lunedì 26 luglio 2010

Islanda, il paese senza bavaglio

[La Repubblica.it 26/07/2010] REYKJAVIK - Alle tre di quella notte, quando il parlamento è stato chiamato a votare, la deputata anarchica Birgitta Jonsdottir non era affatto certa che la sua proposta sarebbe passata. E un mese dopo ancora si chiede se tutti i colleghi avessero capito l'entità della sfida che la piccola Islanda si impegnava a lanciare all'universo mondo - a Stati di polizia e a compagnie petrolifere, al Pentagono e a grandi banche, giù giù digradando fino all'Italia di Silvio Berlusconi. Ma fosse pure con il contributo di una scarsa consapevolezza, del sonno o della fretta di andare in ferie, sul tabellone elettronico è apparso, ricorda Birgitta, "un mare verde. Approvato all'unanimità. Ero stupefatta". Da quel 16 giugno, un Paese di trecentomila abitanti promette uno scudo quasi totale ai disvelatori di segreti - segreti militari, segreti istruttorii, segreti societari, segreti di Stato.

Se documenti sottratti per un interesse pubblico saranno immessi in Internet da un server con base in Islanda, la giustizia dell'isola non potrà impedirne la divulgazione, tentare di scoprire chi li abbia rivelati, dare seguito a condanne comminate da tribunali esteri in base a leggi contrarie alle norme islandesi. Ancora: se uno Stato o un privato si ritenesse diffamato e ricorresse davanti ad una corte straniera, la società islandese proprietaria del computer (il server) che ha immesso in Rete carte segrete non solo non potrà essere intimidita con la minaccia di quei processi dai costi esorbitanti che stanno costringendo all'autocensura molto giornalismo occidentale, ma sarà autorizzata a rispondere con una contro-citazione davanti ad una corte dell'isola, dichiarandosi vittima di una minaccia alla libertà d'espressione.

Per capire come andrà a finire la sfida islandese occorrerà attendere la normativa d'attuazione (la risoluzione, intitolata Icelandic Modern Media Iniziative, impegna il parlamento a modificare quattordici leggi, tempo previsto: un anno). Stando alle premesse, l'Islanda potrebbe diventare il bunker mondiale del giornalismo investigativo, le Cayman Islands di un'informazione né manipolatoria né omissiva. Ma anche attirare specialisti della disinformazione e mestieranti della calunnia. Potrebbe arretrare sotto l'incalzare di silenziose pressioni internazionali. Oppure restituire la voce agli zittiti - dissidenti, perseguitati, disomogenei. Nel frattempo l'interesse che la deputata Birgitta Jonsdottir ha registrato nel parlamento europeo, soprattutto nel gruppo liberale, suggerisce che l'iniziativa islandese abbia già ottenuto un risultato cospicuo: chiamare alla riscossa contro la massa di divieti, ingiunzioni e intimidazioni che da quasi un decennio sta comprimendo la libertà d'espressione anche negli Stati di diritto occidentali, spesso con il pretesto della lotta al terrorismo.

Per quanto poi riguarda l'Italia, quel che offre l'Islanda già adesso permette di aggirare i divieti che in origine appartenevano alla goffa proposta del ministro Alfano. Nel concreto, chi volesse divulgare intercettazioni dal contenuto significativo non dovrebbe fare altro che mandare le fotocopie del documento originale ad un sito specializzato nella divulgazione di segreti (il più seguito, Wikileaks. org, ora ha la base ufficiale in Islanda). Per posta, ad uno degli indirizzi indicati nel sito Wikileaks; oppure via Internet attraverso il software Tor, gratuito, che costruisce un gioco di carambole tra computer e rende difficilissimo identificare il mittente. Il personale di Wikileaks verificherebbe l'autenticità del documento attraverso i suoi collaboratori in Italia, e tempo qualche giorno o qualche settimana, lo metterebbe in rete. Secondo Smari Mc Carthy, matematico e portavoce di quella Digital Freedom Society che ha avuto un ruolo importante nella formulazione della proposta islandese, "una volta che il documento fosse in Internet, i media italiani potrebbero riprenderlo senza temere ritorsioni". La tesi di Mc Carthy è perlomeno discutibile, ma è meno controverso che non mancherebbero media internazionali disposti a dare pubblicità a ghiotti segreti italici, soprattutto nei Paesi dove l'informazione gode di forti protezioni. Dunque quanto più la legge Alfano tentasse di nascondere, tanto più ostenterebbe scandali e inadeguatezza dell'esecutivo.

Probabilmente lo spettacolo non stupirebbe gli islandesi, cui la tv di Stato in giugno ha raccontato l'Italia attraverso il documentario svedese Videocracy, dove siamo rappresentati da Berlusconi e tali Corona e Mora. "Che disastro, poveretti!", si sente ripetere adesso il giornalista italiano.
A loro volta gli italiani troverebbero un che di familiare nello scandalo islandese che ha prodotto per reazione la Icelandic Modern Media Iniziative.

Agosto 2009: la tv di Stato decide di rendere pubblico un documento bancario da cui oggi molti ricavano che nel privatizzare i due maggiori istituti di credito islandesi, i due partiti di centrodestra se li siano spartiti affidandoli a loro amici, incapaci che li avrebbero comprati con soldi presi a prestito da quelle stesse banche. Poco prima che il servizio vada in onda, la magistratura lo blocca con un'ingiunzione. La tv di Stato obbedisce: ma poco tempo dopo si vendica mostrando la schermata di Wikileaks che ha messo in rete il documento.
Dell'episodio discute la Digital Freedom Society in dicembre, quando riunisce a Reykjavik una compagnia non convenzionale: anarchici islandesi, hackers cosmopoliti, e i fondatori di Wikileaks. Va detto che gli anarchici qui sono persone mitissime (la settimana scorsa facevano scudo alla palazzina del governo bersagliata con sassi da cittadini rovinati dalla crisi finanziaria). E gli hackers nordici tengono a non essere confusi con i crackers, quelli che entrano nei siti per sabotarli o saccheggiarli, o con i vari malfattori che cercano lucri facili in Internet.

Si considerano esploratori dell'ignoto, esteti, "hippies lanciati nel cyberspazio", per citare uno di loro, Mc Carthy, che di nome fa Trifoglio (Smari in islandese: il padre, nato in Irlanda, lo chiamò così perché il trifoglio è il simbolo irlandese). Comunque quella sera due dozzine tra hackers, anarchici e sfascia-segreti di Wikileaks si ritrovano in un pub di Reykjavik e decidono di fondere in un progetto organico le più avanzate tra le norme europee e statunitensi in materia di informazione. Si tratta di invertire una tendenza che non è soltanto italiana. Preoccupa soprattutto la Gran Bretagna, meta preferita di quel "turismo da querela" che promuove la causa lì dove trova la legislazione più favorevole. Secondo Trifoglio Mc Carthy, nei processi per diffamazione la giustizia britannica permette al querelante di infliggere al querelato un processo lungo e spese processuali proibitive (così anche negli Usa: vincere la causa contro Scientology è costato 7 milioni di dollari al settimanale Time). A motivo di questo, molti giornali inglesi stanno cancellando dai propri archivi tutte le notizie controverse, per evitare di essere trascinati in una causa da studi legali collegati a grandi industrie.

"Ma questo vuol dire modificare la storia", segnala Birgitta Jonsdottir. Mentre studia i codici occidentali il gruppo di Reykjavik si trova coinvolto nell'elaborazione di un filmato che un soldato americano ha inviato di nascosto a Wikileaks. Girato dalla US Air Force, mostra un elicottero statunitense fare strage di un gruppo di iracheni inermi scambiati per guerriglieri, e soprattutto, ammazzare intenzionalmente i primi soccorritori, clamorosamente incolpevoli. Non c'è un prima e un dopo, lamenta il ministro della Difesa Gates, volendo intendere: l'episodio è decontestualizzato.

Ma almeno c'è un "in mezzo", gli risponde Wikileaks. Quel che qui conta è che né il filmato né l'arresto del soldato che lo trafugò, tuttora detenuto, hanno trovato sui media americani l'eco che Wikileaks si attendeva. Se ne potrebbe dedurre che qualsiasi cosa scoprano i divulgatori di segreti, se l'argomento non è nell'agenda dei media tradizionali non arriverà al grande pubblico.

Quando gli giro il mio dubbio il portavoce di Wikileaks, Daniel, replica che l'organizzazione non vuole tanto sollevare clamore quanto sottrarre all'invisibilità documenti che potrebbero formare la verità storica. Fondata da un hacker australiano che tuttora viaggia nel mondo con le precauzioni di un ricercato, Wikileaks può avvalersi di 800-1000 collaboratori sparsi in decine di Paesi, con i quali verifica le carte segrete che riceve. Secondo Daniel finora soltanto due sono risultate trappole costruite ad arte (una collegava Obama all'islamismo radicale). In genere Wikileaks non si pone il problema se i segreti divulgati siano d'aiuto a malintenzionati (così l'organizzazione ha pubblicato i test condotti dal Pentagono su apparecchi destinati a prevenire l'esplosione di mine). L'importante, per così dire, è che quei documenti siano agli atti.

