giovedì 29 aprile 2010

Social Network? Ecco la guida alla privacy

[Re write 30/04/2010]Web 2.0 significa nuove possibilità di condividere informazioni ma bisogna fare anche molta attenzione a divulgare i propri dati personali. Ecco le cose da sapere per proteggere la propria identità su internet.
Le autorità che tutelano la privacy hanno da tempo concentrato la loro attenzione su siti e servizi del web sociale. La notizia è di qualche giorno fa, dieci paesi, tra cui l’Italia, hanno invitato Google a rispettare le regole in materia di trattamento dei dati personali, soprattutto alla luce di quanto visto con il social network Google Buzz. Certo è che questa non è la prima volta che Google non tiene in adeguata considerazione la tutela della privacy quando lancia nuovi servizi, ma c’è da dire che Google non è l'unica società ad avere introdotto servizi online senza prevedere tutele adeguate per gli utenti.
Ma come difendere la propria privacy online? Per iniziare può essere utile scaricare dal sito del garante italiano una breve guida con i comportamenti da tenere in rete. Premesso questo devo dire che le informazioni contenute in questo post sono in gran parte dettate dal buon senso e sono abbastanza facili da mettere in atto.
I termini di condizioni del servizio, i contratti e l’informativa sulla privacy sono spesso noiosi e lunghi da leggere tuttavia la regola numero uno resta comunque l’autotutela, e cioè: evitate di dare informazioni troppo personali, non condividete foto imbarazzanti, non fidatevi di qualcuno solo perché vi chiede l’amicizia. E poi ricordate che ciò che mettete online è a disposizione di tutti e non è sempre così facile da cancellare. Cancellarsi da servizi come Facebook, FriendFeed, Google Buzz, Twitter e YouTube non è così facile o definitivo come si crede.
Ad esempio: Facebook ha due livelli di cancellazione, uno dei quali è quasi introvabile. Buzz non elimina i commenti e i like lasciati sui profili altrui, YouTube non cancella i video e il canale ma bisogna farlo manualmente. Più definitivi sono invece Twitter e FriendFeed.

mercoledì 28 aprile 2010

Social network e situazioni sgradevoli: la raccolta del Telegraph

[OneWeb 2.0 28/04/2010] Il 73% degli utenti interpellati da una recente indagine, così come riporta il sito del Telegraph, non aggiunge i propri datori di lavoro tra gli amici Facebook, per timore che questi possano scovare informazioni potenzialmente destabilizzanti per la loro posizione professionale.

Ma davvero quanto condiviso sui social network può costare così caro? A quanto pare sì. Ecco alcune delle situazioni più buffe o sgradevoli verificatesi sulle sempre più cliccate pagine dei portali Web 2.0.

Amanda Bonnen ha descritto, con un breve messaggio lasciato su Twitter, il suo appartamento come “ammuffito”, senza immaginare che l’agenzia indicata dal padrone di casa per la sua gestione (la Horizon Group Management) l’avrebbe per questo citata in giudizio per una somma pari a 50.000 dollari. Fortunatamente per la ragazza, il giudice che si è occupato del caso ha ritenuto le prove non sufficienti e l’accusa nei suoi confronti è caduta.

In occasione delle recenti e contestatissime elezioni iraniane, i gestori del profilo Twitter appartenente all’azienda Habitat, che si occupa dell’arredamento di locali di ristorazione in tutta Europa, hanno pensato bene di inserire messaggi contenenti parole chiave relative alla delicata situazione politica attraversata dal paese, così da incrementare il volume di click sulle pagine contenenti informazioni relative ai prodotti commercializzati. Ovviamente, questo non ha fatto piacere alla community di utenti. In seguito alle proteste, Habitat si è scusata ufficialmente, definendo la pratica un errore.

Nella città di Aurora, in Colorado, un bambino di tre anni è stato travolto e ucciso da un automobilista mentre si trovava in coda per acquistare un gelato. Il quotidiano locale Rocky Mountain News ha inviato Berny Morson ad assistere al funerale, dove tutta la comunità si è stretta attorno al dolore della famiglia. Il giornalista ha scelto di raccontare in tempo reale gli avvenimenti della cerimonia e della sepoltura, con sintetici tweet da 140 caratteri. I lettori non l’hanno presa nel migliore dei modi.

C’è poi chi, come Harriet Jacobs, ha puntato il dito contro il metodo con cui Google ha integrato il servizio Google Buzz nelle caselle di posta GMail, rimettendola automaticamente in contatto con il proprio ex marito, con conseguenze decisamente poco piacevoli. Kimberley Swann ha invece perso il posto di lavoro, per aver definito “noiosa” una giornata in ufficio con un update dello stato su Facebook.

Alzi ora la mano chi non ha mai esitato prima di cliccare sui pulsanti “Tweet” o “Condividi”, magari passando velocemente in rassegna nelle propria mente la lista dei contatti, in cerca di qualcuno che potrebbe ritenersi chiamato in causa o infastidito da quanto scritto.
Cristiano Ghidotti

venerdì 23 aprile 2010

Angelucci: il primo digital divide è sottovalutare l'It

[Il Sole24Ore 23/04/2010] Carenze e best practice nell'utilizzo dell'It in Italia analizzate nel nuovo osservatorio Assinform su industria, Pa, banche, Università e ricerca
Le potenzialità dell'information technology in Italia sono tuttora molto sottostimate. Sono più di dieci anni che gli operatori e le aziende del settore recitano questo mantra ma lo sforzo non sembra essere stato premiato. Al punto che secondo il presidente di Assinform Paolo Angelucci “la sottovalutazione del ruolo decisivo che l'It gioca nel processi di crescita della competitività, produttività e sviluppo del Paese è il primo digital divide da superare”.
Nel mondo gli investimenti in It stanno riprendendo con decisione: in Stati Uniti, Giappone e nei Paesei emergenti, sostiene Angelucci, vi sono punte di crescita del 24%. L'Italia viene dal - 8,1% del 2009 ed è ben lontana da tali performance. Fondamentalmente, c'è ancora bisogno di tanta cultura e anche per questo motivo Assinform ha dato vita a “It per lo sviluppo”, un concentrato di analisi dello stato di fatto e proposte per migliorarlo. Si tratta di un osservatorio permanente che ha già prodotto un quadro dei pregi e difetti del ruolo dell'It in quattro macro aree del nostro Paese: settore pubblico, distretti industriali e made in Italy, settore bancario, Università e ricerca.
Partiamo dai difetti. Sebbene i quattro settori presentino livelli di adozione molto diversi, osserva Assinform, esistono alcuni fattori comuni che generano il deficit dell'innovazione in Italia. In questo registro rispondono all'appello: disomogeneità delle infrastrutture digitali, alfabetizzazione informatica scarsa, mancanza di consapevolezza (appunto) sulla capacità dell'It di migliorare le performance, scarsa attenzione alla formazione continua, mancanza di sinergie tra mondo della ricerca e imprese, basso utilizzo delle forme di collaborazione offerte dal Web 2.0.
Veniamo ora ai pregi, cioè a quelle best practice che lo studio di Assinform ha individuato negli oltre 200 casi di successo censiti e che dovrebbero fungere da modelli replicabili. Nell'industria, un settore che nel 2008 ha speso 7.377 milioni di euro in It, gli investimenti più azzeccati sono stati quelli fatti per la filiera, per la messa a fattor comune di competenze, infrastrutture e per l'integrazione dei processi, anche con l'obiettivo di creare offerte congiunte di prodotti/servizi. Nel settore pubblico (3.780 milioni la spesa nel 2008), le esperienze più significative degli ultimi anni Assinform le ha trovate nella dematerializzazione dei documenti e nella gestione integrata delle comunicazioni interne. L'Osservatorio ha poi censito applicazioni innovative nell'ambito di Giustizia, Scuola, Beni Culturali, Sanità, Previdenza.
Nel comparto bancario, storicamente il “big spender” dell'It italiana (7.736 milioni di euro nel 2008 su un totale di 20.243) e uno dei pochi a forte penetrazione tecnologica, le best practice riguardano la banca paperless, nuovi modelli di comunicazione, la gestione di processi i e informazioni con applicazioni di tipo Enterprise 2.0 Quanto al settore Università e ricerca, qualche best practice c'è (per esempio i consorzi e le associazioni tra Istituti, come il Cineca) ma Assinform sfodera qui una sorta di bandiera bianca: oltre al ristagno dello sviluppo e dell'innovazione (non a caso, nell'acquisto di tecnologia vince sempre l'offerta più bassa) c'è un nodo fondamentale: non si riesce a intravedere il modello giusto per far sì che formazione e ricerca possano aiutare la competitività del nostro Paese.

Social Network e privacy - la guida

[Kataweb itech 23/04/2010] Web 2.0 significa nuove possibilità per condividere le informazioni ma anche una richiesta di attenzione all'integrità dei propri dati personali. Ecco le cose da sapere per proteggere la propria identità su internet

di Mauro Munafò
Privacy e social network: due concetti all’apparenza inconciliabili. L’esplosione del web 2.0, con tutti i servizi legati alla condivisione di informazioni, contenuti e prodotti, ha creato nuove possibilità per l’utente, ma lo ha anche portato a dover scegliere con più attenzione cosa dire di sé in rete.

Le autorità e Google. Le autorità che tutelano la privacy hanno da tempo concentrato la loro attenzione su siti e servizi del web sociale. E’ notizia di qualche giorno fa il documento condiviso tra i garanti della Privacy di dieci paesi (tra cui l’Italia) (http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/04/20/news/garante-google-3480873/ ) che hanno “invitato” Google a rispettare le regole in materia di trattamento dei dati personali, soprattutto alla luce di quanto visto con il social network Buzz. “Siamo rimasti profondamente turbati – si legge nel documento - dalla recente introduzione dell'applicazione di social networking Google Buzz, che ha purtroppo evidenziato una grave mancanza di riguardo per regole e norme fondamentali in materia di privacy. Inoltre, questa non è la prima volta che Google non tiene in adeguata considerazione la tutela della privacy quando lancia nuovi servizi”.

Google Buzz, apparso a tutti gli utilizzatori di Gmail, è solo uno degli esempi e sono le stesse autorità a specificare quanto il problema sia globale: “Le Autorità riconoscono che Google non è l'unica società ad avere introdotto servizi online senza prevedere tutele adeguate per gli utenti. Tuttavia, sollecitano Google a dare l'esempio, "in quanto leader nel mondo online", incorporando meccanismi a garanzia della privacy direttamente in fase di progettazione di nuovi servizi online”.

La privacy. Come difendere la propria privacy online? Per iniziare può essere utile scaricare dal sito del garante italiano una breve guida con i comportamenti da tenere in rete (http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=1614258 ). Le informazioni qui contenute sono in gran parte dettate dal buon senso e sono abbastanza facili da mettere in atto. Qualche dubbio sorge solo di fronte al consiglio di leggere i contratti che si siglano con i servizi come Facebook e soci: giusto da dire, impossibile da realizzare (solo l’informativa sulla privacy di Facebook è lunga 16 pagine, a cui aggiungere i termini di servizio). La regola numero uno resta comunque l’autotutela: evitate di dare informazioni troppo personali, non condividete foto imbarazzanti, non fidatevi di qualcuno solo perché vi chiede l’amicizia.

