculturale e nuove tecnologie, in particolare i Social Network, questi i temi trattati in questi mesi all'Iti Nobili di Reggio, nell'ambito del progetto della Provincia Noborder.
Il progetto in questa scuola ha coinvolto una classe terza ed è stato realizzato grazie alla collaborazione fra me e la docente di lettere Marcella Morstofolini. Buona parte del lavoro con gli studenti si è svolto in lingua inglese. Nelle corso delle ore dedicate al progetto i ragazzi hanno potuto apprendere i meccanismi alla base di un uso dei social network, e di Facebook in particolar modo, diverso da quello normalmente ne fanno. Si sono infatti approfondite le potenzialità che la rete offre, alla luce anche dei recenti avvenimenti in Medioriente.
Questo progetto ha coinvolto la classe 3ªB del Nobili e nell'individuazione della tematica _ fatta da parte di Provincia e scuola insieme all'interno di un ambito vasto come quello dell'interculturalità _ si è cercato di trovare un argomento che partendo dal vissuto degli studenti, si prestasse ad approfodimenti e riflessioni, che potesse inoltre essere svolto in larga parte in inglese utilizzando materiali in lingua originale.
Da qui la scelta di approfondire il tema dei social network in modo articolato. Si è partiti con un'introduzione alla cosiddetta Network Analysis, che rappresenta un approccio specifico allo studio delle relazioni sociali. A questo proposito, inserendo un'attività nell'ambito del programma di lettere, si è proseguito con la lettura di un saggio particolarmente esemplificativo di questo approccio allo studio delle relazioni sociali. Dopo di che si è passati ad approfondire l'impatto dei social network sulla vita individuale e collettiva, come la diffusione della cultura popolare e il contributo ai cambiamenti politici tramite la condivisione di contenuti. Si è poi parlato di Twitter, dei neologismi e del linguaggio dei social network. Infine, i ragazzi sono stati invitati alla rielaborazione tramite la modalità coinvolgente dell'intervista doppia, che hannno svolto sia in italiano sia in inglese.
La modalità di lavoro è stata prevalentemente laboratoriale e al termine dell'esperienza gli studenti hanno compilato un questionario di valutazione del progetto e di auto-valutazione, dal quale emerge un giudizio complessivamente positivo per l'interesse suscitato in loro, la modalità di lavoro e l'apprendimento linguistico, nonchè del proprio impegno e della propria partecipazione.
L'esperienza didattica è valutata positivamente non solo per l'argomento trattato, di notevole interesse per gli alunni vista la sua attualità e la vicinanza psicologica alla loro quotidianità, ma anche per il contributo stimolante e professionale messo a disposizione dalla Provincia. Sarebbe auspicabile che questa fosse solo la prima di fruttuose collaborazioni, da progettare e inserire nella programmazione didattica all'inizio di ogni anno scolastico.
Francesca Cilloni
docente di lingua inglese

Social media metrics: ecco come misurare le attività sul web 2.0

[Ninja Marketing 20/05/2011] Misurare il successo delle attività sui social media è sempre più importante per le imprese di qualsiasi dimensione, che impostano ormai frequentemente progetti web based (a proposito, se siete a corto di idee forse non avete letto i preziosi consigli di 8 internet guru internazionali!)

D’altra parte diventa anche fondamentale adottare una “filosofia” che permetta a manager e decisori di orientarsi facilmente nella grande quantità di metodologie quantitative e qualitative presenti.

La sfida diventa allora quella di scegliere i giusti indicatori, adeguati allo scopo e che apportino valore reale all’impresa.

In particolare, sono due le principali “famiglie” considerabili:

1) Metriche di misurazione che tengono conto dell’impatto finanziario;

2) Metriche di misurazione più concentrate sull’impatto non finanziario.

Per agevolare il processo di selezione, riproponiamo uno schema che riassume adeguatamente la maggior parte degli indici di misurazione esistenti.

La classificazione mostra come il ROI, il rapporto tra risultati e investimenti di cui abbiamo già discusso nell’articolo “Ma quanto mi costi? Sette linee guida per misurare il social media ROI”, sia solo una delle tante opzioni possibili. Ora finalmente potete averle (quasi) tutte, a portata di post!

Twitter e Facebook trappole per gli adolescenti?

[DireDonna 20/05/2011]

Si torna a parlare, nel bene e nel male, dei social network. Questa volta grazie alla provocazione del direttore del New York Times, che dal suo blog lancia un interrogativo semplice ma che nasconde dietro problematiche profonde. Twitter è una trappola?