Però le protezioni accordate dall'Islanda già nel futuro prossimo indurranno questi o altri cacciatori di segreti a tentare di raggiungere in proprio il grande pubblico. E a costruire archivi nazionali (l'IMMI, ghigna Trifoglio Mc Carthy, potrebbe sdoppiarsi in "Italian modern media initiative") oppure tematici, vuoi per precisare i profili di Corporation che hanno globalizzato anche l'opacità, vuoi per individuarne comportamenti scorretti che al momento sono invisibili. Il progetto è audace, la questione seria. Difficile fare previsioni. Al momento l'unica cosa chiara è che al cospetto dei cybernauti di Reykjavik il povero Angelino Alfano, con le sue pandette e i suoi calamai, fa la figura di un leguleio del Regno delle Due Sicilie.

GUIDO RAMPOLDI

domenica 25 luglio 2010

Il magazine diventa 2.0 E' il fenomeno Flipboard

[La Repubblica.it 25/07/2010] Si chiama Flipboard ed è un'applicazione per iPad che si potrebbe facilmente liquidare con la definizione di "magazine digitale", come ce ne sono già tanti. Ma, se così fosse, sarebbe difficile spiegare perché questo software, appena lanciato, sia già un culto su web. In realtà, Flipboard è molto di più: una rivista di carta inizia e finisce, e poi il lettore aspetta il numero successivo. Flipboard scardina il concetto di periodicità portando sul tablet Apple un magazine fluido, che prende i suoi contenuti dal web sociale, li spoglia della loro tecnicità estetica e funzionale e li impagina in un layout da periodico patinato. Ancora meglio: Flipboard capisce cosa piace al lettore dal suo flusso di scambi e preferenze sui social network, seleziona temi, articoli e aggiornamenti e li presenta al lettore sotto forma di rivista. Da sfogliare in digitale, come già si fa sull'iPad con altri prodotti editoriali.

Un vero magazine. Flipboard non è un semplice aggregatore di fonti sparse per il web. All'origine c'è una selezione dei contenuti, operata da Flipboard.com, che va a pescare tra i blog più autorevoli e di tendenza, divisi per argomenti. La sezioni in questa fase dell'applicazione comprendono politica, news, tech, photo, style, gossip, cinema, un po' di tutto come un vero magazine generalista. All'apertura dell'applicazione, Flipboard mostra quella che chiameremmo una "copertina". Ma anche questa è mutevole, e si compone di un'immagine presa da internet e un titolo principale, estratti da una delle fonti attive. Girando pagina si trova il sommario, completamente modulare, composto da un insieme di box manipolabili dall'utente-lettore. Flipboard presenta delle sezioni tematiche e delle fonti specifiche, e si può scegliere come organizzare l'indice in base alle proprie preferenze di lettura.

Il ruolo dei social network. La sorpresa sta nei primi due box, che sono Facebook e Twitter. Flipboard è in grado di integrare l'offerta di contenuti con le attività svolte dall'utente sui social network. Temi, discussioni e contenuti audiovisivi diventano così parte del sommario della rivista, che di fatto offre un "timone aumentato", realizzato su misura per il lettore. Al momento non è possibile inserire i propri feed preferiti. La selezione editorale è curata da Flipboard.com, che comunque sembra sempre "sul pezzo". Quando arriverà la versione italiana, ci saranno con ogni probabilità contenuti rilevanti per gli utenti locali. Scelti i contenuti, sfogliare Flipboard è semplice come compiere la stessa azione sui vari magazine per iPad. Quando si sceglie un articolo, c'è una bella sorpresa per il lettore che ama l'approfondimento: la pagina si allarga a tutto schermo, e su un lato appaiono tutti i post di Twitter inerenti all'argomento. Per non perdere un articolo, è sufficiente inviarselo per e-mail da Flipboard stesso.

Successo nonostante i limiti. Flipboard è stato appena aggiornato alla versione 1.0.1, dopo una serie di problemi riscontrati dagli utenti nell'agganciare i contenuti sui social network. Difficoltà tecniche che l'azienda ha imputato allo straordinario numero di download dell'applicazione e relative centinaia di migliaia di reindirizzamenti ai server di Flipboard. Un carico di richieste che ha fatto oscillare la qualità del servizio. Dopo l'aggiornamento, l'applicazione appare stabile e funzionante.

Qualche limite non manca, al momento è possibile leggere solo i primi due paragrafi di ogni articolo. Per leggerne uno interamente però basta sfiorare il tasto "Guarda sul web", che apre direttamente la pagina della fonte. Un limite, ma anche un accettabile escamotage per rendere l'applicazione più snella e non togliere visibilità ai contenuti originali. Più rilevante tra i difetti l'impossibilità di scegliere e aggiungere le proprie fonti, ma probabilmente è un impedimento destinato a sparire.

di TIZIANO TONIUTTI

sabato 24 luglio 2010

Intervista a Alessandro Prunesti

[Mangialibri 24/07/2010] Alessandro Prunesti, classe 1979, è un consulente nel campo della comunicazione di marketing sui media digitali, nonché docente universitario. Ha pubblicato - tra gli altri - un libro che è un po’ saggio, un po’ manuale, certamente uno strumento utilissimo per orientarsi nella giungla dei social network e social media, che negli ultimi anni sono entrati prepotentemente nelle nostre vite. La cosa ci ha incuriosito e lo abbiamo incontrato per approfondire la questione.
Nel primo capitolo del tuo Nuvole di byte si parla del passaggio dal Web 1.0 al 2.0: è possibile identificare un fatto, un fenomeno, che ha fatto in qualche modo da spartiacque tra le due fasi?
Assolutamente sì: la nascita di YouTube. Senza dubbio, l’avvento del primo sito web al mondo che ha dato a chiunque la possibilità di pubblicare e condividere contenuti online, aveva in sé le basi per il successo di quella “cultura della partecipazione online” che oggi permea la vita quotidiana di centinaia di milioni di persone. La stessa parola “You – Tube” contiene in sé il seme di questa rivoluzione che, attenzione, non è prevalentemente tecnologica, ma bens’ sociale. I social network, i blog, lo stesso youtube sarebbero contenitori vuoti e inutili, se non vi fosse il desiderio innato dell’uomo di relazionarsi con gli altri. Il web 2.0 è solo uno strumento di relazione in più ma che, a differenza di quelli precedenti, ha due vantaggi: comunicazione in tempo reale e abbattimento istantaneo di qualsiasi barriera geografica o politica. E i fatti in Iran dello scorso anno ne sono un altro esempio.

Grande spazio è dedicato nel libro ai social network: ce n’è uno che potrebbe in qualche modo resistere nel tempo pur evolvendosi? E ce n’è uno che preferisci personalmente?
Quello dei social network è un fenomeno molto recente; nonostante questo, è già possibile individuare delle tendenze di sviluppo futuro, malgrado le cose online corrano sempre molto veloci. Fino a qualche anno fa il trono spettava a MySpace. Fino all’avvento di Facebook, che regna e regnerà incontrastato per gli anni a venire. Se fosse una nazione, oggi sarebbe la quarta nel mondo: ha più di 400 milioni di iscritti. Ma non è incredibile. Io ritengo che continuerà a crescere anche nei prossimi anni, perché si sta muovendo molto bene a livello di alleanze strategiche e commerciali. Inoltre offre tanti servizi ai suoi iscritti. Ed è proprio questo il segreto del suo successo: un social network, per potersi affermare, deve garantire una fortissima capacità di integrazione. All’interno della sua piattaforma, cioè, gli iscritti devono trovare tutta una serie di servizi che li invoglino a restare collegati senza navigare altrove. Facebook ha la bacheca, la posta, la possibilità di condividere e taggare foto, funzioni di ricerca avanzate… la chat fa schifo, è lenta e instabile, ma da quando è stata implementata dentro Facebook, la gente sta tutta lì e la preferisce a Messenger. Nei prossimi mesi Facebook integrerà anche funzioni per la condivisione di file e attività di lavoro in ambito business, strizzando l’occhio al pacchetto Office della Microsoft. Continuerà ad evolversi e, soprattutto in Italia, andrà ad integrare la televisione come media mainstream. Già oggi tanti ragazzi, mentre guardano la tv seduti sul divano, hanno appoggiato sulle gambe un portatile collegato a Facebook. Io utilizzo Facebook soprattutto per condividere interessi di carattere professionale, oltre che per rimanere in contatto con i miei amici di sempre. Ma apprezzo molto anche LinkedIn: un social network professionale dove si possono incontrare persone davvero molto in gamba.