Per facilitare la comprensione dei lunghi contratti proposti dai servizi online, abbiamo realizzato delle schede che mettono in luce alcuni degli aspetti più significativi, soprattutto per comprendere bene il livello di controllo che si può avere sui dati personali e sulla loro eventuale rimozione. I siti confrontati sono Facebook, FriendFeed, Google Buzz, Twitter e YouTube. Il web 2.0 non è tutto uguale.

Cancellarsi da questi servizi non è così facile o definitivo come si crede. Facebook ha due livelli di cancellazione (uno dei quali è quasi introvabile); Buzz non elimina i commenti e i like lasciati sui profili altrui, YouTube non cancella i video e il canale (bisogna farlo manualmente). Più definitivi sono invece Twitter e FriendFeed.

Molto diversa è anche la possibilità di agire sulla diffusione dei contenuti attraverso i pannelli di controllo: estremamente completo quello di Facebook (che permette anche di gestire i risultati dei motori di ricerca), mentre tutti gli altri servizi si limitano a fornire la possibilità di rendere i propri aggiornamenti consultabili solo da amici autorizzati.

La disponibilità in italiano dei termini di servizio è legata al successo delle varie piattaforme. Ok Google, YouTube e Facebook, solo in inglese FriendFeed, mentre Twitter ha una versione tradotta nella nostra lingua, ma con diversi errori e parti ancora in inglese. Tutti i servizi analizzati fanno riferimento alle leggi di stati diversi da quello italiano. In caso di controversie legali si riservano insomma il diritto di risolverle seguendo la legislazione della California (Facebook e Twitter), dello stato di New York (FriendFeed) o dei tribunali inglesi (Google e YouTube).


giovedì 22 aprile 2010

Il sistema che rende tutti «taggabili»

[Il Corriere della Sera 21/04/2010] MILANO – Un nuovo tasto da aggiungere al proprio browser, per poter allargare l’opportunità di «taggare» ed essere «taggati» da Facebook agli altri siti. È l’idea di Taggable, il sistema appena inaugurato che con una semplice mossa (l’aggiunta del bottone «tag people») fa sì che la barra di navigazione usata per accedere alla Rete abbia d’ora in avanti un nuovo comando. Questo bottone, unito al proprio accesso a Facebook, permette di taggare noi e i nostri amici se siamo per esempio su Flickr esattamente come se stessimo navigando nel social network.

TUTTI TAGGABILI – Con Taggable dunque la privacy viene erosa nuovamente: il sistema dei tag, ovvero la segnalazione della nostra presenza (vera o finta) in un’immagine o in una nota, è ora possibile in molti altri siti esattamente come già accade su Facebook. Certo, per poter essere taggati è pur sempre necessario avere un proprio account su Facebook e resta comunque l’opzione – come avviene nel social network – di disattivare il tag inserito da qualcun altro. Ancora, come spiega TechCrunch, lo spam dovrebbe essere ridotto al minimo, trattandosi pur sempre di tag immessi da amici della nostra lista su Facebook. Una volta inserito il tag, questa segnalazione compare sia sulla homepage di Taggable sia nella propria pagina personale di Facebook ed è inoltre possibile ricevere segnalazione dei tag ricevuti anche via e-mail, così come la segnalazione può comparire anche nella propria pagina di Twitter. Chi ha un blog o un proprio sito, può sottoscrivere il servizio di Taggable e mettere nella sua homepage direttamente un bottone per taggare gli amici.

L’IDEA – Taggable è il primo progetto e prodotto di un nuovo incubatore di idee e start-up tecnologiche, The Start Project, nato lo scorso anno nella Silicon Valley da un gruppo di imprenditori e di esperti di internet già protagonisti di alcune riuscite operazioni nel web di seconda generazione. L’idea sfrutta le potenzialità di Facebook per amplificare la presenza personale in rete, una tentazione così diffusa tra gli iscritti al social network da far pensare che sarà un successo. In barba alla privacy.

Eva Perasso

mercoledì 21 aprile 2010

Vogliono colonizzare tutto il web

[La Repubblica 20/04/2010] I SOCIAL network stanno estendendo la propria impronta ovunque nel web, con un impatto ancora da verificare sulla privacy e sulla pubblicità. Secondo quanto riportato da Financial Times e dal New York Times, Facebook sta per lanciare un nuovo pulsante "Like" che siti di vario tipo potranno integrare nelle loro pagine. Servirà per esprimere apprezzamento per il sito e per il marchio dell'azienda corrispondente.

Secondo il New York Times, è soprattutto un modo per estendere il dominio di Facebook anche fuori dal proprio sito. Il Financial Times nota invece che così Facebook avrà altre informazioni preziose sugli utenti e le potrà utilizzare per offrire pubblicità mirata. Conoscerà infatti loro siti preferiti, grazie a quel "Like". Facebook ha smentito queste anticipazioni del Financial Times: adotterà sì il pulsante "Like", ma sarà solo un nuovo nome del "Diventa un fan". Comunque non ne farà un uso pubblicitario e non memorizzerà i dati sulle navigazioni degli utenti.

Facebook sa bene che deve muoversi con prudenza, se non vuole rischiare una nuova ondata di proteste, com'è stato per la pubblicità Beacon 1, poi ritirata con tante scuse. Il social network più famoso del mondo ha già gli occhi puntati su di sé, del resto, soprattutto da quando ha cambiato le proprie regole sulla privacy per far aumentare i contenuti condivisi dagli utenti. Il 95 per cento di loro non ha gradito, rileva un sondaggio di Sophos 2. Quest'ultima polemica sul pulsante "Like" forse finirà in una bolla di sapone, se Facebook manterrà le promesse contenute nella smentita al Financial Times. Comunque la dice lunga sul clima di sospetto che si è creato intorno al social network. Resta indubbia l'ambizione di Facebook a mettere sotto il proprio cappello molto di quello che l'utente fa sul web.

Non è nemmeno un'esclusiva di questo social network: il fenomeno riguarda tutti. Ieri Meebo, Google, Microsoft, Yahoo! e MySpace hanno annunciato uno standard tecnologico per l'integrazione tra social network e altri siti web. Il risultato sarà, per esempio, che il sito di un'azienda saprà in automatico a quali social network è iscritto il visitatore. L'azienda potrà calibrare di conseguenza i canali per comunicare con i clienti. In gara c'è anche Twitter: qualche giorno fa ha annunciato @anywhere, per consentire di accedere al suo network da qualsiasi sito web. Il fenomeno è noto: larga parte di internet si sta trasformando in un'appendice dei social network. Con conseguente accentramento di informazioni (e potere) nelle mani di un'oligarchia di soggetti. Il tutto mentre le regole sulla privacy, come appena dichiarato dal Garante italiano 3, sono ancora inadeguate rispetto al boom di questi servizi.
ALESSANDRO LONGO

Ecco il Post: un po' giornale, un po' blog, un po'..

[Rainews24 20/04/2010]

"Non dite a mia mamma che lavoro sul web, crede che io sia un giornalista". Chissà se Luca Sofri ha ripensato alla battuta di Elisabeth Lévy e Philippe Cohen: aprire oggi un portale di news on line in Italia resta, nonostante le promesse del web 2.0, una scomessa audace soprattutto per chi non ha alle spalle un gruppo editoriale. Ma eccolo qua, il Post: pulito, elegante nella testata e nell'impaginazione, ricco di contenuti e link. Sì, ma che cos'è, questo Post?

Oltre il giornale
"Il problema è che non ha un nome, una cosa così - ammette Sofri nell'editoriale che presenta il Post - Giornale online, si dice ancora, ma è un nome che allude a un tipo di contenitore di notizie che è stato molto ribaltato in questi anni ed è un nome che nasconde le vere dimensioni di questo cambiamento. Ci sono dei giornali online, sì: sono fatti come dei giornali di carta, a volte bene e a volte no, e sono online. Quello che vuole essere il Post, invece, è un’altra cosa. I suoi modelli sono americani, ma anche lì non sanno ancora come chiamarli".

Gli antenati del Post
Uno primo rapido sguardo al Post conferma l'ispirazione al modello dell'altro Post famoso sul web: non il Washington Post, ma l'Huffington Post. L'idea centrale è che nel mare magno dell'informazione on line conti molto la selezione delle news e una prima, rapida chiave interpretativa. La frequentazione di blog e social forum orienta poi la scelta di temi (issue, direbbe Arianna Huffington) magari ignorati dal grande flusso informativo dei media tradizionali ma discussi e cliccati sul web.

A caccia di storie
"Il Post è una cosa così - prosegue Luca Sofri - Per metà aggregatore (altro termine equivoco), per metà editore di blog. Ha una redazione che pubblica notizie, storie, informazioni raccogliendole in rete e nei media, e linkando e segnalando le fonti. E ha una famiglia di blog affidati ad autori di diverse qualità e competenze ma con cui il Post condivide un’ambizione di innovare la qualità delle cose italiane, nel suo piccolo (e loro l’hanno riconosciuta e ci hanno creduto). Per chi lo ha seguito finora (nove anni), il Post è Wittgenstein, ma di più. Più storie, più link, più idee, più blog".

Fare opinione
Insomma, sul Post non troverete l'inchiesta, lo scoop (ma quante volte l'avete trovato sul giornale che comprate in edicola?). Forse neppure l'intervista esclusiva. Il modello non è Pro Publica, il sito web che ha 'espugnato' il premio Pulitzer con un reportage sulle conseguenze dell'uragano Katrina. Ma non è neppure un semplice aggregatore di news modello Googlenews: l'ambizione, facendo ricorso ad un'immagine da 'vecchi media' è quella di diventare un 'secondo quotidiano', quello che comprate non per leggere le stesse news appena sentite alla radio o in tv ma per trovare una storia, un tema, un'opinione che nessuno vi aveva segnalato. Il tutto, gratis, sul web.

Chi mette la faccia, chi raccoglie i soldi
Intercettare tendenze e proporre argomenti: lo fanno, sul Post, anche alcune 'firme' come Paolo Virzì, Flavia Perina, Giovanni de Mauro, Giuseppe Civati, Filippo Facci o Andrea Romano. Poi ci sono cinque giovani redattori che hanno superato altre candidature giunte al Post via email, e poi c'è la raccolta pubblicitaria di Banzai, che mette la piattaforma e le conoscenze per pubblicare on line.