Bill Keller esordisce descrivendo l’esempio della figlia teenager, che dopo pochissime ore dalla sua iscrizione su Facebook aveva già conquistato un gruzzolo di 171 amicizie virtuali. Questa estrema facilità nel comunicare con le persone, che poi reale comunicazione non è, può essere considerata un bene o un male?


“Prima di soccombere all’idolatria digitale, dovremmo considerare che l’innovazione avviene spesso a un prezzo. E qualche volta mi chiedo se il prezzo da pagare sia una parte di noi stessi.”

Il tono è abbastanza polemico, e per sottolineare come i social network limitino le capacità cognitive dei ragazzi, Keller propone un paio di esempi esaustivi citando come l’uso della calcolatrice riduca inevitabilmente la capacità di fare i conti mentalmente, oppure come il navigatore satellitare ci impedisca ormai di memorizzare percorsi e aree geografiche.

Ma questo colpevolizzare i social network per la carente predisposizione dei giovanissimi verso la fatica, anche mentale, e lo studio, non sarà forse troppo limitativo? Un’eventuale incapacità da parte degli adolescenti di valutare un comportamento, o un intervento su Facebook, ad esempio, non è da attribuire al sistema stesso. Le tecnologie di per se non influiscono negativamente sulla mente umana, ma tutto dipende dall’uso che se ne fa.

Ciò non toglie, tuttavia, che la supervisione degli adulti non sia necessaria, soprattutto tenendo conto dei rischi ai quali si può andare incontro entrando in contatto con persone sconosciute, oppure partecipando a iniziative da condannare a priori come l’ultimo episodio accaduto a una giovane studentessa disabile a Milano, oggetto di pesanti insulti e offese da parte di un gruppo di coetanei proprio su Facebook.

In casi come questi, la tentazione di bandire i social network dai PC dei giovanissimi è tanta, ma probabilmente non basterebbe a evitare episodi di bullismo e prevaricazione, virtuale o reale che sia.

"Io guiderò": sui social network la sfida e la lotta delle donne arabe

[La Stampa.it 20/05/2011]

Tam tam su Twitter e Facebook: "Il 17 giugno tutte al volante". Chi è femmina lo fa di nascosto
e rischia l'arresto in un Paese
in cui non si può votare, lavorare o scegliere il marito

«Io guiderò»: è la parola d’ordine lanciata sui social network da un gruppo di donne saudite che esortano le loro connazionali a prendere l’auto il prossimo 17 giugno e a mettersi al volante. L’invito rappresenta una sfida estremamente seria e con delicate implicazione politiche perchè, nel Regno, la patente di guida (così come il voto e la possibilità di un lavoro indipendente o di scegliere il proprio marito) è ancora preclusa alla popolazione femminile, anche se molte donne guidano già nelle zone desertiche, fuori città, a rischio di venire arrestate.

Il tam tam della manifestazione si sta diffondendo rapidamente in rete, e le promotrici di ’Women2drivecampaign’ contano su una partecipazione massiccia. «Siamo nel 2011 e stiamo ancora discutendo su questo insignificante diritto», si lamenta Manal, una delle organizzatrici del gruppo Facebook, che per ragioni di sicurezza fornisce solo il nome. Il problema - osserva una sua compagna di lotta su Twitter - è che l’Arabia Saudita è «un terreno scivoloso: cominci con le donne che guidano, e poi ti ritrovi con le donne che vogliono votare o sposare chi gli pare». «Una cosa che mi piace della protesta del 17 giugno è che se il governo deciderà la strada della repressione, apparirà a tutto il mondo eccessivamente irragionevole e duro. Se invece permetterà alle signore di guidare, cadrà la barriera della paura di fronte a questo e ad altri divieti», aggiunge un’altra.

La ’protesta delle automobilistè saudite sarebbe stata probabilmente impensabile senza il precedente delle rivolte arabe dei mesi scorsi. «Il fatto di organizzarsi e agire come un movimento, è qualcosa che le donne saudite possono aver imparato solo dagli eventi recenti», conferma Wajeeha al-Howeider, un’attivista per i diritti umani del Paese.