In un precedente libro ti sei occupato di comunicazione e marketing nelle imprese sportive: per questo settore ritieni che i social network siano utili? Ci sono settori produttivi particolarmente adatti ad essere 'raccontati' attraverso i social network?
Assolutamente sì e, anzi, nel settore dello sport i social network sono ancora più utili e necessari per sviluppare attività di marketing e comunicazione. I social network si fondano sul concetto di community: un concetto di tipo sociologico, che consiste nell’aggregazione di persone accomunate da un interesse comune e specifico. Ciascun gruppo di tifosi è una community di persone estremamente legate alla propria squadra. I social network digitali offrono anche un altro vantaggio, che molto spesso viene sottovalutato: sono dei potentissimi strumenti per fare marketing territoriale, per far stringere in una stessa community online le persone presenti in uno specifico territorio di appartenenza (come ad es. un piccolo comune) che attraverso i social media hanno la possibilità di comunicare al “resto del mondo” senza vincoli o pregiudizi. L’uso dei socia media da parte delle imprese sportive dovrebbe essere assolutamente naturale… ma purtroppo lo fanno ancora in pochi; e chi li utilizza, troppo spesso lo fa senza cognizione di causa o senza una precisa strategia, con conseguenze disastrose. I settori produttivi che possono trarre i maggiori vantaggi dai social network sono tutti quelli dove ci sono community di persone che ruotano intorno a un prodotto, un brand, una moda, una tendenza particolare: moda e abbigliamento, sport, eventi. Ma anche tutto il mondo del no profit e del turismo. Senza dimenticare anche il settore manifatturiero e agro-alimentare, che potrebbe utilizzare i social media per promuovere le specialità di un territorio.


Come giudichi i "fenomeni" nati su YouTube? Penso ad esempio a Clio, la ragazza bellunese che propone tutorial per imparare a truccarsi?
In realtà, quelli che ci sembrano fenomeni sono semplicemente l’applicazione pratica delle innumerevoli possibilità che il web 2.0 ci offre in termini di comunicazione e di marketing. Oggi chiunque di noi ha la possibilità di fare broadcast e di trasmettere qualsiasi contenuto. L’importante è che i contenuti siano interessanti, e che ci siano le giuste strategie per promuoverli. Da questo punto di vista non c’è solo YouTube; anche Livestream ci consente di creare un vero e proprio canale in streaming, con tanto di dirette e differite, a costo praticamente zero.


Da esperto in materia, ci puoi anticipare l'arrivo di qualche nuovo social network o strumento del Web 2.0 a cui occorre prestare attenzione nei prossimi tempi?
Il futuro si giocherà su due fronti: il cloud computing e il mobile e i servizi geolocalizzati. In pratica, sarà sempre più netta la tendenza ad utilizzare programmi e servizi direttamente online, che non necessitano di essere installati sui device utilizzati per fruirne. L’importante sarà essere sempre connessi; appena gli operatori telefonici offriranno tariffe flat per la navigazione mobile veramente vantaggiose, il fenomeno esploderà. Ci si collegherà sempre più spesso da dispositivi mobili come gli smartphone e l’iPad. Si accederà ai social network, alla posta,ai programmi e ai propri file direttamente online. E i contenuti varieranno in base al luogo nel quale ci troveremo. Per quanto riguarda l’arrivo di nuovi social network/strumenti web 2.0, nei prossimi mesi assumeranno sempre più importanza: Foursquare e i contenuti geolocalizzabili di Facebook. Questo per il mercato consumer. Per quanto riguarda il mercato business, presto si affermeranno i sistemi di Enterprise 2.0 e le piattaforme web che saranno utilizzati dalle imprese per sviluppare i propri social network collaborativi interni aziendali.

Francesca Zeroli

giovedì 22 luglio 2010

Svezia, rivoluzione web arriva il provider pirata

[La Republica.it 22/07/2010] Sul fronte digitale europeo si combattono ormai molte battaglie. In Italia siamo ancora alle prove di fuoco contro i blogger persi tra i risultati di Gogòl, mentre la Finlandia dichiara il web un diritto fondamentale dell'uomo. E in Svezia c'è il PiratPartiet, il Partito Pirata, che della libertà totale e incondizionata di godere di ogni tipo di prodotto culturale gratuitamente ha fatto la sua bandiera, con tanto di teschio e ossa incrociate. E dopo aver deciso di ospitare sui propri server The Pirate Bay, la community di scambio digitale più frequentata del mondo (inaccessibile dall'Italia), ora allunga il passo. E annuncia la creazione di un proprio ISP, un provider di connettività per accedere alla Rete in forma completamente anonima e senza lasciare tracce. Come dire, l'incubo di tutti gli addetti alla sicurezza elettronica dell'universo mondo, e non solo dei difensori del copyright.

Rete Libera
. Il "Provider Pirata" non funzionerà proprio come un normale servizio di connessione. Sarà un affare più complicato che chiamare Alice, Libero o Fastweb e chiedere un allaccio Adsl. All'utente sarà chiesto di occuparsi di eventuali malfunzionamenti del proprio collegamento. Dopotutto si tratta di una rete pirata e nessun altro al di fuori dei pirati deve metterci le mani. Gustav Nipe, membro del PiratPartiet e responsabile del provider con le tibie, è chiaro: "Questo è uno dei modi per non soccombere al Grande Fratello. Un provider pirata è necessario, non fosse altro che per mettere il sale sulla coda ai provider 'ufficiali'. Se non si comportano come dovrebbero, ci sarà sempre qualcuno pronto a prendere il loro posto". Il Provider Pirata ha già iniziato la sua attività, al momento in fase di test nell'area di Lund. Arrivare al resto del paese è un'operazione che dovrebbe richiedere non più di qualche mese.

Anonimi. ViaEuropa è la struttura alla base dell'ISP pirata, la stessa dietro il servizio iPredator, la rete privata collegata The Pirate Bay. E questo significa una cosa precisa: gli utenti non avranno nome e storia. Gli indirizzi Ip non saranno conservati, né il provider permetterà al governo svedese di monitorarli. In più non ci saranno "log" delle attività di rete, nessun registro di quello che accade attraverso i server del Provider Pirata. Un grattacapo per chi si occupa di sicurezza informatica e anche della commissione antipirateria svedese. Gustav Nipe non sembra curarsene, anche se Henrik Pontén, membro della commissione, dichiara che il Provider Pirata dovrà comportarsi come ogni altro fornitore di servizio e in caso di richieste da parte delle autorità fornire dati e dettagli sugli utenti. Ma dalla parte di Nipe, il toro ha già la testa tagliata: se non verranno tenuti registri, questi dati non esisteranno mai.

di TIZIANO TONIUTTI

mercoledì 21 luglio 2010

Il primo sorpasso degli e-book su Amazon la carta resta dietro

[La Repubblica 21/07/2010] È IL PRIMO esempio di sorpasso compiuto dagli e-book sui libri di carta. Amazon ha annunciato che negli ultimi tre mesi ha venduti più libri digitali (e-book) che cartacei "hardcover", in un rapporto di 143 a 100. E nell'ultimo mese il rapporto è salito ancora: per ogni 100 hardcover ci sono stati 180 e-book. Gli hardcover sono i libri con copertina rilegata, com'è tipico delle prime edizioni. È un indizio secondo cui, per le nuove uscite, gli utenti di Amazon preferiscono la versione e-book. Non solo: Jeff Bezos, il numero uno di Amazon, ha aggiunto che le vendite di e-book sono triplicate nel primo semestre 2010, rispetto allo stesso periodo del 2009.

Il merito è il calo dei prezzi 1
del lettore Kindle, nota Bezos, "è stato il punto di svolta". È la conferma che il fattore prezzo è molto importante per fare uscire i libri digitali dalla nicchia e spingerli sul mercato di massa. Ci sono già e-book reader a 150 dollari e in Italia la fascia di prezzo di molti nuovi modelli sarà intorno ai 200 euro in autunno.

"L'annuncio di Amazon è di certo importante, ma bisogna metterlo nel gusto contesto", dice a Repubblica.it Cristina Mussinelli, esperta di ebook e il solo rappresentante europeo nel board di Idpf, il principale osservatorio internazionale dell'editoria digitale. È vero che Amazon è il principale negozio e-commerce al mondo e quindi il suo annuncio ha un certo peso, "ma i suoi utenti sono comunque più evoluti della media dei lettori di libri. È ancora presto per prevedere quando ci sarà definitivamente il sorpasso dell'e-book sul cartaceo nelle vendite complessive". Il mercato è agli albori, soprattutto in Europa. Prova ne è che "ancora nessuno ha stime affidabili degli e-book venduti nel mondo. Anche per l'Europa ci sono difficoltà di misurazione, poiché i vari Paesi membri conteggiano le vendite in modo diverso". Negli Usa, il mercato valeva 91 milioni di dollari nel primo trimestre 2010 e 56,7 milioni ad aprile-maggio, secondo Idpf. Nel 2010 le vendite saranno pari al 5 per cento del mercato dei libri. L'Italia è molto lontana da queste cifre, "anche se abbastanza in linea con il resto dell'Europa", nota Mussinelli.