Il futuro è in serie B
Ma perché proprio la rete, il regno del giornalismo di serie B, dell'approssimazione, del gossip, delle mancate verifiche delle fonti, dei tweet che accostano la pastasciutta scolata troppo tardi all'incidente ferroviario con morti e feriti? Perché, e qui sta il merito di Luca Sofri, la rete è anche ricca di autenticità, entusiasmo, ottimismo, idee nuove e vecchie, dialogo e scontro. Ecco perché il Post, dice Sofri, convinto che il panorama dell'informazione italiana, scosso negli ultimi mesi da drastici tagli al budget, dal ridimensionamento delle redazioni, dall'impoverimento dei contenuti, dalla ricerca sempre più affannosa e omologante degli inserzionisti pubbliicitari in fuga possa trarre beneficio da iniziative come questa. Vorremmo, dice Sofri, "introdurre di più internet nel sistema dell’informazione italiana, migliorare la qualità e l’affidabilità delle news e del giornalismo, rivedere le gerarchie delle notizie a cui siamo abituati, raccontare cose interessanti e che cambiano il mondo (bel claim già preso da Wired)".

Buona strada
Da vecchi lettori di Wittgenstein e affezionati ascoltatori di Condor, l'augurio al Post non può essere che uno: che ne compaia on line, presto, un altro. E poi un altro ancora. Sarebbe questo il primo segnale che il pareggio di bilancio da raggiungere entro tre anni non è una chimera.

martedì 20 aprile 2010

Flickr fa riferimento esplicito alla normativa italiana

[IlSole24Ore 20/04/2010] 1 SOCIAL NETWORK CHE VAI PRIVACY CHE TROVI
In merito alla normativa sulla privacy e alla facilità di accedervi la situazione non è omogenea. Ogni social network utilizza informazioni differenti e non sempre accedere alle spiegazioni è chiaro come dovrebbe essere. Ma non mancano le eccezioni
La disciplina in materia di privacy – reperibile grazie al collegamento ipertestuale a piè di pagina anche per chi non è iscritto – è impostata da Yahoo! Italia ed è l'unica che contiene espliciti riferimenti alla normativa nazionale. Spicca l'aggancio con il decreto legislativo 196/2003, e si citano i diritti dell'interessato e la possibilità di avere ulteriori informazioni su modalità di raccolta e utilizzo dei dati.

2 LA TRASPARENZA DELLE INFORMAZIONI
Il meccanismo di utilizzo dei dati personali presenta molte zone d'ombra, soprattutto per quanto riguarda due dei più utilizzati social network: Facebook e Twitter. Più chiare le informazioni fornite invece da Youtube (Google) e dal portale di foto Flickr (Yahoo!)
Chi gestisce il social network di raccolte fotografiche Flickr si riserva il diritto di modificare le regole in tema di privacy, ma - contrariamente ad altri - segnala le modalità con cui informerà il pubblico sulle variazioni; anche mediante specifici avvisi sui diversi siti Yahoo! Unico neo le condizioni di utilizzo in inglese, ma Yahoo si fa perdonare con le Linee guida della community di Flickr e un efficace sistema "Segnala un abuso".

3 UN LEGAME VIRTUALE DIFFICILE DA SCIOGLIERE
C'è chi consente di informarsi dettagliamente senza bisogno di iscriversi ai servizi, e chi, invece, sottolinea che anche al momento della manifesta volontà di cancellazione da parte dell'utente i suoi dati rimarranno invece "in sonno" a disposizione del portale
L'utente può ottenere con una semplice richiesta inviata tramite posta elettronica l'elenco dei soggetti responsabili e dei terzi titolari di trattamenti autonomi connessi a quelli svolti da Yahoo. Come regola generale, Yahoo! non condivide né concede le informazioni personali che permettono l'identificazione dei suoi utenti.

lunedì 19 aprile 2010

Le zone grigie del Web

[Polizia Moderna Aprile 2010]«Ai postini non si chiede cosa c’è nelle lettere» tuonano i vertici delle industrie della comunicazione. «Nessuno vuole mettere il bavaglio a Internet» evidenziano i giudici, mentre il popolo della Rete s’infervora discutendo dei possibili effetti – in termini di partecipazione attiva degli utenti – di una stretta eccessiva sulla privacy nel mondo del Web. La sentenza del Tribunale di Milano che ha condannato a sei mesi di reclusione tre alti dirigenti di Google accusati di non aver evitato che nel 2006 finisse su Internet il video di un bimbo down vessato dai compagni di scuola apre scenari inediti nel complesso panorama della comunicazione online.
Di colpo si fa strada il principio che la piattaforma debba in qualche modo rispondere dei materiali che ospita, in virtù del principio portato a galla dai magistrati secondo cui in sostanza il diritto d’impresa non può prevalere su quello della persona. In parallelo, ad alimentare il dibattito, nascono una sfilza di interrogativi: qual è il confine tra diritto alla privacy e le infinite possibilità che oggi offre la Rete? Quali i pericoli legati alla percezione della “violenza telematica”, quella forma di aggressività dagli effetti potenzialmente devastanti che si esprime tramite il Web e per questo appare spesso “innocua” proprio ai responsabili (in buona o cattiva fede) delle molestie online? E quali, infine, i rischi legali collegati al proliferare di gruppi su Facebook o su Youtube che inneggiano agli autori di aggressioni o solidarizzano virtualmente con gli stupratori?
Difficile districare la matassa, visto che il tema è relativamente nuovo e in continua evoluzione. Sta di fatto che la sentenza dei giudici di Milano segna una tappa importante nel delineare le regole alla base della navigazione responsabile, ed è da qui che occorre partire per ragionare sulle prospettive e le possibili degenerazioni della cosiddetta “seconda era di Internet”.
I tre dirigenti Google finiti nella bufera (David Drummond, nel 2006 presidente del Cda e ora vice presidente e capo del servizio legale, l’ex direttore finanziario ora in pensione George De Los Reyes e il responsabile mondiale della privacy per l’azienda Montain View, Peter Fleischer) vennero accusati di concorso nella violazione della legge sul trattamento dei dati personali assieme ai 4 ragazzi torinesi (individuati e poi processati dopo una denuncia dell’associazione Vividown) che girarono il filmato e lo caricarono nella sezione “video più divertenti” di Google. La legge italiana infatti punisce chi “per profitto tratta illegalmente dati sensibili come quelli sulla salute”. Ma l’assoluzione del gruppo dall’accusa di diffamazione ribadisce allo stesso tempo il concetto che “il service provider non ha alcun obbligo di verificare preventivamente quanto messo in Rete dagli utenti”.
Tutto chiaro e universalmente condiviso? Niente affatto. Se i pm Alfredo Robledo e Francesco Cajano nel commentare la sentenza evidenziano che «non si è trattato di censura né di un processo sulla libertà della Rete», il commissario Antitrust Antonio Pilati sottolinea che «Google non è un editore e sarebbe dunque sbagliato cercare di applicare vecchie regole a un soggetto nuovo», mentre l’ambasciatore Usa a Roma David Thorne fa sapere che gli Stati Uniti «sono negativamente colpiti dalla condanna ai dirigenti» che andrebbe in rotta di collisione con i principi della libertà di Internet, a suo dire «vitale per le democrazie». Sulla stessa linea i vertici delle aziende impegnate nella comunicazione secondo cui «non si riterrebbe mai meritevole di condanna il conducente di un autobus che trasporti tra i suoi passeggeri un criminale».
Di qui l’interrogativo-provocazione: cosa accadrebbe se un sito come Youtube dovesse controllare ogni video e richiedere liberatorie a tutte le persone riprese prima di pubblicarlo? I costi altissimi non coprirebbero i ricavi e diventerebbe necessario far pagare il servizio agli utenti, con ovvie conseguenze sulle dinamiche che da sempre contraddistinguono la Rete.
Così la ricerca di un assetto capace di garantire i bisogni-chiave degli internauti (e non solo loro) tra tutela della privacy e libertà di navigazione continua ad apparire una strada in salita, disseminata di ostacoli.
Mentre gli addetti ai lavori ribadiscono che quella degli User generated contents e dei socialnetwork è ancora una zona grigia non specificamente regolamentata, non si placa la polemica sugli ultimi episodi di cronaca legati all’utilizzo distorto del Web. Solo lo scorso febbraio la polizia postale ha oscurato il gruppo su Facebook “Deridiamo i bambini Down” (con circa 800 iscritti) che esponeva un bimbo che aveva le caratteristiche della malattia, sulla cui fronte era scritto “scemo”. Il ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna, così come l’autorità garante per la Privacy, si è subito detta “indignata” e dopo aver ringraziato gli agenti «per lo straordinario lavoro fatto e per la tempestività» non ha nascosto la propria preoccupazione per il contenuto delle frasi apparse online. Sul sito, ora oscurato, si leggeva: «Perché dovremmo convivere con queste ingnobili creature? Io ho trovato la soluzione: consiste nell’usare questi esseri come bersagli, mobili o fissi, nei poligoni di tiro al bersaglio».
Fortunatamente a seguito dell’episodio il popolo della Rete ha protestato in massa contro il gruppo-choc e centinaia di persone hanno sfruttato il Web per evidenziare che i bambini down sono ppersone normali come tutte le altre. Interventi giudicati tuttavia “non sempre opportuni” dagli esperti di provocazioni telematiche: sono infatti molti gli studiosi convinti che il solo dare peso a iniziative di questo genere possa essere controproducente trattandosi solo di “troll” (termine che Wikipedia definisce come “individuo che interagisce con la comunità tramite messaggi irritanti, fuori tema o semplicemente stupidi, allo scopo di disturbare gli scambi normali e appropriati” con il risultato di contribuire al rumore di fondo mediatico).
C’è poi un altro aspetto da considerare. Se nelle scuole d’Italia e in tutto il mondo si moltiplicano i casi di bullismo e di violenza tra giovanissimi, Internet sembra amplificare la tendenza all’aggressività “virtuale”: agli occhi dei responsabili degli abusi, le molestie e le minacce online appaiono infatti metodi “non invasivi” per vessare il prossimo senza commettere un vero e proprio reato. Inutile dire che le conseguenze possono essere devastanti, come dimostrano i tanti episodi registrati negli ultimi anni in più parti d’Italia. Uno su tutti. Il suicidio di una 16enne che nell’agosto di due anni fa ad Adria si sparò un colpo al petto con la pistola del padre in balia della disperazione per le foto hard che l’ex fidanzato aveva diffuso in Rete. La studentessa protagonista della vicenda frequentava il liceo scientifico ed era figlia di professionisti. La sua era una vita normale e spensierata, ma quelle immagini osé diffuse per dispetto dal fidanzato l’avevano sconvolta, fino a portarla a commettere un gesto estremo. Sul caso la squadra mobile di Rovigo dopo indagini approfondite è arrivata alla denuncia dell’ex fidanzato della ragazzina e di una sessantina di persone, quelle che secondo le verifiche erano entrate in contatto con il filmato.
Più difficile arginare il fenomeno dei gruppi che nascono di continuo nella Rete a sostegno di iniziative decisamente discutibili e di autori di aggressioni o protagonisti di episodi di cronaca nera. Si tratta di aggregazioni quasi sempre composte da soggetti totalmente estranei ai fatti, persone che esprimono la propria “approvazione” con una parola, una frase, una “faccina”. È storia recente la scoperta di gruppi che su Facebook si autodefinivano “fan degli stupri di gruppo” o quella dei socialnetwork nei quali decine di persone si esprimevano in favore di Totò Riina e della mafia. Uno scenario nel quale si inseriscono anche le manifestazioni “telematiche” che hanno fatto seguito alla violenza sessuale di gruppo avvenuta il 31 agosto del 2007 nella pineta di Marina di Montalto di Castro (Viterbo) ai danni di una 15enne abusata a turno da otto minorenni: dopo l’agguato, su Facebook sono spuntati gruppi dove si invitano i i ragazzi “ad unirsi allo stupro, a mettersi in fila”. “Strascichi online”, e polemiche-fiume, anche per altri agguati a sfondo sessuale avvenuti a Roma: quello della notte di Capodanno del 2009, quello di Guidonia del gennaio dello scorso anno, quello registrato al parco della Caffarella il giorno di San Valentino.
Per non parlare della “degenerazione virtuale” della violenza sessuale, che proprio negli ultimi mesi ha suscitato indignazione per la nascita del “simulatore di stupri” denominato Raopelay. Un “gioco” facilmente scaricabile da Internet in cui l’utente può farsi artefice di veri e propri abusi sessuali: il protagonista è un maniaco che prende di mira una famiglia di donne, le infastidisce e poi le molesta fino al vero e proprio stupro. A commentare con sdegno l’uscita del videogioco giapponese, lo scorso febbraio è stato anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: «La violenza sul Web e le cose brutte che vediamo sono un’esperienza quotidiana. Siamo già intervenuti con i responsabili dei maggiori siti per definire un codice di autocomportamento per evitare che queste cose si diffondano. Non possiamo prevenire, perché l’accesso al Web è libero, ma possiamo evitare che permangano e bisogna farlo perché questi giochi sono non solo diseducativi, ma anche un’incitazione a delinquere».