Nel 1990, quando le truppe americane utilizzarono il Regno come base operativa per il conflitto nel Kuwait, per la prima volta per la strade saudite si videro alcune donne al volante: soldatesse statunitensi, ma anche signore kuwaitiane in fuga dal loro Paese. Alcune saudite decisero allora di imitarle, per far valere quello che consideravano un loro diritto, ma furono arrestate.

Oggi, a una generazione di distanza, le loro figlie ci riprovano. Intanto Manal racconta su Facebook che lei già sfida abitualmente il divieto e guida la macchina in città almeno per quattro giorni a settimana. Finora non è mai stata fermata. «Lo faccio perchè sono frustrata, arrabbiata e matta», spiega lei, in attesa che le altre seguano il suo esempio. Sui network è già un’eroina, e qualcuno l’ha ribattezzata la ’Rosa Parks’ saudita, in ricordo della donna afro-americana che nel 1955 si si rifiutò di cedere il posto ad un bianco, su un autobus a Montgomery negli Stati Uniti, dando il via alla battaglia per l’uguaglianza razziale.

Il tag alla conquista del mondo intanto Facebook lo brevetta

[La Repubblica 20/05/2011] "NON MI taggare che sono venuto male", "Se mi tagghi non vale" e ancora "Ti vorrei taggare", per indicare un certo gradimento dell'altro, o "Mi ha taggato la polizia", ovvero ho ricevuto una multa. Voce del verbo - non ancora riconosciuto dal dizionario italiano - taggare che, assolutamente in voga nel linguaggio di giovani e meno giovani iscritti a Facebook, ora diventa pure un brevetto riconosciuto dall'US Patent and Trademark Office 1. Se è vero che ai tempi del social network lasciarsi è pure un po' staggarsi - a molti è toccato almeno una volta togliere il tag dalla foto con l'ex fidanzata o con l'amica non più troppo cara - è vero anche che il riconoscimento dell'Uspto ufficializza un sistema diventato più di una moda. Con circa 100 milioni di immagini caricate - e taggate - ogni giorno su Facebook è questo uno degli ingredienti del successo del maggiore social network del web oltre che secondo sito più visitato subito dopo Google.

In un mondo in cui le immagini taggate possono rompere un'amicizia, popolata da utenti dai nomi come "il taggatore nero", il "taggatore anonimo" e il "taggatore mascherato", e dove prolificano gruppi come "taggare ke passione", "odio essere taggato", "cotto e taggato" e l'apprezzatissimo di origine romana "m'ha taggato a polizia", fa quasi tenerezza ricordare un pioniere della moda del tagging che già nel 2009 tesseva le lodi del popolare sistema di identificazione con la canzone "Lasciarsi su Facebook 2". Intonata dal neomelodico Manuele d'Amore - personaggio inventato dai creativi di The Jackall - la hit cresceva su un mitico ritornello: "Non mi puoi taggare il cuore, non mi puoi chiamare amore, ad amarsi su Facebook".

Tagging, così come viene descritto nella scheda del brevetto numero 7,945,653 registrato il 17 maggio 2011, è un sistema per contrassegnare contenuti digitali. Il metodo, che prevede la selezione di un media digitale e di una regione del media, può includere l'associazione di una persona o di un'entità all'interno della regione selezionata e l'invio di una notifica alla persona o all'entità citata nel tag. Più difficile da spiegare che da fare per la maggior parte degli utenti di Facebook che da ora in poi utilizzeranno un sistema inventato da Marck Zuckerberg, Aaroon Sitting e Scott Marlette ogni volta che, cliccando su un'immagine, su un video, su un file musicale o su un testo, assoceranno a quel contenuto un nome.

Ci sono voluti circa cinque anni, dal momento del deposito della richiesta di brevetto per il tagging, per far ottenere a mister Facebook, al product architect Sitting e all'ex ingegnere Marlette la paternità del sistema che prevede come ulteriore funzione associata alla notifica anche l'invio di contenuti pubblicitari. È inoltre di pochi giorni fa l'introduzione del tag anche per marchi, prodotti e personaggi famosi, così a chi vorrà identificare quella popolare bevanda immortalata nella foto della festa basterà collegare l'immagine alla fan page della bibita con il tagging.

Oltre all'aspetto economico dell'ultima vittoria di Zuckerberg e compagnia - solo alcune settimane fa sempre a Facebook veniva riconosciuta la paternità del sistema di regali virtuali - il brevetto garantisce un discreto controllo sulle altre piattaforme sociali che da ora in poi dovranno guardarsi bene dall'introdurre sistemi che possono anche solo ricordare il tagging. Che d'ora innanzi è made in Facebook.