Secondo Aie (Associazione italiana editori), nel 2010 le vendite e-book saranno pari a 3,4 milioni di euro, pari allo 0,1 per cento del mercato del libro. Entro fine anno, 2 titoli su 100 pubblicati saranno e-book (ce ne saranno circa 8 mila tra novità e di catalogo): una forte crescita rispetto allo 0,7 per cento di giugno 2009. "A giudicare da quanto si legge e dal modo in cui si cominciano a raccontare le cose, non c'è dubbio che ormai negli Usa l'accettazione culturale degli e-book sia a buon punto. Resta da vedere quanto sarà rapida in Europa", ha commentato Giuseppe Granieri, guru di nuove tecnologie ed e-book.

Un momento di accelerazione è previsto per l'autunno, in Italia, visto che stanno per arrivare i primi titoli dei principali tre poli di distribuzione e-book in Italia: Bol.it (Mondadori), Edigita e BookRepublic (di Digitpub).
Un passo avanti del mercato europeo potrebbe venire con il taglio dell'Iva, dall'attuale 20 per cento al 4 per cento (cioè la stessa quota che si applica ai libri cartacei). È quanto sostiene una campagna lanciata oggi da Key4Biz, in occasione del lancio del sito ebook. it, per la promozione e la diffusione del libro elettronico. Vi hanno aderito per il Pd il senatore Vincenzo Vita e il responsabile comunicazioni Paolo Gentiloni. L'Iva è fissata dalle istituzioni europee. A queste si rivolge quindi la campagna.

di ALESSANDRO LONGO

martedì 20 luglio 2010

Quegli adolescenti a cui internet prende la mano

[Apogeonline 20/07/2010]di Giovanni Boccia Artieri

Il caso emblematico di Jessi Slaughter, undicenne americana che ha bruciato le tappe su YouTube, imparando a sue spese il bello e il meno bello della rete

Jessi si è trovata a 11 anni a diventare nei giorni scorsi una delle voci più ricercate su Internet tanto da entrare nella Google Trend. Come? Basta avere un bagaglio di improperi fantasiosi e caustici da scagliare in rete su YouTube contro persone famose e commentare comportamenti sessuali e ogni altra cosa vi venga in mente attraverso videoriprese dalla propria cameretta. È così che Kerligirl13, ribattezzata ironicamente Jessi Slaughter per la sua capacità di fare a pezzi con le parole, si è guadagnata la ribalta di internet. Inutile la cerchiate, il suo account è stato chiuso velocemente. L’ascesa della sua notorietà è concisa con un suo tracollo emotivo e (forse) la presa di coscienza da parte dei genitori che occorre essere consapevoli del modo in cui i propri figli abitano la rete.

Ma la morale di questa storia non deve essere tutta concentrata nell’additare oltraggiosi comportamenti adolescenziali online generalizzandoli, né deve concentrarsi solo sulle carenze del sistema educativo della famiglia, o cose del genere. Mutatis mutandis non ci troviamo di fronte a niente di nuovo in termini comportamentali rispetto a quanto spesso sentiamo raccontare e vediamo accadere nella realtà fuori dalla rete. Questa storia può aiutarci però a capire la natura specifica del modo in cui alcuni adolescenti, in quanto “adolescenti” e approcciandosi ai linguaggi digitali, abitano la Rete e i rischi connessi.

Senza mediazione

La storia di Kerligirl13/Jessi Slaughter è solo il punto di arrivo di un fenomeno che rappresenta una forma latente ma ben presente nelle possibilità di utilizzo della rete da parte di adolescenti che si sovraespongono senza mediazione, eccedendo nei comportamenti online e creando un’escalation emotiva che coincide da una parte con una base di fan costituita dalla nuova generazione di utenti Internet e dall’altra con il numero di persone che si contrappone ad essi in qualità di haters.

Si tratta di fenomeni di microcelebrity fondati sulla natura many-to-many del web di cui le camgirl hanno rappresentato l’idealtipo in chiave voyeuristica, ma che oggi accende una miscela esplosiva fatta di intrattenimento adolescenziale e l’utilizzo (in)consapevole di una forma di comunicazione che sovraespone. Se le celebrità, intese tradizionalmente, fondavano la loro natura sulla distanza e sulla separatezza dal proprio pubblico, le micro-celebrità la fondano sulla vicinanza e la responsabilità diretta per i propri comportamenti che trovano un feedback immediato da parte delle loro audience sotto forma di commenti al proprio blog, di contro post, di video di risposta eccetera. Si passa dalla massima di Andy Warhol per cui ognuno di noi avrà i suoi 15 minuti di celebrità a quella per cui nel futuro saremo tutti famosi per 15 persone.

La folla di fronte

È certamente vero che stiamo imparando a vivere di fronte a una folla, ma il livello e la profondità di notorietà, e quindi la nostra sovraesposizione, non è controllabile. Una delle proprietà della connessione di Rete, si sa, è la scalabilità: improvvisamente non abbiamo più a che fare con il nostro gruppo di microfan, conosciuto e inconoscibile allo stesso tempo, ma che percepiamo come concretamente connesso a noi (perché abbiamo imparato a gestire i loro commenti, a riconoscere i toni, gli umori, gli eccessi così come gli entusiasmi). Improvvisamente non si tratta più di una cerchia ristretta, per quanto allargata, ma la nostra notorietà diventa mainstream.

Saltano quindi le regole attorno cui abbiamo costruito le nostre forme di comunicazione da adolescenti, quella logica mista tra intrattenimento e passione per il flaming online che poi impareremo a gestire e trattare meglio con la maturità digitale (non vale per tutti, basta farsi un giro nei siti di social network per trovare annidati nei commenti professionisti del trolling). Capita così che, da adolescenti come Jessi, vi facciate prendere la mano e postiate un video per affrontare a muso duro i vostri hater dicendo cose del tipo: «If you can’t stop hating, you know what? I’ll pop a glock in your mouth and make a brain slushy».

Identità svelata

Sarebbe quasi da riderci sopra se Jessi non si trovasse, a causa della sua micro-celebrità e dell’esposizione dei suoi contenuti online, improvvisamente invischiata in un’azione di trolling su 4Chan, uno dei 5 bullettin boards più letti del pianeta Rete, che la inchioda al muro della notorietà mettendo in piazza una sua prima-dichiarata-poi-smentita relazione con il cantante di venticinque anni Dahvie Vanity di una oscura electro-pop MySpace band Blood on the Dance Floor – un resoconto lo trovate sia su Gawker che su Sticky Drama – con messa in pubblico del suo vero nome, luogo di residenza, numero telefonico e link per cercarla sui social network. Il relativo anonimato della micro celebrità celato dietro il nick name di Kerligirl13 viene a crollare e cominciano a svilupparsi una serie di “scherzi” anche pesanti nei suoi confronti – telefonate, minacce via email eccetera: un racconto dettagliato lo trovate su Encyclopedia Dramatica.

Potete guardare il video conclusivo della vicenda in cui una Jessi Slaughter in lacrime dice che la sua vita è rovinata ed il padre compare in video per minacciare i suoi detrattori di azioni legali, difendendo la figlia con un tasso di aggressività che rasenta il ridicolo. Tanto che alcuni commentano: «Seems to me that his instinct to “protect” his daughter, while admirable, is firing off in the wrong direction. Want to protect her? Try not letting her have a computer with webcam in her room». La vuoi proteggere? Metti il computer in salotto.

Tracollo pubblico

La difficoltà di avere un controllo sulla propria esperienza online per un adolescente – ma non solo per lui – porta a sviluppare forme di escalation comunicativa che arrivano, come abbiamo visto, fino al tracollo emotivo. Tracollo che avviene sempre in pubblico. È anche questo un elemento interessante nella storia di Jessi: anche il momento di massima caduta viene trattato nella logica di micro-celebrity ed è capace di generare, basta leggersi i molti commenti in giro, una distinzione netta tra fan e denigratori: «Funny how some are quick to point out their responsibility. What about yours guys?» oppure «Let’s not get all high and mighty here, folks. “Daddy, I did something incredibly stupid because of a lack of parental involvement!” “WHAT?!?! I’ll kill ‘em! It’s not your fault, punkin, those evil internet people are to blame!».

Ah, se mai a qualcuno venisse in mente che si tratti solo di un fenomeno relativo agli adolescenti americani basta che vi guardiate i video della micro-celebrity nostrana Gemma del Sud e cerchiate in rete le reazioni.

Google si rafforza nel web semantico

[Il Sole 24ore 20/07/2010]
MILANO - Google ha acquistato Metaweb, società specializzata nella catalogazione e archiviazione delle ricerche sulle pagine web e il loro significato. Con l'acquisizione, segnalata sul blog di Google con un post del suo direttore prodotti Jack Menzel, la società californiana intende aumentare il suo vantaggio competitivo nel core business dell'azienda, vale a dire le ricerche web, delle quali detiene quasi il 75% del mercato.


Metaweb è stata acquisita per una somma non specificata. L'azienda, con sede a San Francisco, è stata fondata nel 2005 da Danny Hillis e Robert Cook, coppia di fuoriusciti da Applied Minds. Metaweb ha avuto due round di finanziamenti da parte di venture capitalist: nel 2006 per 15 milioni di dollari e ancora nel 2008 per 42,5 milioni. Il suo unico prodotto è "Freebase", un archivio costruito in maniera aperta e collaborativa da volontari sulla rete (ma strutturato secondo rigorosi criteri sviluppati dai ricercatori di Metaweb) e che contiene oltre 12 milioni di singole informazioni. Tim O'Reilly, uno dei principali osservatori degli sviluppi economici e sociali della tecnologia, ha definito Freebase «il ponte ideale fra l'approccio dal basso dell'intelligenza collettiva caratteristico del web 2.0 e quello più strutturato che è invece proprio del web semantico».