La “cortina” sull’informazione
Accesso negato ai socialnetwork, controllo sulle informazioni e sugli utenti online: censurano Internet per soffocare il dissenso soprattutto Cina e Iran. È il risultato della ricognizione annuale sul rispetto dei diritti umani condotta dal Dipartimento di Stato Usa in 194 Paesi e pubblicata lo scorso mese. Della “cortina sull’informazione”, nemica delle libertà fondamentali e della prosperità economica, aveva già parlato qualche settimana prima Hillary Clinton in un discorso da Washington sulla libertà di Internet. E mentre Google lascia la Cina per non piegarsi alla richiesta di Pechino di filtrare le ricerche nella Rete per continuare a operare nel Paese, quattro su cinque dei 27mila intervistati in tutto il mondo dalla Bbc chiedono che l’accesso a Internet diventi un diritto fondamentale. Dove, invece, libertà e diritti non sono in discussione ci si interroga su come proteggerli e bilanciarli e su quale debba eventualmente prevalere.
Negli Stati Uniti è la libertà di pensiero e di espressione a venire prima. Il Communications decency act del 1996 solleva i provider e gli utenti del Web da responsabilità sui contenuti illegittimi pubblicati da terzi. Accordando l’immunità, il Congresso americano ha neutralizzato le pastoie tecniche ed economiche a carico degli intermediari – che avrebbero intralralciato la libertà di parola e le opportunità di conoscenza offerte da Internet. Proprio in nome del 1° emendamento, la Corte suprema ha dichiarato incostituzionali quelle norme della legge che, per proteggere i minori da contenuti osceni, limitavano l’accesso a Internet.
Anche in Europa la responsabilità limitata degli intermediari è assicurata dalla direttiva 2000/31/CE, ma secondo il New York Times, che sulla sentenza del Tribunale di Milano ha chiesto l’opinione a esperti giuridici e dell’informazione, sulla libertà di espressione prevarrebbe il diritto alla privacy. In Europa, tuttavia, anche la libertà in Rete è sorvegliata da vicino. In Germania il tentativo del legislatore di combattere la pedopornografia online facendo bloccare agli Isp i siti messi all’indice dal Bka (la polizia federale) ha suscitato timori di un principio di censura e il governo ha promesso nuove norme. Alla Loppsi 2, un pacchetto di norme sulla sicurezza in discussione in Francia, l’Afa, l’associazione degli Isp francesi, ha riservato un certo scetticismo per la norma che prevede il loro coinvolgimento nel filtraggio dei siti dal contenuto pedopornografico. Nel Regno Unito, l’iter parlamentare del Digital economy bill ha incontrato la reazione di società come Google, Yahoo e Facebook, dei principali Isp, di esperti e associazioni che, di fronte all’emendamento che avrebbe costretto gli Isp a bloccare i siti con contenuti in violazione del diritto d’autore, lo scorso mese hanno scritto al Financial Times di temere per la “libertà di parola e per la libertà di Internet”.
Loredana Lutta

I diritti della Rete
La scottante questione della libertà di espressione online sta facendo discutere. La caratteristica più spiccata di Internet è da sempre una totale democrazia, e/o anarchia, che garantisce agli utenti la più completa libertà di espressione. Anche a costo di controindicazioni ed effetti indesiderati.
Cosa dice la legge? Esistono dei vincoli a cui attenersi nel cosiddetto “Far West digitale del terzo millennio”, in cui talvolta l’estrema libertà del mezzo permette alla libertà di informazione ed espressione di entrare in conflitto con altri, sacrosanti diritti e libertà individuali?
L’abbiamo chiesto all’avvocato Daniele Minotti, esperto di diritto penale dell’informatica e diritto delle nuove tecnologie, che ha spiegato chiaramente come, al momento, non esistano ancora delle leggi particolari e specifiche sulla materia, ma solo norme generali che creano una situazione di grande incertezza e di fragilità dei meccanismi penali.
Attualmente, l’unica normativa esistente è il decreto legislativo n. 70 del 9 aprile 2003, ovvero la “Attuazioazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno”.
La volontà dell’atto è quella di “promuovere la libera circolazione dei servizi della società dell’informazione, fra i quali il commercio elettronico” (art. 1, comma 1). Purtroppo, però, nel campo di applicazione di questo decreto non rientra l’elemento che risolverebbe le controversie nate negli ultimi tempi, ovvero “le questioni relative al diritto alla riservatezza, con riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle telecomunicazioni di cui alla legge 31 dicembre 1996, n. 675 e al decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171 e successive modifiche e integrazioni (art.1 comma 2)”.
Nel febbraio 2009, c’è stato un nuovo tentativo di regolare la comunicazione in Rete, così come la libertà e la responsabilità dei motori di ricerca e lo sviluppo di certi fenomeni online: il cosiddetto “emendamento D’Alia”, ossia una proposta di modifica al ddl n. 733 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”). Il senatore Gianpiero D’Alia ha infatti promosso, ed inizialmente ottenuto, l’inserimento nel ddl 733 di un emendamento che sancisse “la repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo Internet” (Art. 50 bis, poi art. 60). Secondo le modifiche proposte, in caso di “delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, […] in via telematica sulla Rete internet” sarebbe stato necessario richiedere immediatamente “l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla Rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine”.
Tale norma avrebbe potuto portare alla chiusura di alcuni dei siti di cui spesso si parla in questi giorni e ha suscitato talmente tante polemiche da finire poi cancellata nel giro di un mese.
Secondo Minotti, la regolamentazione di quanto accade sul World wide web è destinata a rimanere controversa ancora a lungo, dato che al momento è molto difficile individuare la rilevanza penale dei fatti commessi anche quando sono innegabilmente illeciti, definire le responsabilità dei soggetti coinvolti, stabilire l’entità dei provvedimenti da prendere e soprattutto attivare una collaborazione per le indagini, sia a livello nazionale sia a livello internazionale. È evidente comunque l’urgente bisogno di provvedimenti in questo senso, dato che – allo stato attuale delle cose – solo per la lotta alla pornografia e alla pedopornografia esistono provvedimentimenti determinanti ed efficaci.
Giulia Soi

venerdì 16 aprile 2010

Facebook e i consigli per la sicurezza degli adolescenti

[OneWeb2.0 16/04/2010]

I social network, si sa, possono essere un ottimo strumento per riallacciare vecchi rapporti oppure coltivarne di nuovi, ma se utilizzati con fini poco nobili hanno la capacità di trasformarsi in vere e proprie trappole, sia per utenti poco cauti nelle loro azioni che per persone vulnerabili. In quest’ultima categoria rientrano i ragazzi e le ragazze in età adolescenziale, spesso al centro di roventi polemiche relative al loro approccio con i servizi Web 2.0.

A loro Facebook ha dedicato una nuova sezione, chiamata appunto “Sicurezza per gli adolescenti” e contenente un elenco di consigli utili da seguire, sia in modo preventivo per evitare il crearsi di situazioni spiacevoli, che per porvi rimedio qualora se ne manifestasse la necessità.

“Ho ricevuto messaggi indesiderati. Cosa devo fare?” o ancora “Come devo comportarmi se qualcuno finge di essere me su Facebook?”. Queste alcune delle domande alle quali il team responsabile del social network prova a fornire soluzioni concise ed efficaci, che il più delle volte passano per la segnalazione di un comportamento scorretto ai responsabili del sito.

Facebook viene incontro anche alle esigenze dei più grandi, con il centro “Sicurezza per i genitori” che, pur riportando a grandi linee gli stessi quesiti dedicati ai loro figli, analizza le problematiche da un differente punto di vista.

Risulta infine piuttosto emblematico il consiglio fornito alla domanda “Se mio figlio ha più di 13 anni, come posso accedere al suo account o eliminarlo?”.


Comprendiamo le tue preoccupazioni sull’uso del nostro sito Web da parte di tuo figlio, ma purtroppo non possiamo fornirti l’accesso all’account o intraprendere alcuna azione relativamente alla tua richiesta.
Incoraggiamo i genitori a vigilare nel miglior modo possibile sui propri computer e a controllare l’uso che i loro figli fanno di Internet. Se sei un genitore, ti consigliamo di usare sul tuo computer strumenti software concepiti a tale scopo.
Inoltre, parla con i tuoi figli e spiega loro l’importanza della sicurezza nell’uso di Internet. Chiedi loro di usare le nostre numerose impostazioni sulla privacy.

In parole povere, una preventiva azione di informazione e tutela dei minori sembra essere ancora, nonostante l’evoluzione degli strumenti di sicurezza, il mezzo più efficace per evitare l’insorgere di situazioni potenzialmente pericolose.

giovedì 15 aprile 2010

La Storia passerà per i Social Network?

[PCTuner.net 15/04/2010] E’ di oggi la notizia che la prestigiosa Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti D’America ha deciso di acquisire e conservare l’intero database dei “tweet” pubblici pubblicati a partire dal 2006, ossia i messaggi di micro-blogging postati sul famoso Social Network Twitter: un’occasione per riflettere sul rapporto tra Internet e la cultura contemporanea.