BENEDETTA PERILLI

A Reggio Emilia "Media e minori: le abitudini dei baby spettatori"

[Orizzonte scuola 18/05/2011]

Servizio CORECOM - Regione Emilia Romagna - A Reggio Emilia i risultati della ricerca di CORECOM e Reggio Children sui bambini in età prescolare.

“Bambini e media, tra TV, cartoons, computer e videogiochi” è il titolo dell’iniziativa che avrà luogo sabato 21 maggio, dalle 9.15 alle 12.30, presso il Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia. L’evento vedrà la presentazione dei risultati di una ricerca, realizzata dal CORECOM Emilia-Romagna e da Reggio Children, che ha indagato i ruoli e i significati dei media nella vita dei bambini in età prescolare, attraverso un percorso della durata di due anni, che ha coinvolto minori, genitori e insegnanti.

La ricerca ha permesso di analizzare le abitudini nella fruizione mediatica nella prima infanzia, attraverso un questionario rivolto alle famiglie, i focus group con genitori, insegnanti e pedagogisti e il coinvolgimento diretto di bambini tra i 20 mesi e i 6 anni. Il progetto, oltre a promuovere un uso responsabile e consapevole dei media, si è posto l’obiettivo ambizioso di costruire uno strumento di ricerca e formazione che potesse essere diffuso sull’intero territorio dell’Emilia-Romagna.

Cosa guardano i bambini e con quali modalità? Cosa pensano di pubblicità e TG? I risultati tracciano il quadro di bambini che già dalla primissima infanzia sono ampiamente esposti ai media; la televisione si conferma in cima alle preferenze, ma molti bambini della scuola materna utilizzano anche computer e videogiochi. Permangono alcune cattive abitudini, come guardare la tv durante i pasti o prima di dormire, ma emergono con forza anche le preoccupazioni dei genitori, per i contenuti violenti di videogiochi e tv – tanto che molti preferiscono utilizzare dvd e filmati scaricati dalla rete – e per una tecnologia che entra a far parte precocemente della vita dei loro figli.

L’incontro, moderato dal Direttore di Rai Regionale, Fabrizio Binacchi, vedrà la presenza di Arianna Alberici (Componente CORECOM) e di Carla Rinaldi (Presidente di Reggio Children). A presentare la ricerca le pedagogiste Paola Strozzi (Istituzione Nidi e Scuole dell’Infanzia, Comune di Reggio Emilia), Mascia Marconi (Progettinfanzia Bassa Reggiana) ed Elena Bega (Coopselios). Agli interventi di Franco Mugerli (Comitato Media e Minori) e dell’Ufficio Scolastico Regionale, seguirà un dibattito aperto a tutti i partecipanti

mercoledì 11 maggio 2011

Rapporti reali o virtuali?

[D - La Repubblica 11/05/2011] Home
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Il sito del Guardian fa il punto sulle amicizie che nascono sui social network. Scopri cosa dicono le statistiche di Katia Brega

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Un articolo di Ben Quinn, apparso sul sito del Guardian, riporta dati interessanti riguardanti gli amici in carne e ossa e quelli conosciuti sui social network. A 121 "friends" online ne corrispondono solo 55 nella vita reale. Un altro dato significativo emerso è che le persone tendono a essere più aperte, sicure di sé e oneste con gli amici virtuali rispetto a come sono con quelli reali. Forse perché si sentono in qualche modo "protette" dallo schermo e quindi risultano più tranquille e libere di esprimersi. Quindi, poi, se il rapporto da virtuale diventa reale ci potrebbe essere uno squilibrio e non per falsità voluta o premeditata, ma a causa della natura del mezzo utilizzato inizialmente per la conoscenza.