Proprio questo è il campo di azione di Metaweb che interessava a Google: il web semantico. I motori di ricerca solitamente rispondono alle domande dei loro utenti cercando di far collimare le parole contenute nella ricerca con le parole chiave raccolte indicizzando in maniera automatica il web e ordinando i risultati in base alla loro popolarità. In questo modo, però, non è possibile rivolgere ai motori di ricerca delle domande che richiedano la comprensione del significato della domanda stessa da parte del motore di ricerca. Si cercano ad esempio informazioni su Boston intesa come città (e negli Usa ce ne sono ben 26) o come gruppo rock?

Il web semantico ha invece l'obiettivo di organizzare le parole-chiave per gruppi, definendone il senso e permettendo così di riorganizzare le pagine web sulla base del loro significato e quindi di trovare risultati più aderenti alla realtà. La principale difficoltà nel costruire gli enormi archivi di parole, legate fra loro con complessi rapporti basati sulle sfumature del senso a seconda del contesto, è il tempo e il dispendio di energie necessario.
Metaweb ha risolto brillantemente il problema creando una struttura tecnologica di base, sistematizzando i principi sui quali organizzare le parole e lasciando poi al lavoro dei volontari della rete di trovare e schedare milioni di termini. Il lavoro fatto da Metaweb e dai suoi volontari si contrappone a quello di analoghe iniziative commerciali o non profit che da tempo stanno cercando di schedare tutte le parole utilizzate in rete.

Google ha annunciato che non intende "privatizzare" l'archivio Freebase di Metaweb, anche se sicuramente verrà messo in contatto con l'analogo esperimento Google Squared creato nel 2009 dall'azienda di Mountain View, ma che anzi intende tenerlo aperto e lasciare così che possa continuare ad essere arricchito da volontari in tutto il mondo e che possa essere utilizzato anche da altri oltre che contribuire direttamente l'azienda stessa. Attualmente fra i 12 milioni di parole schedate su Freebase compaiono centinaia di migliaia di nomi di film, di libri, di show televisivi, di personaggi famosi, di località geografiche, di aziende e di decine di altre categorie che contribuiscono a creare ambiguità nelle ricerche effettuate sulle pagine web. «Siamo convinti – scrive sul blog dell'azienda Jack Menzel – che migliorando Freebase diventerà una risorsa ancor più potente per rendere l'esperienza del web migliore per tutti. E, nella misura in cui il web diventa un posto migliore, questo è meglio per tutti, utenti e creatori di pagine web».

"Noi, afgane al tempo dei Taliban" in un blog paura e speranze delle afgane

[La Repubblica.it 20/07/2010] "LA provincia dove vivo, a sud di Kabul, è piena di Taliban. I miei cugini sono stati uccisi due giorni fa perché lavoravano per il governo. Nessuno ha detto nulla. Tutti gli uomini hanno la barba. I matrimoni sono silenziosi, perché abbiamo paura di mettere la musica. Vado a lavoro e mio padre mi rimprovera perché dice che sto rischiando troppo. Dite che volete aiutarmi, ma non potete farlo, perché solo io sono qui. Vedo le mucche dalla finestra: loro vanno fuori, io non posso. Se lo facessi i Taliban mi ucciderebbero. E nessuno si chiederebbe perché". L'autrice di questo messaggio 1è una donna che ha scelto di restare anonima: firmarlo equivarrebbe a condannarsi a morte. La speranza di chi ha raccolto e messo in Rete le sue parole è che arrivino alle orecchie dei rappresentanti di 65 nazioni che oggi, in una Kabul blindata, si riuniranno per discutere ancora una volta del futuro dell'Afghanistan.

L'anonima è una della trentina di donne impegnate da più di un anno in un esperimento senza precedenti: Afghan Women Writing Project 2 (AWWP) è un progetto iniziato nel 2009 dalla scrittrice americana Masha Hamilton. Con l'aiuto di conoscenti impegnate nella cooperazione, Hamilton è riuscita a convincere un gruppo di afgane a scrivere i loro pensieri e - grazie al sostegno tecnico suo e di alcune sue colleghe - a mandarli in Rete. In pochi mesi i contributi sono cresciuti in maniera esponenziale: AWWP è diventato uno squarcio aperto su un mondo altrimenti inaccessibile, quello delle donne dell'Afghanistan. Sul sito non ci sono le attiviste o le giornaliste che, seppur con difficoltà, da Kabul riescono a far uscire la loro voce. Ma le abitanti della provincia, le madri preoccupate, le maestre che vedono bruciare le loro scuole 3e le studentesse timorose che, da un giorno all'altro, la famiglia le costringa a sposarsi e a interrompere gli studi. L'Afghanistan reale insomma, quello che, se non fosse per Internet, con difficoltà riuscirebbe ad arrivare nelle sale ultra-blindate dove i grandi del mondo discutono del suo futuro.

A parole, l'incontro di oggi promette di essere diverso dai nove (in nove anni) che lo hanno preceduto: per la prima volta il presidente Hamid Karzai sarà chiamato a tracciare le linee per smarcarsi, entro tre anni, dalla dipendenza militare ed economica dai paesi donatori. Ma i dubbi sulla sua reale efficacia sono molti: associazioni non governative come Oxfam 4 e Human Rights Watch 5 hanno invitato i delegati ad abbandonare i calcoli politici e dare finalmente priorità alle richieste degli afgani e, soprattutto, delle afgane. Sono loro, ancora una volta, il settore più a rischio in questo momento. Nelle cancellerie così come negli uffici delle ong si teme apertamente che la riconciliazione con i Taliban voluta da Karzai possa avvenire sulla loro pelle: che per salvarsi dal fallimento dietro l'angolo, il presidente sia pronto a sacrificare i diritti delle sue connazionali. I timori paiono confermati dalla conferenza di oggi: benché il segretario di Stato Hillary Clinton abbia voluto ad ogni costo inserire nella sua agenda un incontro con un gruppo femminile, la presenza delle donne fra i delegati sarà minima. E, nelle parole dell'attivista Soraya Pakzad, "del tutto simbolica".

Un fatto che genera rabbia fra le donne di AWWP: "Non mi fido di quelli che dicono di sostenere i diritti delle donne in Afghanistan - scriveva qualche settimana fa Roya 6- Come potrei? In questi anni hanno forse fatto fiorire un bocciolo, ma non hanno portato la primavera. Lasciate pure che restino chiusi nei loro uffici a preoccuparsi dei loro stipendi: ma non ditemi che si preoccupano dei nostri diritti". "I nostri governanti devono smetterla di comprare ville a Dubai e cominciare a pensare a noi - le fa eco Elay 7 - a quelle ragazze che scappano di casa rischiando di essere uccise, perché in famiglia nessuno le tratta come esseri umani. Se accadesse alle vostre sorelle, figlie, madri, mogli: cosa fareste? Le ragazze sono il futuro di questo paese, dobbiamo dare loro diritti e possibilità, trattarle come esseri umani. Fate qualcosa". Parole dure, reali, prive di fronzoli diplomatici: se riuscissero ad arrivare alle orecchie dei delegati sarebbe già un successo.
di FRANCESCA CAFERRI

lunedì 19 luglio 2010

Watergate 2.0

[La Stampa.it 19/07/2010]
Una maxi-inchiesta del Washington Post sui segreti d'America dimostra che il giornalismo investigativo non è morto: si sta solo aggiornando
Se Carl Bernstein e Bob Woodward realizzassero oggi la loro celebre inchiesta sui segreti di Nixon, passata alla storia come scandalo Watergate, come la presenterebbe il Washington Post? Credo che sarebbe qualcosa di molto simile a Top Secret America, la maxi-inchiesta probabilmente da Pulitzer che il quotidiano della capitale statunitense ha lanciato oggi - con grande enfasi - contemporaneamente sulla versione cartacea, sul web, su Twitter e su Facebook.

Due anni di lavoro di una squadra di reporter investigativi guidati da Dana Priest e William Arkin (i Bernstein/Woodward dei nostri giorni) hanno portato il Washington Post a ricostruire nei minimi dettagli l’universo parallelo creato dal governo federale in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001: una rete così vasta, mal organizzata e segreta che nessuno sa quanto costi, quanta gente ci lavori, quanti programmi esistano o quante agenzie facciano lo stesso lavoro. I numeri sono da capogiro. Ogni giorno 854 mila persone (funzionari civili, militari, contractors privati), pari a una volta e mezzo la popolazione di Washington, si mettono al lavoro per qualcuna delle strutture di Top Secret America: 1.271 agenzie del governo e 1.931 società private che lavorano su programmi legati all’anti-terrorismo, la sicurezza nazionale e l’intelligence in circa 10 mila località d’America.