La Library of Congress è una delle più grandi e prestigiose istituzioni bibliotecarie del mondo; al suo interno ci sono cose come la prima Bibbia di Guttemberg, la Dichiarazione d’Indipendenza americana, la collezione privata dei libri di Thomas Jefferson, gli appunti personali di George Washington, mappe e spartiti musicali storici, 1 milione di pubblicazioni del Governo degli Stati Uniti e altri 58 milioni di manoscritti e ora ci sarà anche l’intero database di uno dei più famosi Social Network mondiali: Twitter. Ci saranno quindi il primo “tweet” della storia, del co-fondatore del sito Jack Dorsey, che recitava semplicemente “Just setting up my twttr” e il messaggio postato il giorno delle elezioni da Barack Obama, affiancati da tutta la mole di messaggi pubblici pubblicati dal 2006 in poi, cosa che consacra quindi Internet, o almeno uno dei suoi aspetti, come preziosa fonte di testimonianze storiche, un pezzo di memoria imprescindibile dei nostri tempi.

La cosa è molto interessante e significativa poiché nel pieno della postmodernità che viviamo, finita l’epoca delle grandi meta narrazioni omogenee (la Storia e la Letteratura), che pretendevano di racchiudere un punto di vista oggettivo sui processi sociali e culturali in un unico testo, è stata prima la TV e quindi Internet a prenderne il posto. Non più una narrazione omogenea e monolitica, ma un infinito puzzle di frammenti e voci contrastanti, attraverso cui navigare a vista per costruire il proprio percorso, scindendo, con molta difficoltà a dire il vero, tra ciò che è interessante e ciò che è solo rumore di fondo.

Insomma, con l’avvento di Internet pare proprio che per comprendere il nostro mondo così eterogeneo, multiculturale e frammentato, non basteranno più i documenti ufficiali, ma bisognerà sempre più analizzare il flusso di dati che ogni singolo utente produce giornalmente e questo è esattamente quanto ha deciso di fare la Biblioteca del Congresso, consegnando un primo, sostanzioso contributo di materiale di studio ai futuri ricercatori che vorranno, un giorno, capire questi nostri tempi complessi.

Con i social network la privacy non esiste più come nei villaggi dell'800

[IL Sole24Ore 16/04/2010] «I social media hanno inciso molto sulla facilità di costruzione ma anche di attacco del brand. E possono essere una minaccia per chi possiede una posizione dominante sul mercato: basta guardare alle primarie democratiche tra Obama e Clinton». John Deighton, trustee del Marketing Science Institute e Director del Berkman Center for Internet and Society della Harvard University, è un punto di riferimento mondiale per gli studi sul comportamento dei consumatori e di interactive marketing. Al Global Business Summit in programma il 17 e 18 maggio nella sede del Sole 24 Ore, sarà chiamato a parlare dell'emergere dei social network come "disruptive media".

Twitter, che da anni sperimenta progetti per finanziarsi, ha aperto da pochi giorni alle inserzioni commerciali, "promoted tweets" in 140 caratteri. Molti utenti storcono il naso, e qualche digital marketing manager già commenta: «Non mi piacerebbe essere una presenza indesiderata».
Il marketing pubblicitario ne testerà l'efficacia. "Promoted tweets" non rappresenta una novità così importante per la pubblicità online, ci sono percorsi più efficaci per raggiungere i consumatori. Si tratta certo di un metodo intrusivo, gli annunci che appaiono su Twitter non sono ben accetti dagli utenti, ma qualcuno deve pur pagare per il servizio del quale usufruiamo da un paio d'anni. E poi altri social media come Facebook sono in grado di offrire una migliore segmentazione, perché gli utenti vi gestiscono un profilo più completo che su Twitter. Insomma, questo passo è necessario per il microblogging, ma non porta un cambiamento significativo nel panorama dell'advertising.

Facebook conta oltre 400 milioni di utenti nel mondo e prima del 2004 non esisteva. Oggi la gente acconsente che su questo genere di social network siano divulgati grossi volumi di informazioni personali. La linea tra pubblico e privato si assottiglia. Cosa comporta la cultura digitale per il futuro della privacy?
Usando i social media gli utenti ci dicono che la privacy non è importante, ne rifiutano l'idea. D'altra parte 200 anni fa non avevamo privacy, vivevamo in piccoli villaggi, l'uno sotto gli occhi dell'altro. La nozione di privacy alla quale siamo giunti è un concetto che si è sviluppato solo negli ultimi due secoli, niente rispetto ai milioni di anni di vita sul pianeta. Credo che senza privacy vivremmo molto bene: stiamo tornando al sistema di vita del villaggio, anche se molto più grande.

Con i social media come MySpace, Facebook, YouTube, «il brand marketing – lei ha detto – diventa difficile quanto la politica totalitaria». Perché?

Prima che arrivassero i social media e gli strumenti come Youtube, la pubblicità non si concedeva alla "cooperazione", i consumatori non potevano rispondere. Oggi invece i consumatori reagiscono, ribattono, e il messaggio pubblicitario viene costruito sul loro contributo di humor e parodia.
Molte comunicazioni su YouTube sono create dall'immaginazione dei consumatori e hanno un'audience più vasta di quella generata dalla pubblicità classica.

Quale influenza hanno realmente i social network sul comportamento dei consumatori?

I brands devono mostrarsi trasparenti, onesti e sinceri. I consumatori puniscono quelli che si dimostrano invasivi, disonesti, e sono in grado di far emergere i piccoli brand, prima svantaggiati. Rispetto al passato credo che oggi ci sia più uniformità. Il mercato è meno imparziale tra i brand "rivoltosi" e i grandi brand, che non esercitano più sui mass media il dominio di un tempo.

Lei ha detto che i brand, più che parlare, vengono "discussi". Ma come si difendono i consumatori dalle intrusioni del marketing?
In realtà hanno gli strumenti per sfuggire all'advertising. Ci sono sistemi per evitare gli avvisi pubblicitari durante i programmi, il telemarketing o le telefonate a casa. Dove il marketing si mostra troppo invasivo, lì si presenta un'occasione per la tecnologia. Penso che le applicazioni sull'iPhone siano un esempio di come si possa dare potere ai consumatori: uso ciò che voglio e non ricevo comunicazioni indesiderate.

Quindi guarda con favore alla piattaforma per la pubblicità annunciata da Steve Jobs?

Penso sia una buona idea, dal punto di vista dell'utente. Ma rende difficile al marketing trovare nuovi consumatori. L'inclinazione naturale della pubblicità è essere invasiva, poter essere ricevuta anche da chi non vorrebbe, perché è l'unico modo per portare le notizie al cliente. Con la moltiplicazione degli strumenti che consentono di rifiutare la pubblicità, per il marketing la sfida si fa più dura.
Quale influenza hanno i social network sulle campagne di costruzione del brand?
Internet e i social media hanno inciso molto sulla facilità di costruzione ma anche di attacco del brand. Dalle pagine dei fan su Facebook a quelle di importanti community, ci sono diversi esempi. Interessante è quello della squadra di calcio del Manchester United, uno dei più solidi brand nel mondo dello sport. Ad alcuni fan non piace come viene interpretata l'autorevolezza, l"onore" del club: si sviluppa così un movimento che punta a prendere il controllo del brand e che raccoglie tanta gente. Come? Con l'aiuto delle tecnologie dei social network.

Qual è il social media vincente? Dobbiamo aspettarci una battaglia tra Facebook e Google, due giganti che combattono per diventare il nostro profilo sociale di default?

Il tempo totale speso dagli utenti su Facebook è maggiore di quello su Google. Ma Facebook ha difficoltà a "vendere" quel tempo, e le entrate di Google sono ovviamente maggiori. Facebook sta ancora crescendo e forse rappresenta un ottimo terreno per la pubblicità. Lo è di sicuro quello dei motori di ricerca, che vengono interrogati per cercare un prodotto o un'informazione. Mentre invece quando usiamo Facebook, lo facciamo per parlare con i nostri amici: abbiamo un diverso stato mentale.

In un futuro prossimo i social media saranno intermediari nel processo di acquisto?

Sono scettico: non è chiaro perché l'acquisto debba essere un'attività sociale. È ovvio che compriamo molti prodotti perché lo fanno i nostri amici, o per lo status. Ma l'idea che si proceda insieme, che tutti comprino la stessa cosa, è stata sperimentata su Internet negli scorsi 10 o 15 anni, senza successo.

Il marketing diretto, interattivo, sta cambiando il panorama in diversi modi e a diversi livelli. Perché la sfida "Obama versus Clinton" da lei analizzata è paradigmatica del potere di questo marketing diretto?

Tra il gennaio e il marzo 2007 abbiamo assistito a una prova del potere di Internet. Il punto non è come Barack Obama abbia vinto le elezioni ma come, sconosciuto, sia potuto diventare un serio contendente per la nomination democratica. Sotto molti aspetti non aveva le qualifiche per diventare un candidato presidenziale. È stato senatore per meno di un turno, e non aveva un'esperienza politica nazionale paragonabile a quella di John F. Kennedy, al quale pure è stato equiparato per la giovane età. Obama non aveva una visibilità nazionale, ma è stato bravo a mobilitare gruppi di sostenitori appassionati: un'organizzazione che in politica non sarebbe mai stata possibile prima.

Avrebbe potuto farlo anche Hillary Clinton?

Clinton non poteva usare i social media alla stessa maniera di Obama. Doveva mantenere una certa dignità, la propria posizione di ex first lady che ha abitato alla Casa Bianca per otto anni. Un ruolo poco flessibile e nel quale è rimasta intrappolata. Come un brand dominante sotto attacco di uno emergente.