Ma i dati riportano anche molto ottimismo: un utente su 10 ha trovato buoni amici online o è fiducioso che gli accadrà presto. È vero anche che a causa di internet addirittura le presentazioni vis-à-vis stanno cambiando: solo il 25% delle persone chiede il numero di cellulare, a fronte di un 23% che domanda l'indirizzo e-mail o il nome per intero (col cognome) per aggiungere la nuova conoscenza su un social network, come Facebook o Twitter. È innegabile, quindi, che i rapporti reali si stiano modificando a causa di quelli virtuali. Sarà un bene o un male? Forse entrambe le cose.
Katia Brega

Banda larga: Italia ultima in Europa

[Tuttogratis 10/05/2011] Lo sviluppo ed il prestigio di un paese, nell’era della globalizzazione, sta anche e soprattutto nella qualità dei servizi e delle infrastrutture che è capace di offrire ai propri cittadini. Nell’era del web 2.0, l’aumento della qualità delle connessioni a banda larga è diventato ormai un obiettivo comune a tutti i paesi più sviluppati che vedono nel finanziamento delle infrastrutture di rete la vera chiave del proprio sviluppo. Sebbene in Italia sia stata sviluppata da poco la connessione web più veloce al mondo, e la gara tra i vari operatori telefonici sembrava aprire nuovi spiragli di sviluppo per la rete italiana, la recente indagine condotta da Akamai relega il nostro Paese, manco a dirlo, agli ultimi posti della classifica dei paesi europei per quanto riguarda la qualità e la velocità delle connessioni Internet a banda larga.

Abbiamo già visto in passato come la qualità della banda larga nel nostro paese fosse nettamente inferiore a quella di altre nazioni del mondo che, sebbene meno ricche della nostra, abbiano puntato gran parte del loro piano di sviluppo sulla rete e su Internet. Purtroppo, sembra che il trend non stia per niente cambiando, anzi, la situazione pare peggiorare.

Secondo le ultime, precise, rilevazioni di Akamai l’Italia occupa il penultimo posto in Europa, al pari della Grecia, per velocità di connessioni a banda larga con una velocità media delle connessioni Internet di circa 3,4 Mbps, seguita soltanto dalla Spagna, che chiude la classifica. Dati piuttosto allarmanti se si pensa che la testa della classifica è occupata dalla Romania, paese non certo tra i più avanzati in Europa, ma che può vantare una velocità media di connessione di ben 8,3 Mbps.

Impietoso è, infine, il confronto con gli stati extra-europei. Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti, infatti, ci surclassano nettamente, grazie alla qualità elevatissima delle connessioni che i provider locali riescono ad offrire. In ogni caso, provate anche voi ad effettuare un test sulla velocità effettiva della vostra connessione per rendervi conto dell’effettiva veridicità dei dati di Akamai.

Obama 2.0, ma fino a un certo punto

[Sky.it 10/05/2011] Aveva promesso più trasparenza e banda larga per tutti. Per dare al paese il segno di un “Change” aveva puntato tutto sul web 2.0 e la partecipazione. Ma a tre anni dal suo insediamento alla Casa Bianca (e alla vigilia della nuova campagna per le presidenziali 2012), il bilancio tecnologico di Barack Obama non è tutto rose e fiori. Certo, il primo presidente 2.0 degli Stati Uniti si è battuto per la net-neutrality, il cloud computing e l’abbattimento del digital divide nelle aree più remote del paese. Insieme a Hillary Clinton ha promosso la rete come arma di esportazione della democrazia nei regimi autoritari. Ha spinto sull’open-government e per una comunicazione più disintermediata con i propri elettori.
Allo stesso tempo, però, si è fatto anche portavoce di posizioni piuttosto conservatrici sulle nuove tecnologie: dal pulsante spegni internet all’identificativo unico per i navigatori, passando per l’aperta ostilità nei confronti di WikiLeaks e la più ambigua posizione verso i colossi hi-tech che esportano tecnologie di controllo nel terzo mondo.
Insomma, come dice l’esperto di comunicazione politica Micah L. Sifry: “Mentre una parte dell'amministrazione Obama cerca di stimolare apertura, trasparenza e partecipazione, un'altra si sta rivelando uguale se non peggiore della precedente”. Ecco quali sono i punti più controversi del rapporto tra Obama e la tecnologia.

CENSURA E CONTROLLO - Con due famosi discorsi di Hillary Clinton, l’amministrazione Obama si è schierata apertamente a favore delle nuove tecnologie come strumento per promuovere la libertà di espressione e i diritti umani nel mondo. Il piano - che è stato subito ribattezzato “il nuovo corso della diplomazia 2.0 statunitense” - prevede anche il finanziamento da parte del Dipartimento di Stato di progetti aggira-censura (il che ha provocato non pochi malumori tra gli attivisti arabi che temono una nuova ondata di “colonialismo tecnologico”). Contemporaneamente, però, tra le fila democratiche sono stati presentati anche controversi progetti di legge: da quello che permette all’FBI di accedere più facilmente ai dati personali degli utenti, fino al cosiddetto “kill switch”, il pulsante “spegni Internet” che darebbe ad Obama il potere di oscurare la rete in caso di emergenza nazionale. Una prerogativa che fino ad ora è stata utilizzata proprio da quei cyber-dittatori contro cui Washington intende battersi (Egitto, Libia). Lo stesso vale per il sistema di identificazione unico online da lui promosso per gli acquisti online: secondo alcuni detrattori va più nella direzione del controllo sociale che non della sicurezza.