Sul giornale di carta per ora è uscita la prima di tre puntate, e ha subito scatenato un putiferio a Washington. In attesa delle prossime, è interessante navigare il sito speciale di Top Secret America. Provateci, visitando le varie sezioni, girando dentro i database e gli intrecci tra agenzie investigative, grandi aziende e politica.

La sensazione che ne ho ricavato io è di un lavoro che dimostra come il giornalismo investigativo sia tutt'altro che in crisi, nell'epoca del web 2.0: anzi, la multimedialità lo rende assai più interessante e incisivo. Ad essere in crisi sono i giornali e il modello di business che li sostiene. Inchieste come questa costano care, e non è chiaro per quanto tempo ancora le grandi testate potranno permettersele. A giudicare dai risultati, speriamo a lungo.

di Marco Bardazzi

Chris Anderson : «Cosa vuole la generazione iPad»

[Corriere della Sera 19/07/2010]

MILANO - «Il futuro è già qui, è solo mal distribuito» dice William Gibson, che di lavoro fa lo scrittore di fantascienza. Il problema (o la fortuna) è che questa stessa frase la usa per spiegare cosa sta accadendo nel mondo dell’informazione anche Chris Anderson, che di lavoro fa il direttore di Wired, la rivista californiana conosciuta come la «Bibbia di Internet». Quello che serve all’editoria (e non solo) è capire come distribuire meglio questo futuro presente: informazione gratuita, bilanci da far quadrare, rivoluzione iPad, social media e community, aumenti di lettori e calo di vendite.

«La gente ha sempre paura del cambiamento — dice Anderson a CorriereTv in occasione del suo viaggio in Italia per Reply XChange 2010, evento sulle nuove tecnologie organizzato da Reply all’Università Bocconi di Milano —. La tecnologia digitale distrugge i settori prima di crearne altri, ma offre anche molte più opportunità. Tempi difficili e entusiasmanti».

In termini economici come possono i media gestire la rivoluzione digitale?
«I media sopravvivono grazie alla formula di sovvenzione pubblicitaria. In quella online non ci sono abbastanza soldi per indennizzare le perdite dei media tradizionali. Si sta migrando verso un nuovo modello di business, il : l’uso di prodotti gratuiti per commercializzare quelli a pagamento. L’aumento di pay wall (varchi di accesso a pagamento e applicazioni per iPad non rappresentano un rifiuto del concetto di gratuito, quanto di gratuito e sponsorizzato dalla pubblicità. Alla scadenza del periodo una parte del contenuto resta gratis e una parte va a pagamento, per i lettori più fedeli. L’esempio del online è semplice: 10 storie al mese gratis, il resto lo paghi. Se lo visiti molto è chiaro che lo apprezzi e sei disposto a pagare. Diventa possibile generare un introito diretto dai clienti, anziché indiretto tramite gli inserzionisti. Non è chiaro ancora con quale equilibri avverrà la divisione tra gratis e a pagamento, con quali meccanismi e a che prezzi; credo però che questa soluzione possa funzionare per testate di spicco, non per tutte».

I nuovi media fanno aumentare i lettori ma le entrate delle aziende editoriali sono in calo. Cosa si può fare?
«Il web sa far bene tante cose: è perfetto per potenziare la versione cartacea con contenuto a maggior frequenza e interazione. Il modello di business non si è rivelato però altrettanto redditizio di quello dei media tradizionali per una semplice questione economica: non c'è carenza. C'è invece competizione infinita. È essenziale che i media abbiano un sito web. Ma è bello sapere che non si tratta dell’unico modello di distribuzione. L'avvento di media complessi, come l’iPhone o l’iPad, rappresenta un modo per prendere il meglio della distribuzione digitale, come il basso costo e l'ampia raggiungibilità, insieme a un modello economico che verte molto di più attorno alle qualità diversificate di un contenuto articolato ed elevato».

Quale sarà l’impatto dell’iPad nell’editoria?
« Molto grande. È la terza grande piattaforma informatica: pc, cellulare e ora il tablet. È un dispositivo molto diverso: tattile, esperienza quasi sensuale, con applicazioni "immersive". In più l’iPad è personale: dà sensazione più di intrattenimento che di lavoro. Noi scommettiamo che se ne venderanno decine di milioni; che la gente vorrà leggere i media su questi dispositivi e che sarà disposta a pagare. Non tutti, ma una quantità sufficiente di lettori».

Sarebbe una bella scommessa vinta.
«Per ora è così. In Usa l’iPad ha un successo enorme. è stato uno dei primi a lanciare la rivista su iPad: la gente ha pagato 5 dollari, abbiamo venduto 100mila copie il primo mese».

Ma pagano per un prodotto diverso?
«La domanda infatti è: che cos’è una rivista su iPad? Quando converti un giornale dalla stampa al tablet alcune cose restano uguali, come le parole o le foto, altre sono molto diverse: video, interattività, animazione, alternativa di visualizzazione, . Siamo agli inizi per quel che riguarda la sfida creativa di re-immaginare un giornale con questo nuovo modello di distribuzione e interazione».

Lei non è direttore della versione web di Wired ma di quella cartacea e su iPad: perché?
«La versione su iPad ha origine da quella cartacea. Noi non l’abbiamo appaltata ad altri team, ma creata in parallelo. I nostri designer, fotografi e scrittori sviluppano tre edizioni contemporaneamente: cartacea, portrait e landscape. Raccontiamo storie in una maniera nuova. La versione cartacea è incredibilmente efficace: io preferisco i libri su carta. Ma amo anche l’iPad. Fin quando la versione di carta porterà dei valori sarà richiesta da una parte del nostro pubblico. Forse non dai nuovi lettori. Io continuerò a promuovere entrambe le versioni».

Lei si sente un giornalista?
«Oggi il direttore di una rivista diventa un manager. Il mio bigliettino da visita dice "Direttore", ma se imiei figli seguissero imiei passi, sui loro ci sarebbe scritto "Community Manager". Al contempo, il mio mestiere consiste nel fare il produttore multimediale. Siamo dei brand manager, ma senza scordarci di fare i direttori».

Essere un community manager è la nuova qualità del giornalista?
«L’editoria avrà bisogno di una nuova classe di professionisti con forti capacità di ascolto, guida, gratificazione e punizione: qualità necessarie per tenere insieme community e non tradizionalmente giornalistiche».

Tra dieci anni i ragazzi leggeranno i quotidiani?
«Non come oggi. Ne leggeranno svariati, probabilmente su dispositivi complessi. E i quotidiani potrebbero essere più simili a riviste giornaliere che non a notiziari. Per riuscire a fare, in 12 ore, qualcosa che il web non abbia già fatto. Anziché avere 30 giornalisti che seguono una storia, meglio 30 che trovano le proprie storie. I nostri figli avranno di sicuro un rapporto coi quotidiani: forse non cartacei, ma l'istituzione, la testata che dà autorevolezza, resterà e fornirà valore».

Iacopo Gori

venerdì 16 luglio 2010

Fenomeno Foursquare

[L'Espresso 16/07/2010]Ad esempio: "In questo bar fanno un ottimo caffè. E c'è uno sconto per i clienti più fedeli". Oppure: "I tumulti tra manifestanti e polizia sono arrivati fino a qui, attenzione". O ancora: "Sono entrato in un negozietto con prodotti etici ed ecologici. Da evitare invece quello di fronte: ha solo cosmetici sperimentati sugli animali".

Sono messaggi che raccontano un nuovo modo di usare il cellulare e di abitare la città. Qualsiasi utente può lasciarli, visibili a tutti o solo ai propri amici. Basta scriverli dal posto dove ci si trova, usando un servizio ad hoc: una specie di social network fatto apposta per l'uso in mobilità. È il fenomeno del geo-tagging, che significa qualcosa come "dare un'etichetta a un luogo".
E' l'ultima moda del Web. Si basa su cellulari con Gps, che ormai sono comuni. Ce ne sono 5 milioni in Italia. Ed è un fenomeno con molte facce, tanto che sta già attirando l'attenzione di sociologi, grandi marchi, esperti di marketing e comunicazione. Oltre a big del settore Internet e telefonico, ovviamente: ci stanno puntando Google, Yahoo! e Nokia, tra gli altri.

L'epicentro di questa tendenza si chiama Foursquare, servizio che ormai sta diventando sinonimo di geotagging. A metà luglio ha raggiunto i due milioni di utenti attivi nel mondo, mentre a marzo erano solo 500 mila. Pochi giorni fa, la Andreesen-Horowitz vi ha investito 20 milioni di dollari, portando la valutazione di Foursquare a circa 100 milioni di dollari. L'idea di creare Foursquare è venuta a due ragazzi, Dennis Crowley e Naveen Selvadurai, un americano e un londinese.

Dennis è stato inserito dal Mit (Massachussets institute of technology) nella lista dei principali 35 innovatori con meno di 35 anni: un bel salto per questo ragazzo nato in una sperduta cittadina del Massachussets, Medway, con meno di 13 mila abitanti. Adesso è corteggiato da molti big del Web, tra cui Facebook e da Yahoo!: hanno cercato di comprare la sua Foursquare, ma per ora hanno ricevuto solo rifiuti.