Al centro della rete c'è l'uomo

[IL Denaro 15/04/2010]La notizia del momento è che facebook, per numero di utenti, ha superato Google. Non sembra che questo implichi la possibilità che il motore di ricerca di Moint View possa sparire, vista anche la sempre più accentuata diversificazione dei servizi offerti e il consolidamento in settori chiave, come l'online advertising. D'altro canto, sembra che le logiche che sono dietro al successo di Facebook, ovvero quelle di social networking, non siano facilmente replicabili neanche dai talenti di Google, che ha recentemente fatto flop con due dei progetti su cui più ha puntato negli ultimi tempi, Google Wave e Google Buzz. Progetti ambiziosi, che sono stati lanciati come "killer application" ma che poi non hanno fatto troppa breccia nella massa degli utenti, nonostante i diversi apprezzamenti ricevuti.
Il superamento da parte dei social network e delle logiche del 2.0, del web più tradizionale, ha generato una serie di corto circuiti capaci di mandare in tilt esperti e aziende.
La smania di creare e condividere, copincollare e postare, caricare e scaricare, sembra aver creato non pochi incubi e non meno preoccupazioni. I giornali tradizionali sono in una crisi continua, che sommata alla congiuntura economica mondiale del 2009 ha fatto vittime eccellenti e prodotto risposte inadeguate e ancora troppo sperimentali. La paura che il tracollo del mondo discografico a causa della diffusione delle nuove tecnologie possa estendersi a molti altri settori produttivi crea di continuo scompiglio.
Eppure l'affermarsi di Facebook e Twitter sembra inarrestabile, e inevitabile si delinea la necessità di un cambio paradigmantico del modo in cui siamo abituati a percepire il mondo e le relazioni, economiche, culturali e sociali. In questo senso la recente conferma della condanna a Google in Italia, per un video postato da un utente su YouTube, sembra disallineare il nostro Paese rispetto a queste logiche. Ciò che invece si fa necessario, e il bisogno di trasformare logiche poduttive, commerciali, sociali, "normalizzando" e regolando ciò che già è in corso, evitando uno scontro deleterio e che alla lunga porterebbe solo a un naufragio.
La vittoria di Facebook su Google, che è la vittoria del web 2.0, presenta tanti aspetti negativi, ma non più di quanti poteva sembrare che ne presentasse la vittoria della tv sul cinema, o del cellulare sul telefono.
Guardare invece al web 2.0 come a un'opportunità e a una svolta positiva permette lo sviluppo di nuove forme di produzione e comunicazione.
A questo si deve il diffondersi di applicazioni, che governano e rendono utile ciò che a un'analisi superficiale può sembrare deleterio, se non pura perdita di tempo. Ultimo caso, restando in ambito giornalistico, il lancio di un'applicazione per Twitter, che permette di trasformare i post degli utenti in un vero e proprio quotidiano on line, accogliendo informazioni e notizie direttamente dagli opinion leader dei diversi settori di interesse, che quotidianamente e volontariamente, aggiornano i propri profili con informazioni interessanti.
Per questo chi lavora al mondo di domani, chi cerca risposte, chi guarda a quel che accadrà e non a quello che finora è successo, cerca di trasformare la rete di oggi nel web del futuro.
Carmine De Falco

mercoledì 14 aprile 2010

Dal web a Twitter al non profit L'ultima rivoluzione dei media

[La Repubblica 14/04/2010] Il Pulitzer, il più prestigioso tra i premi giornalistici, è andato a un sito d'informazione online e senza scopo di lucro. I nuovi canali che cambiano il sistema dell'informazionedal nostro inviato ANGELO AQUARO

Dal web a Twitter al non profit L'ultima rivoluzione dei media
NEW YORK - Siamo tutti reporter? Magari un giorno la insegneranno a scuola, e non solo di giornalismo, la canzoncina che ricorda quella vecchia filastrocca di Roberto Benigni e Tom Waits: "i-Report, U-Report, We all Report...".

No, non è solo uno scioglilingua: i-Report è il programma della Cnn che raccoglie le segnalazioni dei lettori, video e foto fatte al telefonino, immagini rubate nel posto giusto e al momento giusto: e dove nessun giornalista è magari arrivato. E u-Report è il programma rivale della Fox: così seguito che News Corporation, l'impero multimedia di Rupert Murdoch, ci ha fatto un'applicazione per l'iPhone.

Li chiamano new media: i-Reporting, giornalismo online, no profit journalism. Il riconoscimento ufficiale è arrivato l'altra sera dalla giuria più prestigiosa del mondo, quella che la Columbia University chiama ogni anno ad assegnare i 14 Pulitzer dedicati al giornalismo. La prima volta di un premio assegnato a un'agenzia che vive solo online ed è no profit, ProPublica. La prima volta di un vignettista che pubblica solo online, Mark Fiore. La prima volta di un giornale, il Seattle Times, premiati per l'utilizzo di Twitter.

Qualcosa è cambiato? "Prendiamo nota che la morte del giornalismo è stata abbondantemente esagerata: è vivo e vegeto e festeggia anche. Soprattutto al New York Times".

Bill Keller, che del Times è il direttore, ed è stato lui stesso un vincitore di Pulitzer, ha ragione da vendere. In fondo, la notizia sarà anche la prima volta dei new media, ma su 14 premi il suo giornale ne ha vinti tre, sconfitto di misura (quattro) solo dal rivale
Washington Post, con cui gareggia dai tempi d'oro del giornalismo d'inchiesta. E poi Keller può gongolare due volte. In fondo il riconoscimento di ProPublica, che ha vinto per una mega inchiesta sulle morti sospette all'ospedale di New Orleans dopo Katrina, è anche un po' suo: il servizione di Sheri Fink è stato prodotto e pubblicato dal magazine del Times.

Dice Paul Steiger, che è arrivato a dirigere la prima agenzia online no proft dopo una vita passata al Wall Street Journal, che il premio è una "validition", una sorta di "timbro": "Essere riconosciuti da una giuria del genere è un onore. È come dire: ecco, ci sono anche loro, sono una realtà, stanno facendo del giornalismo serio". Quella di ProPublica è una scommessa nata tre anni fa con un bonus di 10 milioni di dollari all'anno promesso da una finanziaria. "L'inchiesta di New Orleans è l'esempio più potente di quello per cui siamo nati: fare luce sugli abusi del potere, dare la possibilità al pubblico di conoscere". Che poi sarebbe la missione dei giornali tutti.

Non è l'unica inchiesta di ProPublica finita sotto la lente dei Pulitzer. E neppure un caso che Sheri Fink, medico prestato al giornalismo, abbia già pubblicato fior di reportage su un altro "giornale che non c'è": quel Daily Best che è il sito online con cui Tina Brown ha scommesso sul futuro, dopo una vita dorata tra Vanity Fair e il New Yorker.

Un altro giornalismo è possibile? Un osservatore smaliziato come Alan Mutter per la verità sul no profit frena. Basta fare due conti, dice. Il giornalismo dei quotidiani di qualità Usa costa 88 miliardi di dollari l'anno. Una signora cifra, addirittura un terzo di quei 307,7 miliardi di dollari che le associazioni no profit hanno ricevuto nel 2008. E la recessione, oggi, ha stretto i cordoni della borsa a tutti.

La domanda è sempre quella: chi paga per chi? Sig Gissler, l'amministratore del Pulitzer, giura che il futuro è misto. Il modello, insomma, può essere quello che ha portato a premiare ProPublica e il New York Times. "Ne vedremo sempre più di queste partnership: proprio perché ci aspettano tempi duri".

La strada allora sembra segnata: modello misto, new e old media, no profit e profittevole... Roy J. Harris Jr, l'autore di Pulitzer's Gold: Behind the Prize for Public Service Journalism, l'aveva predetto alla vigilia sul Washington Post. Il premio deve dare un segno, "finora ha sempre offerto una guida per capire dove va la professione". Come un mago, Harris aveva detto di prestare attenzione proprio al lavoro di ProPublica e poi a quelle "vignette animate" che sempre più in America finiscono in cima alle pagine più cliccate dei siti di news.

Chissà la vignetta che ci regalerà adesso Mark Fiore, il quarantenne disegnatore del San Francisco Chronicle, pardon, di SFGate. com, visto che i suoi lavori vanno solo online. Anche qui, per carità, il suo premio è un compromesso: perché è vero che va a un sito, ma sempre a un sito di un quotidiano. "Che cosa si fa quando si vince un Pulitzer? Ci si ributta nel lavoro o si può mandare tutto all'aria?" chiede ai suoi colleghi Fiore, che non può certo perdere ora il dono della battuta.

Dice Ken Auletta, l'autore di Googled, l'uomo che proprio la Columbia University ha definito il più attento reporter dei nuovi media, che il Pulitzer è l'ultimo segnale ricevuto: attenzione, il mondo sta cambiando. Al punto che i nuovi media sostituiranno quelli più tradizionali? "Questo nessuno può dirlo ancora. Ma conosciamo già l'impatto tremendo che i media digitali hanno avuto sulla diffusione e sulla pubblicità dei giornali, sul modo con cui i cittadini si avvicinano alla tv o al cinema: attraverso Internet...". Il mezzo che rischia di cambiare il messaggio. "Basta piangersi addosso: la vera sfida è sfruttare i nuovi mezzi per modernizzare il vecchio sistema. E recuperare i lettori perduti".

Facile a dirsi. Ma come? Uno che domenica sera, proprio alla vigilia della proclamazione dei Pulitzer, non riusciva a smettere il sorrisino d'ordinanza era Eric Schmidt, il Ceo di Google, croce e delizia dei media tradizionali, che ricorrono a Internet per scovare e ridistribuire notizie ma poi sempre da Internet se le vedono rispiattellare gratis. "Guardate che cosa stanno diventano i blog: il giornalismo di alta qualità trionferà", ha detto, a sorpresa, Schmidt a un summit con i dirigenti dei più grandi giornali d'America. "Abbiamo solo un problema di modello di business: non è un problema di modello di informazione". Lui è sicuro: "Svilupperemo nuove forme per fare soldi". Dov'è la trappola: "Risposte semplici non ce ne sono. Provate a seguire il modello Google: sperimentare".

I grandi vecchi del Pulitzer sembrano averlo ascoltato e il giornalismo sta già scrivendo una nuova pagina. L'"attacco", come si dice nel gergo degli articoli, sta venendo benissimo.

Chissà come finirà.

martedì 13 aprile 2010

Uso e-mail resiste ai social network

[ANSA 13/04/2010]Emerge da un sondaggio negli Usa della societa' eMarketer.
La e-mail resiste al crescente utilizzo dei social network. E' quanto affermano gli analisti della societa' di ricerche eMarketer. Secondo un sondaggio di Windows Live, condotto su un campione di utenti statunitensi, piu' di 7 internati su 10 hanno indicato l'e-mail come mezzo preferito per comunicare con famiglia e amici rispetto ai siti di social networking. Se gli utenti avessero a disposizione soltanto uno di questi strumenti, il 71% ha risposto che sceglierebbe l'e-mail.

Politica e Web: la svolta?

[L'espresso 13/04/2010] di Fabio Chiusi
Il modello di "dibattito digitale" in Gran Bretagna. L'interesse di Berlusconi per i social network. Dopo anni di indifferenza, i leader di partito si avvicinano al Web. Percorrendo strade diverse

Non tutto il mondo è paese. Se in Italia infatti la rete è ancora poco usata per il confronto politico ad alti livelli, nel Regno Unito "Democracy UK on Facebook" sta cercando di realizzare un vero e proprio "dibattito digitale", dando la possibilità ai sudditi di Sua Maestà di interagire con i candidati dei tre principali partiti che si sfideranno a maggio. La pagina, aperta con lo scopo di "unire i cittadini e la politica", conta in tre settimane già trentacinquemila iscritti, novecento dei quali si sono avvalsi della possibilità di porre domande a Gordon Brown, David Cameron e Nick Clegg per iscritto su Facebook o tramite video su YouTube, oppure più semplicemente di esprimere un giudizio sulle questioni sollevate da altri concittadini (i voti raccolti sono oltre ventitremila).

