La comunicazione multiscreen cambia la nostra sfera domestica, tagliano corto i sociologi. La cultura digitale rivoluziona il nostro agire quotidiano. Il marito preferisce comunicare con la moglie seduta a un metro di distanza con una mail. Lei replica felice e soddisfatta, indaffarata a stare dietro a tutte le schermate aperte, come quelle della lista della spesa open (sostituisce la vecchia lavagnetta con il pennarello) che ogni familiare può consultare in tempo reale, aggiungendo quello di cui ha bisogno: dal bagno schiuma per la palestra, al latte, al quaderno a righe, fino alle sigarette per il papà. E mentre con la mano destra si chatta, con la sinistra si riesce anche a consultare il BlackBerry ogni 5 minuti. Non si sa mai. Il cugino lontano sta per prender parte ad un nuovo flash mob all’Università, mentre il figlio potrebbe aver aggiunto un nuovo post sul suo blog.
Un popolo di scimmie, ci ha definito il Premio Nobel per la letteratura, Mario Vargas Llosa: «internet ha messo in soffitta la grammatica, l’ha liquidata, per cui si vive in una specie di barbarie sintattica. Se scrivi in quel modo è perché parli in quel modo. Se parli così è perché pensi così, e se pensi così è perché pensi come una scimmia». Come dire, più ci si evolve in questa visione post-orwelliana e più la nostra mente regredisce all’età della pietra. Sarà poi così? In fondo i personal media in questi ultimi mesi hanno permesso anche battaglie democratiche importanti. È possibile che non ci sia proprio nulla da salvare? Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università La Sapienza di Roma «la connessione non deve essere un pretesto per isolarsi. Quando in famiglia non si va d’accordo, la tavoletta diventa una scusa per non affrontare la realtà. L’ideale sarebbe avere una sola tecnologia con tutti i parenti intorno, con mamma e papà che insegnano ai figli come usarla, aggiornando in primo luogo se stessi». In una società convergente come questa, il ruolo e la responsabilità dei genitori sono aumentati rispetto al passato, quando l’ambiente esterno condivideva i valori e li sosteneva nelle loro scelte educative. Oggi c’è bisogno di una guida. Alla base di questi nuovi modelli cognitivi, c’è una collettività di interessi che cresce a dismisura ogni giorno. Le persone si “autoconfigurano” continuamente, nonostante siano soggette a stress tecnologico, senza esser più in grado di dire dei sani no. Per Roberto Grandi - professore di Sociologia dei Processi Culturali all’Università di Bologna - «i rapporti interpersonali sono in concorrenza con quelli virtuali, ma lo spazio virtuale non sostituisce gli spazi fisici».
Concorda l’esperto di tecnologia Carlo Infante: «Una tecnologia è desiderabile perché rimbalza indietro come una palla. Tutti i sistemi touchscreen inducono una corrispondenza, un elemento di contagio che ha a che vedere con il nostro desiderio». Ma le tecnologie alla fine non sono altro che elettrodomestici. E se ce l’ha fatta Bin Laden a vivere cosi tanto a lungo senza wireless, perché non dovremmo farcela noi alle prese dopo tutto con un tran tran di vita quotidiana, lo stesso da decenni? Ai tablet, per fortuna, c’è ancora chi continua a preferire le scene di vita domestica, come quelle dipinte da Vermeer.
Barbara Millucci
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