Crowley infatti ha capito che il fenomeno è solo agli inizi. Perché Foursquare da una parte rispecchia nuove esigenze di business e di socializzazione, dall'altra è molto semplice da usare. Basta installare il software sul cellulare, arrivare in un posto e poi scrivere un messaggio. Così otteniamo due risultati: creiamo una mappa delle nostre frequentazioni e condividiamo con gli amici informazioni o consigli sui nostri posti preferiti (o detestati).
"In questo modo funzionano molti servizi simili a Foursquare, che però ha aggiunto un aspetto molto interessante", spiega Thomas Husson, analista di Forrester Research. "Gli utenti che collezionano molti ingressi in un certo posto ricevono un distintivo, che appare su Foursquare. Sono insomma riconosciuti come clienti fedeli, il che apre grosse opportunità di business e di marketing", aggiunge. Il locale o uno sponsor può fare offerte, sconti o mandare pubblicità mirate all'utente, per esempio.

Spiega Edoardo Fleischner, docente di Nuovi Media all'università Statale di Milano. "Ormai lo scopo delle aziende è avere non solo semplici clienti, ma fan del proprio marchio: persone che vi si identifichino. Con Foursquare per la prima volta possono misurare in modo preciso questa fedeltà, grazie alla partecipazione e a un contatto reale con lo stesso utente. È uno strumento di marketing eccezionale".Tra quelli che hanno fatto accordi con i servizi di geolocalizzazione, per campagne mirate, ci sono Starbucks, Mtv, Hbo, Condé Nast. I ricavi di questi servizi saranno 420 milioni di dollari in Europa, nel 2015, contro i 220 milioni del 2009, secondo Berg Insight.

Un boom che riguarda anche l'Italia, come conferma Monica Fabris, sociologa e presidente dell'istituto di ricerca Gpf (fondato da Gian Paolo Fabris), che ha un osservatorio permanente sui social network: "Foursquare piace perché sposa due cose che piacciono agli italiani: mobilità e socializzazione. E poi simbolizza la nuova fase del Web 2.0: la contaminazione tra reale e virtuale. La socializzazione on line entra nella vita reale. Le due dimensioni della persona si ricompongono".
di Alessandro Longo

Google, secondo trimestre con il segno più, ma delude le attese

[Affari Italiani.it 16/07/2010]Android, la pubblicità, gli investimenti nei social network: le continue innovazioni di Google non sono sofficienti e la trimestrale, nonostante il segno più, delude le attese. Mountain View registra un utile netto in aumento del 24% a 1,84 miliardi di dollari contro gli 1,49 miliardi dello stesso periodo dell'anno precedente. Al netto di alcune voci, l'utile per azione si attesta a 6,45 dollari per azione, meno dei 6,52 dollari stimati dagli analisti. I ricavi sono risultati pari a 5,09 miliardi di dollari.

Il titolo risente della delusione del mercato e scende nelle contrattazioni after hours, dove arriva a cedere oltre 20 dollari a 473,69 dollari a fronte dei 494,02 dollari della chiusura di Wall Street. Dall'inizio dell'anno le azioni Google sono in calo del 20%. A pesare sui conti di Google sono le spese, cresciute nel trimestre del 22% a 4,46 miliardi di dollari. Per mantenere il passo con i siti di social network come Facebook e non perdere terreno nei confronti di Apple, rivale nel software e nella pubblicità per cellulari, Google ha rafforzato gli sforzi nel perseguire la propria politica di acquisizioni. «Abbiamo avuto un trimestre solido, con una forte crescita nelle nuove attività. Abbiamo fiducia nel futuro e prevediamo di continuare a investire in modo aggressivo nelle attività core di interesse strategico» afferma l'amministratore delegato Eric Schimdt. Al 30 giugno Google vanta liquidità per 30,1 miliardi di dollari, in crescita rispetto ai 26,5 miliardi al 31 marzo 2010. Nell'illustrare i risultati del trimestre, Google si dice soddisfatta delle performance di Youtube, la cui «crescita è impressionante». Soddisfazioni anche sul fronte di Android, che ora ha circa 70.000 applicazioni: al momento - precisa Google - attiviamo in media 160.000 Android al giorno. Una notizia, questa, che arriva proprio mentre Apple sembra incontrare difficoltà nella telefonia mobile e ha convocato per oggi una conferenza stampa sull'iPhone 4. Nessun richiamo dello smartphone - secondo indiscrezioni - è atteso nonostante le critiche giunte da Consumer Reports, che non lo raccomanda per i problemi di ricezione.

mercoledì 14 luglio 2010

Pentagono: istruzioni per l’uso dei social network

[Corriere della Sera 14/07/2010] MILANO – Non diffondere informazioni riservate, distinguere sempre con scrupolo tra comunicazioni private e pubbliche e, soprattutto, non dare confidenza agli sconosciuti: queste sono solo alcune delle raccomandazioni che il Pentagono diffonde nella più recente guida con tanto di glossario tecnico, dall’inequivocabile titolo: Using social media (Utilizzando i social media), in cui emergono con chiarezza le inedite simpatie del quartier generale della difesa statunitense per gli strumenti del web 2.0 e in cui viene data la definitiva approvazione all’utilizzo di questi siti dai computer dell’ufficio. L’embargo sui social media non ha più ragione d’esistere e i pericoli di violazione del segreto militare o di comunicazioni geografiche inopportune non giustificano il precedente atteggiamento bacchettone del Pentagono, a fronte di un’innegabile utilità delle piattaforme in questione.

ANALISI COSTI-BENEFICI - Dopo tanta diffidenza e un’esplicita campagna di disincentivazione dei soldati rispetto a blog e YouTube, l’apertura dei vertici della difesa è ormai conclamata. Nei mesi scorsi c’era già stato un precedente in questa direzione e un documento ufficiale rivelava una timida apertura verso l’uso di questi strumenti. Ma ora il via libera del Pentagono a Facebook per i soldati americani rappresenta una svolta certa e decisamente più esplicita. Nell’analisi costi-benefici i primi sono risultati vistosamente inferiori rispetto ai secondi: i pregi della comunicazione strategica, capillare ed efficiente che Facebook e Twitter consentono e l’appagamento delle truppe sul piano delle relazioni sociali e famigliari sono enormemente superiori ai rischi associati a un uso improprio della rete. Del resto ormai anche le spie hanno il profilo su Facebook, come dimostra la recente vicenda di Anna Chapman, e la lista di alte cariche politiche che cinguettano e aggiornano il proprio status è lunghissima.

LA LINEA PRECEDENTE – L’atteggiamento del dipartimento di Difesa americano fino a poco tempo fa veniva definito proibizionista in tema di internet e blogosfera. Da una parte c’erano l’esigenza di proteggere i soldati e i problemi tecnici legati alla banda larga, dall’altra parte, come notavano malignamente alcuni (come Electronic Frontier Foundation), poteva esserci un fondato timore di esternazioni poco lusinghiere sulle discusse missioni in Iraq e Afghanistan.

NEL FUTURO - Le truppe americane, e in generale i dipendenti del dipartimento della Difesa, potranno dunque utilizzare i siti di social network, sia per uso personale che per uso pubblico, con qualche cautela in più e senza mai perdere d’occhio le istruzioni per l’uso. Ma in questa apertura va registrato che non tutte le agenzie federali hanno le stesse regole: il Pentagono per esempio consente ai propri dipendenti il libero accesso ai siti web e ai social network, a eccezione dei siti pornografici e di gioco d’azzardo, ma non dispone ancora di un proprio profilo. Diversamente c’è chi, come il dipartimento della Sicurezza interna degli Stati Uniti, ha una pagina Facebook, ma vieta ai dipendenti, in modo contraddittorio, di accedervi dall’ufficio. Michelle Barrett, che ha curato il report ufficiale del Pentagono sull’uso responsabile della rete e dei suoi strumenti, fa notare come sia necessaria un’opera di armonizzazione delle regole all’interno dell’esercito, tenendo ben presente quanto siano preziosi i social network: «I media sociali regalano ai soldati americani l’opportunità e la capacità di raccontare la propria storia e al tempo stesso minano la credibilità dei nemici e inibiscono la possibilità di distorcere la verità».

Emanuela Di Pasqua

Geosocial network o mobile 2.0?

[RFID italia 14/07/2010]

Mobile, Gps, social network: la convergenza tecnologica è già un modello e si chiama geo-social network. Un mercato che, secondo gli analisti di Juniper Research, varrà 12,7 miliardi di dollari entro il 2014.

Questo perché il nuovo modello di sviluppo raccoglie tutti gli utenti di smartphone, iPhone e cellulari di ultima generazione, unendo il gioco al business, trasformando la user experience degli internauti.
E così, a dispetto delle cassandre che avevano pronosticato una vita da dissociati per tutti gli appassionati del Web, chiamato popolo di Interdet o di vidioti, oggi si sta profilando una modalità di interazione che, proprio grazie al social network e alle tecnologie di georeferenziazione (o geolocalizzazione), satellitare o Wi-Fi, sta dando vita a un nuovo trend che dal virtuale riporta i contatti nel mondo fisico.