Il 28 aprile, a pochi giorni dalle elezioni, verranno raccolte dieci domande tra tutte quelle inviate nelle cinque categorie disponibili (economia, educazione e sanità, sicurezza, politica estera, varie). I tre candidati vi risponderanno, neanche a dirlo, su Facebook e YouTube con video di un minuto per ciascun tema. Contrariamente a quanto avviene nei confronti televisivi, nessuno potrà "giocare di rimessa", ributtando al centro la palla scagliata a bordo campo dagli avversari: le registrazioni saranno separate l'una dall'altra. Una innovazione non da poco per una politica dominata dagli artifici del tubo catodico, che spesso finisce per premiare non chi ha le idee più solide, ma chi sia capace di avere l'ultima parola sempre e comunque.

Ma non è tutto qui: su "Democracy UK on Facebook" il "digital debate" non finisce mai. Un questionario, ad esempio, aiuta l'elettore a orientarsi tra le diverse proposte politiche. Tramite l'applicazione "Vote Match", sviluppata dal think tank Unlock Democracy, l'utente può esprimere il proprio giudizio su trenta affermazioni programmatiche, come "il Governo dovrebbe ritirare le truppe dall'Afghanistan entro un anno", "Dovremmo costruire nuove centrali nucleari" o "il numero dei parlamentari dovrebbe essere ridotto del 10%". Non solo. L'elettore è chiamato anche a indicare quali siano i temi che ritiene più e meno importanti. A seconda delle risposte fornite, una schermata riassumerà l'affinità con i diversi partiti presenti alle urne. Non mancano le misure per contrastare l'astensionismo, una piaga che, come dimostrato ampiamente dalle recenti elezioni Regionali, affligge in misura crescente anche l'Italia. La bacheca della pagina, infatti, fornisce indicazioni precise su come votare, oltre a consentire, grazie a "Vote Badge", di condividere con tutti gli amici un link che reca la scritta "io voterò" - con tanto di possibilità di spiegare loro perché.


Le prime "internet elections", dunque? Non tutti sono d'accordo. Un sondaggio riportato dall'Associated Press rivela che il 63% dei votanti si rivolgerà ancora alla televisione per informarsi sulla sfida che rischia di ridisegnare il volto della Gran Bretagna. Il 47% ricorrerà ai quotidiani (cartacei) e il 27% alla radio. Soltanto un britannico su dieci farà ricorso al web. La percentuale sale, ma non di molto, tra i "nativi digitali". Addirittura il 65% dei diciottenni ignora del tutto la presenza dei partiti politici in Rete. Il Guardian rincara la dose: "Altro che internet elections, queste sono le ennesime broadcast elections", scrive Emily Bell. Che porta ad esempio della natura, per così dire, "analogica" della politica britannica l'approvazione frettolosa e distratta del "digital economy bill" (o #debill, per il popolo di Twitter), un pacchetto massiccio di riforma della legislazione anti-pirateria e promozione della diffusione della banda larga che ha visto disattese le speranze dei netizens di un dibattito serio e articolato in Aula. I deputati, come la diretta in streaming ha impietosamente mostrato, hanno invece fatto capolino solo per la votazione. Con il risultato di aver prodotto una legge che, sostiene il Times, "non avrebbe mai dovuto passare. Indipendentemente dal proprio credo politico o dal rischio che i siti che violino il diritto d'autore vengano bloccati e i suoi utenti disconnessi dalla Rete". A fronte di questi dati, e di una classe politica che crede che "IP" stia per "intellectual property" e non "internet protocol" (chiedere a Stephen Timms, ministro - neanche a dirlo - per la "Digital Britain"), a che possono valere gli sforzi di Democracy UK on Facebook?
A non poco, sostiene Sophy Ridge di "News of the World", protagonista sabato di una chiacchierata pilotata proprio dalle domande degli utenti del social network. La giornalista, raggiunta da "L'espresso", si dice fiduciosa: "Credo che il Digital Debate avrà una reale influenza sull'esito delle elezioni, anche perché i media tradizionali riprendono ciò che avviene online. Ma c'è un'intera generazione che non legge i giornali e guarda le news in tv, perciò è davvero importante che i politici siano in grado di raggiungerla e instaurare un confronto". Entusiasta anche Richard Allan di Facebook, secondo cui siamo in presenza di "un allontanamento decisivo dai limiti imposti dall'alto dai media tradizionali che cambierà per sempre il modo di fare campagna elettorale: finalmente saranno davvero gli elettori a decidere".

Dubbi? Gli scettici dovrebbero guardare all'Italia, e alla seconda "discesa in campo" del Cavaliere: quella su Facebook. Che si è servito per la prima volta della pagina ufficiale de "Il Giornale" per rimarcare il suo impegno a usare anche il social network per "ascoltare i suggerimenti dei cittadini e formulare delle scelte in sintonia con il sentire del nostro popolo". Una vera e propria innovazione nel panorama politico nostrano, paragonabile a quanto detto circa la Gran Bretagna? No: un monologo infatti, digitale o meno, è ben diverso dal dibattito che l'uso di un social media avrebbe reso possibile. Non è corretto dunque affermare che "Silvio discute con tutti su Facebook": semplicemente, il premier ha fatto una telefonata alla redazione di Feltri. Che ha deciso di diffonderla sul social network, lasciando agli utenti la possibilità - peraltro ampliamente sfruttata - di commentare le parole di Berlusconi. Poco a che vedere con l'idea di democrazia diffusa oltremanica: là i leader rispondono alle domande poste dagli utenti, in Italia gli utenti rispondono alle sollecitazioni del leader. Niente di nuovo, per chi è abituato a padroneggiare la comunicazione televisiva. Basta non scambiarla per qualcosa di più: qualcuno, tra i quasi sedici milioni di italiani iscritti a Facebook, potrebbe iniziare a fare delle domande al premier. E, questa volta, sentirsi legittimato a pretendere delle risposte.

lunedì 12 aprile 2010

Web 2.0 sul posto di lavoro? Le aziende europee dicono "ni"

[Corriere delle Comunicazioni 11/04/2010] Trend Micro: la metà delle imprese è favorevole all'utilizzo delle nuove tecnologie da parte dei dipendenti, ma altrettante temono cali di produttività
Se l’uso delle nuove tecnologie Web 2.0 sta prendendo piede tra gli utenti, non solo nella sfera privata ma anche in quella lavorativa, lo stesso non si può dire delle aziende che, al contrario, temono gli effetti in termini di calo della produttività e protezione dei dati aziendali.

A portare alla ribalta questa trend è l’indagine "Potere alle persone? Gestione della democrazia tecnologica sul posto di lavoro", effettuata da The Economist Intelligence Unit per conto di Trend Micro su un campione di 390 dirigenti di Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Svezia e Russia. La ricerca ha messo in evidenza che poco meno della metà degli intervistati (il 48%) si dichiara favorevole a incrementare la libertà tecnologica nella propria azienda, ma nel contempo, quasi la stessa percentuale (il 47%) dichiara l’esatto contrario.

In questo contesto i lavoratori reclamano una maggiore “democrazia tecnologica” per poter usare applicazioni come i social network e svolgere meglio il proprio lavoro.

Le società europee restano però scettiche di fronte al concetto di democrazia tecnologica. La diffusione di questi tipi di hi-tech amplia, sì, la libertà di scelta dei dipendenti introduce ma molte incognite in un sistema prestabilito di funzioni e responsabilità nel settore IT e, pur creando nuove opportunità professionali, espone le aziende a rischi che per anni hanno tentato di gestire e contenere.

Dal sondaggio emerge che più del 40% dei dirigenti europei sarebbe pronto ad affrontare i rischi legati alla democrazia tecnologica pur di sfruttare al massimo i vantaggi per le aziende, mentre il 23% reputa che rischi e opportunità si equivalgono. Il 31%, invece, sostiene che sono maggiori i rischi rispetto alle opportunità. I vantaggi principali individuati dagli intervistati consistono in una maggiore innovazione (31%), il morale dei dipendenti più alto (27%), e una più efficace collaborazione con i partner esterni (25%)..
Le aziende concordano inoltre sul fatto che i rischi principali legati alla democrazia tecnologica sono il calo della produttività (35%), la perdita di informazioni riservate (32%) e una maggiore vulnerabilità ai virus (24%). Da un lato infatti, fino ad ora non sono pochi i dipendenti che hanno sprecato un consistente lasso di tempo di lavoro utilizzando applicazioni Web 2.0 per scopi personali; dall’altro, alcune aziende hanno subito ingenti danni a causa della pubblicazione di informazioni sensibili sui blog.

Nello specifico le imprese italiane concordano sul fatto che sia aumentato l'uso di social network e applicazioni simili sul posto di lavoro: ne sono certi ben il 42,9% degli interpellati mentre il 34,7% dichiara di ritenere il fenomeno probabile anche se non ne ha la certezza. Per il momento, tuttavia, l'uso dei social network sul posto di lavoro, secondo il 71,4%, sembra rispondere più a un'esigenza personale dei dipendenti che a una necessità di tipo lavorativo. Il 63% ritiene di poter avere fiducia nel fatto che i dipendenti usino le applicazioni e i dispositivi in modo appropriato rispetto agli scopi lavorativi.

La percezione dei rischi da parte dei manager italiani è sostanzialmente simile a quella dei colleghi europei: secondo il 42,8%, infatti, l'uso dei siti di social network avrebbe incrementato i rischi per la sicurezza dei dati aziendali. Alla domanda "come i senior manager dell'azienda valutano il trade off rischi - opportunità nel concedere maggiore libertà di usare le nuove tecnologie Web 2.0 sul posto di lavoro" , il 38,8 % ritiene le opportunità superiori ai rischi contro un 28,5% che le ritiene inferiori. Ben il 30,6% ritiene vi sia invece allo stato attuale un bilanciamento tra le due voci. I timori legati alla diffusione delle nuove tecnologie sul posto di lavoro sono simili a quelli manifestati dai manager degli altri paesi: il 46,9% è d'accordo nel valutare la riduzione della produttività dei dipendenti come uno degli inconvenienti più probabili derivanti dall'uso dei social network, ma non solo.

Secondo il 32,7% i siti di social network (in particolare Facebook e LinkedIn) potrebbero mettere a repentaglio le informazioni aziendali. Nonostante ciò, i manager italiani sembrano preferire una regolazione "soft" delle nuove tecnologie: ad essere colpite da un divieto assoluto di impiego potrebbero essere invece le applicazioni e i siti di file sharing (un'indicazione data dal 59,2% degli interpellati).

Ma quali sono strategie da mettere in campo per evitare la “democrazia tecnologica” si trasformi in una minaccia alla sicurezza aziendale? Secondo lo studio è essenziale redigere linee guida specifiche per l’uso delle nuove tecnologie e formare i dipendenti. È inoltre necessario sviluppare strumenti di social network interni all’azienda e favorire la collaborazione tra unità aziendali e team IT.

di Federica Meta

Quando il Social Network è veramente Social.