OPEN GOVERNMENT, SENZA WIKILEAKS - Apertura e trasparenza amministrativa sono stati da sempre i due cavalli di battaglia di Obama. Che appena si è insediato alla Casa Bianca si è dato un gran da fare per promuovere siti come data.gov in cui è possibile visualizzare e manipolare migliaia di dati sulla macchina statale. Obama si è poi apertamente schierato contro il “Freedom of Information Act” di George Bush che, tra le altre cose, autorizzava le agenzie federali a classificare la maggior parte dei documenti interni come “riservati”.
In uno dei primi atti ufficiali del suo mandato, Obama ha ordinato di ribaltare questa dottrina (“L’apertura deve sempre prevalere”), facendo intendere che il mantra dell’ “open-government” non era solo retorica elettorale. Ma secondo alcuni studi recenti questa presa di posizione non ha dato i frutti sperati: negli ultimi tre anni c’è stato addirittura un aumento del 20% dei documenti riservati.
Il tutto proprio mentre scoppiava il caso WikiLeaks di fronte al quale l’amministrazione Obama si è messa subito sulla difensiva: “I governi non possono fare tutto alla luce del sole. La riservatezza è fondamentale per condurre operazioni che non si possono fare in pubblico”, è stata la reazione di Hillary Clinton. Critiche a fiumi sono poi arrivate per l’atteggiamento “punitivo” nei confronti di Bradley Manning. La “talpa” di Julian Assange è detenuto da quasi un anno senza che ancora si sia celebrato un processo (la prima udienza è prevista nel mese di maggio) e proprio per questo Obama è stato pubblicamente contestato durante la recente visita a Facebook.

SOCIAL MEDIA SI, MASHUP NO - Sull’utilizzo sapiente dei social media durante la campagna elettorale del 2008, ormai esiste ormai un’ampia letteratura. Per quanto una volta arrivato allo studio Ovale non abbia continuato a twittare con la stessa scioltezza, non si può negare che lo staff di Obama abbia compiuto un salto generazionale in quanto a modalità di comunicazione: dai videomessaggi
e le domande e risposte su YouTube, passando per le dirette su Facebook, fino ad al profilo ufficiale aperto su Flickr dove ogni giorno vengono condivise le foto delle sue attività istituzionali. E i risultati in termini di popolarità non si sono fatti attendere: la foto di Obama nella Situation Room in occasione dell’uccisione di Osama bin Laden si candida a diventare una delle più viste in assoluto su Flickr.
Ma chi di social media ferisce, spesso di social media può perire. A pochi mesi dal suo insediamento, Obama è diventato vittima di una vasta operazione di “politics busting” in cui veniva presentato ora come “socialista” ora come “Joker”. Altre volte, poi, queste immagini sono state utilizzate per pubblicità non autorizzate, in cui lui e la moglie Michelle si sono ritrovati ad essere testimonial involontari di campagne sociali o di marchi di abbigliamento. Per evitare manipolazioni poco gradite, lo staff di Obama ha così pensato di vietare i mashup sulle foto presidenziali. Una mossa di certo poco 2.0. Così come poco innovativo è fino ad ora risultato il suo debutto online per la campagna del 2012.

I GADGET FANNO MALE, ANZI NO – Infine, da utente incallito di BlackBerry, Barack Obama, una volta diventato presidente, ha fatto presto a ricredersi sulle potenzialità dei gadget elettronici: “Con gli iPod e gli iPad, le Xbox e le PlayStation – nessuno dei quali so usare – l'informazione diventa una distrazione, un'evasione, una forma di intrattenimento invece che uno strumento abilitante, piuttosto che un mezzo di emancipazione”, ha dichiarato lo scorso anno lasciando di stucco quanti pensavano che finalmente alla Casa Bianca fosse sbarcato un Presidente 2.0 e che, invece, certe volte finisce per assomigliare a primi ministri molto meno “geek” di lui.
Nicola Bruno