Secondo gli osservatori, si sta infatti passando dal "cosa stai pensando?" di Facebook al "cosa succede?" di Twitter per arrivare al "dove ti trovi ora?" di applicazioni come Yelp, Gowalla o FourSquare (che conta oggi più di un milione e mezzo di utenti nel mondo e sta crescendo di circa 15mila unità al giorno).

Il meccanismo di funzionamento è semplice e triangola l’utilizzo di un qualsiasi smartphone con l’uso del Gps e di un processo di identificazione.

Per Flickr, Yahoo, proprietaria dal 2005 della piattaforma di condivisione delle foto, è stata di recente rinnovata l'interfaccia con nuove funzionzionalità ma, soprattutto, con una nuova modalità di interazione integrata al Gps. Quando un utente inserisce i dati della foto, dove e quando è stata scattata, per esempio in automatico tramite cellulare, viene creata una mappa sulla parte destra della pagina che visualizza il punto esatto dove la foto è stata scattata, con quale macchina e persino quale lente è stata usata.
“Abbiamo sempre avuto i dati di localizzazione – Matthew Rothenberg, a capo della piattaforma - ha spiegato e li abbiamo sempre considerati importanti, ma soltanto ora stiamo provando a renderli preminenti. Più semplicemente vogliamo raccontare l’intera storia di una immagine ed eventualmente integrare Flickr ad altri servizi basati sulla geolocalizzazione”.

Twitter Places è il nuovo servizio di geolocalizzazione offerto da Twitter e, guarda caso, lanciato proprio durante i mondiali di calcio. La nuova funzione consente di riconoscere in ben 65 paesi la provenienza geografica di ogni tweet ed è accessibile attraverso le interfacce Twitter Web e Twitter's Mobile Web. I tweet sono raggruppati in base alle località dalle quali provengono: una mappa consentirà di visualizzare tutti gli utenti che stanno cinguettando dallo stesso luogo, accrescendo in tal maniera le possibilità di incontro e di aggregazione tra utenti che stanno partecipando al medesimo evento.

Diverso l'utilizzo della geolocalizzazione di Foursquare. L'utente dichiara di stare accedendo in un luogo fisico (in gergo “check-in”), che si tratti di un cinema o di una piazza, di un museo o di un ufficio. I più estrosi possono segnalarsi in metropolitana o in un qualunque altro posto gli venga in mente. A questo puntro scatta il gioco che funziona tramite punteggio: ogni check-in permette di guadagnare punti e chi fa più check-in nello stesso posto, ne divento Sindaco.

Il percorso di gioco su Foursquare prevede inoltre tutta una serie di bonus, costituiti da medagliette virtuali o distintivi, da “sbloccare” durante l'iter. Tutto questo avviene in competizione con le persone che si dichiara di conoscere e a cui si permette di sapere dove ci si trova. Ogni settimana la classifica comparativa con gli amici si azzera e la sfida ricomincia.

Il fenomeno sta creando proseliti e il 17 luglio si terrà la prima riunione dei sindaci italiani di FourSquare. Che si sono dati appuntamento per iniziare a discutere delle potenzialità legate a questa nuova piattaforma.

Le domande che fanno parte della tavola rotonda che si sta organizzando sono le seguenti:

- Quali sono le potenzialità in chiave marketing?

- Come può il business avvalersi dei geo-social network?

- Quali le prospettive future, quali gli scenari possibili?

- Come cambierà il panorama dei geo-social network quando anche Facebook si aprirà a questa nuova modalità social?

Che Facebook stia pensando di aprire un canale di business associato alla piattaforma si sa da alcuni rumore che sostengono come il primo accordo di collaborazione sia stato stretto con McDonald: un apposita applicazione, infatti, consentirà i check-in nei vari punti vendita. In tal modo i clienti potranno stare su Facebook e, contemporaneamente, essere sempre aggiornati sull’esatta posizione dei vari McDonald vicino a loro.

Secondo gli esperti, insomma, se è vero che i social network non hanno scopi di monetizzazione, è vero anche che i location based media si prestano all’inserzione di pubblicità locali. C'è chi sostiene che attraverso Twitter è possibile costruire grosse community, fare customer care avanzato per i grandi brand, catalizzare l’attenzione attorno a personaggi pubblici, fare informazione e addirittura vendere libri.
In futuro, le cose potrebbero cambiare, proprio com'è già avvenuto in passato con la nascita di Internet.

Da questi mashup georeferenziati possono nascere una pluralità di servizi che consentono di indicare agli altri la propria posizione geografica in qualsiasi momento della giornata, permettendo, al contempo di segnalare quali sono i posti più frequentati dagli amici, di incontrarli, fare recensioni dei locali che frequentano, di pubblicare foto in tempo reale associandole a una mappa, grazie ad eventi fare passaparola e condividere non solo informazioni ma anche esperienze reali.

Insomma, è chiaro che si sta creando un nuovo fenomeno sociale che sta contribuendo a cambiare i nostri usi e costumi. Come chiamare questa evoluzione? Per ora, visti i mezzi e le tecnologie in campo, ci viene in mentre mobile 2.0.

martedì 13 luglio 2010

Facebook lancia il «panic button»contro i pervertiti online

[Corriere della Sera 13/07/2010]
Facebook lancia il «panic button»contro i pervertiti online
Una nuova applicazione che permetterà ai minorenni di segnalare comportamenti ritenuti sessualmente sospetti

MILANO - Facebook ha deciso di cedere alle pressioni di quanti chiedono da tempo un maggiore controllo per i pervertiti online, lanciando da oggi il cosiddetto «panic button», ovvero una nuova applicazione che permetterà ai giovani utilizzatori del social network di età compresa fra i 13 e i 18 anni di segnalare quei comportamenti ritenuti sessualmente sospetti. Ogni utente potrà accedervi dalla propria homepage e aggiungere la pagina al profilo o fra i preferiti per denunciare l’utilizzo inappropriato del sito da parte di altre persone.

Il sito Child Exploitation and Online Protection Centre  (dal web)
Il sito Child Exploitation and Online Protection Centre (dal web)
Come non mancano di sottolineare i giornali inglesi, con «Daily Mail» e «Sun» da mesi in prima linea nella battaglia contro gli abusi sessuali online ai danni di minori, si tratta di una grande vittoria per il «Child Exploitation and Online Protection Centre» ma anche per lo stesso «Facebook», che nel recente passato aveva snobbato precedenti richieste di inserire un «panic button» e per questo era stato accusato di arrogante compiacenza nei confronti della pedofilia in rete. Il caso più eclatante aveva riguardato il pervertito Peter Chapman che a marzo di quest’anno è stato condannato all’ergastolo per aver violentato e ucciso la studentessa 17enne Ashleigh Hall, di Darlington, incontrata guarda caso proprio su Facebook. «Niente per noi è più importante della sicurezza dei nostri utenti», ha detto al «Sun» Joanna Shields, vice presidente di Facebook Europa, mentre il boss del «Child Exploitation and Online Protection Centre» ha invitato tutti gli iscritti al social network ad usare la nuova applicazione e ad aggiungerla come segnalibro sul proprio profilo.

Simona Marchetti

giovedì 1 luglio 2010

Finlandia: la banda larga diventa un diritto fondamentale

[NotebookItalia 01/07/2010]
Banda larga
non è solo sinonimo di Internet veloce, significa anche accesso ai servizi offerti dalla Rete, un tuffo in quella nuvola di vantaggi che ha portato con sé il Web 2.0 e che solo semplicisticamente identifichiamo con i social network. L'accesso alla banda larga per tutti i cittadini è quindi una condizione essenziale per lo sviluppo economico e sociale di un Paese.

Ne sono convinti i membri dell'associazione Anti Digital Divide che dal 2004 lotta per abbattere i limiti infrastrutturali in Italia e ne sono consapevoli i governanti italiani che hanno intrapreso iniziative volte a favorire la diffusione della broadband, almeno in versione mobile, nelle aree dove l'orografia non consente il passaggio dei cavi.

Ma mentre in Italia si è impantanati fra inghippi burocratici e pastoie, in Finlandia la banda larga ha raggiunto lo status di diritto universale del cittadino. Non è una mera dichiarazione di principi, perché con un approccio estremamente pragmatico i finlandesi hanno misurato l'entità di questo diritto: non meno di 100 Mbps procapite, a partire dal 2015!

Come spiega il Ministro delle Comunicazioni finlandese, Suvi Linden, "Da oggi entra in vigore l'obbligo di assicurare l'accesso al web a tutti i finlandesi". Per il momento però bisognerà accontentarsi di un minimo garantito di 1 Mbps, con l'impegno a realizzare una capillare copertura in fibra ottica entro 5 anni.

E dire che in Italia, un simile diritto sarebbe già garantito dall'art. 3 II comma della Costituzione, che recita: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."