[StoriaDossier 11/04/2010] Un video denuncia, una nobile causa, ed un gruppo su Facebook. Sono questi i pochi ingredienti necessari, sufficienti a far fare retromarcia ad una lobbie riguardo all'ennesimo episodio di sfruttamento indiscriminato del nostro pianeta.


Sembra quasi incredibile come a volte basti veramente poco per far tornare sui propri passi una multinazionale, almeno è questo ciò che sta succedendo da qualche giorno a questa parte, per quanto riguarda i piani di disboscamento che la Nestlè, nota azienda mondiale sta effettuando per creare nuove piantagioni per l'estrazione dell'olio di palma, provocando uno squilibrio ambientale che viste le ingenti quantità, sta sconvolgendo il delicato ecosistema indonesiano.

L'allarme, scattato ai primi di aprile, ha immediatamente mobilitao l'associazione naturalista Greenpeace, che si è subito mobilitata, per contrastare lo scempio che sarebbe costata la vita a innumerevoli oranghi, non trovando questi più il loro habitat. La campagna informativa, intile dirlo, è passata inosservata ai mezzi di informazione tradizionale che non hanno trattato affatto l'argomento.

Nonostante ciò, la risposta sul web è stata immediata e consistente; dal sito di Greenpeace, e dai vari gruppi sui social network (primo fra tutti Facebook), è partita una vera e propria battaglia serrata che ha portato all'invio di oltre 100.000 mail, inoltrate sul sito di Nestlè, affinchè l'azienda smettesse lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali.

Per tutta risposta, la protesta ha indotto la società ad annunciare l'esecuzione di piani per l'eliminazione dell'olio di cocco dai prodotti che ne fanno principalmente uso(Kit Kat), già a partire da metà maggio. Inoltre sempre i portavoce di Nestlè, hanno annunciato di utilizzare solo olio certificato come sostenibile entro il 2015.

L'olio di palma, è uno degli ingredienti fondamentali per la preparazione dei prodotti di casa Nestlè
Putroppo però, come spesso accade, si cerca di salvare la faccia ed il portafogli. Ecco perchè la Nestlé ha cominciato a bloccare le mail di tutti quelli che sostengono la campagna contro Kit Kat, allo stesso tempo, l'azienda cerca di trovare sotterfugi.

Le linee telefoniche di Nestlé, però, sono ancora attive.
Che ne dite di fargli uno squillo? Ecco tre buoni motivi per farlo:

1. Nestlé ha dichiarato pubblicamente che cancellerà i propri contratti con il “campione” della deforestazione in Indonesia Sinar Mas, in realtà, però, continuerà a utilizzare olio di palma di Sinar Mas, acquistandolo da aziende terze come Cargill.

2. Nestlé deve interrompere immediatamente i propri rapporti commerciali con aziende che distruggono la foresta. Ma impegnarsi a farlo entro il 2015 non è abbastanza. Le foreste indonesiane, le persone che le abitano e gli oranghi non possono più aspettare.

3. Nestlé deve assicurarsi di ripulire tutta la propria filiera di produzione. Questo significa interrompere i rapporti commerciali anche con APP, una società sussidiaria proprio di Sinar Mas che da questa ha ereditato la cattiva abitudine di distruggere le foreste. APP con le sue piantagioni intensive produce carta che Nestlè utilizza per il packaging dei propri prodotti.

La battaglia è ancora lunga, ma l'importante è non abbandonare la lotta, perchè le grandi lobbie vivono sulla pubblicità e quando questa è negativa, le cose per loro iniziano a complicarsi.

venerdì 9 aprile 2010

Adsl, la bugia della velocità "E' metà di quella pubblicizzata"

[La Repubblica 08/04/2010]

Pubblicato il primo studio complessivo sulla banda larga italiana: gli utenti pagano per prestazioni che i provider non garantiscono. Penalizzati soprattutto gli abitati dei comuni minori di ALESSANDRO LONGO

LA VERA velocità delle adsl italiane è circa la metà di quella pubblicizzata e penalizza soprattutto gli utenti di alcune zone geografiche. Gli abitanti delle città medio-piccole navigano più lenti e in certi casi pagano di più degli altri. È quanto svelato dal primo studio complessivo sull'adsl italiana, condotto da Between-Osservatorio Banda Larga. La ricerca si avvale di 120 mila test delle connessioni, in un centinaio di province italiane, con il contributo di 11.400 utenti campione.

Il primo risultato che balza agli occhi è che la velocità media è di 4,1 Megabit al secondo in download, mentre ora le Adsl sono vendute con tagli "fino a" 7 o 20 Megabit. La velocità è un'alea: varia molto a seconda dell'operatore, della zona geografica e della fascia oraria. Nelle ore di punta e nei comuni meno importanti scende fino a 2 Mbps in media, mentre gli utenti più fortunati possono arrivare a 5 Mbps.

L'Italia è divisa in due: anche se il 90 per cento circa della popolazione può avere l'adsl, solo una parte può navigare davvero veloce e avere le offerte più economiche sul mercato. Il 50 per cento degli italiani, infatti, non è raggiunto dalla rete diretta (in "unbundling") degli operatori alternativi a Telecom Italia. Per loro, i canoni base per i servizi banda larga e telefonici tutto compreso sono quindi più alti di circa 5 euro al mese. Il danno è doppio: pagano di più e navigano più lenti, poiché fuori dalla propria rete gli operatori alternativi hanno al solito meno risorse di banda.

E il quadro sta peggiorando: secondo i sondaggi di Between, la qualità banda larga percepita dagli utenti è diminuita del 10 per cento negli ultimi due anni. Man mano che cresce il numero di utenti connessi, infatti, la rete in rame (su cui funzionano le adsl) è sempre meno affidabile e veloce, come già paventato dal
rapporto Caio al governo un anno fa. La soluzione sarebbe dotare il Paese di una nuova rete in fibra ottica che arrivi fino alle case, ma a riguardo i lavori in Italia procedono a rilento rispetto agli altri Paesi evoluti, poiché mancano fondi pubblici a supporto.

Nel frattempo, cosa può fare l'utente per evitare delusioni o per rimediare, se scopre di avere un'adsl lenta? Between consiglia di usare il software Isposure, che testa la connessione e dice quali operatori offrono un servizio migliore nella stessa zona.

Ma presto gli utenti potranno contare su altre soluzioni: "A maggio pubblicheremo i primi risultati ufficiali sulla qualità delle connessioni adsl", fanno sapere da Agcom (Autorità Garante delle Comunicazioni). Gli operatori si impegneranno a garantire velocità medie e minime. Gli utenti avranno diritto a disdire l'abbonamento senza costi, se le promesse saranno tradite. Potranno verificare la velocità della propria connessione con un software che Agcom fornirà a ottobre.

Gli utenti italiani non sono i soli ad affrontare questi problemi: anche le offerte banda larga inglesi hanno velocità medie reali che sono la metà di quelle pubblicizzate, come rileva uno studio pubblicato dall'Ofcom (l'authority tlc inglese) a fine marzo. Ofcom adesso sta esortando gli operatori a rispettare le promesse. Bisognerà vedere se l'Authority italiana riuscirà a essere più incisiva di quella inglese nel rimettere in riga gli operatori.

giovedì 8 aprile 2010

Privacy: sicurezza dei minori per internet e social network

Internet e i social network sono sempre più usati anche da utenti minorenni. In particolare risulta che l’86% dei minori tra gli 11 e i 14 anni naviga abitualmente il web, visualizzando video (65,2%), chattando (62,2) e condividendo materiale e parole sui social network (43,7%). A fronte di questo massiccio uso delle nuove tecnologie si pone un problema di sicurezza e di privacy per il materiale che si decide di pubblicare on line, in particolare per le foto e per i dati personali. Per far fronte a questa nuova attitudine e aiutare a salvaguardare i più giovani da manomissioni e usi anche illeciti dei loro dati l’Adiconsum ha redatto un manuale "Io ci metto la testa. Quando la privacy viene messa in vetrina", consultabile on line. Uno strumento utile per i giovani e per i genitori che possono imparare insieme ai propri figli cosa è bene fare e cosa è meglio non fare quando si naviga per tutelare se stessi e la propria "faccia".

Leggi anche

Bambini e sicurezza internet

Link consigliato

Adiconsum – Io ci metto la testa (in formato .pdf)

Social Network e Apprendimento - Convegno SIREM

di Stefano Besana

La Settimana del Tribal Marketing – Il marketing tribale, fra postmodernismo e web 2.0

[Ninja Marketing 08/04/2010] Come vi avevamo annunciato parte oggi la Settimana del Tribal Marketing, una serie di post tematici che introducono il marketing tribale in vista del primo corso in “Non-Conventional & Tribal Marketing” di Ninja Academy che si terrà a Milano il 23 e 24 aprile. Come promesso, partiamo dal principio: cos’è il marketing tribale?

Per spiegare il Tribal Marketing bisogna partire dal concetto di Tribalismo. Come afferma Bernard Cova oggi viviamo in una situazione unica, siamo per la prima volta davvero liberi. La postmodernità sarebbe infatti caratterizzata da un estremo individualismo, “logico punto di arrivo della modernità, durante la quale si è perseguito in ogni modo l’affrancamento da tutti i legami sociali”, per questo motivo molti hanno definito l’epoca attuale anche come l’era dell’individualismo.

Al tempo stesso appaiono chiari i tentativi dell’individuo post moderno, sempre più isolato e incerto, di riaggregazione sociale e di ristabilimento di legami sociali arcaici e comunitari, sulla base di libere scelte emotive e passionali, più che razionali.

Ecco che quindi entrano in gioco quelle che Cova chiama neotribù o tribù postmoderne, ovvero gruppi che presentano una doppia identità, insieme primaria e secondaria, che rende possibile agli individui mantenere alto il livello di autonomia pur facendone parte.

Le tribù postmoderne sono più effimere, fragili e instabili di quelle tradizionali, ogni individuo infatti può far parte di più tribù, in cui svolge più ruoli, indossa maschere molto diverse fra loro e può uscire dal gruppo quando vuole. Si mantiene quindi molto alto il livello di libertà e autonomia in comunità in cui il controllo esercitato sui membri è molto più debole e non esistono regole troppo rigide o pesanti, regole che gli individui postmoderni non avrebbero intenzione di rispettare.

Questa la definizione di tribù:

Una tribù postmoderna (o neotribù) è un insieme di individui non necessariamente omogeneo (in termini di caratteristiche sociali obiettive) ma interrelato da un’unica soggettività, una pulsione affettiva o un ethos in comune. Tali individui possono svolgere azioni collettive intensamente vissute, benché effimere

Le tribù postmoderne possono avere diversa natura, legata alla diversa passione che accomuna i vari membri. Esistono comunità formatesi intorno ad uno sport estremo o ad una fede calcistica, intorno ad un hobby come il giardinaggio o l’astrologia, le associazioni ambientaliste o in difesa dei diritti umani, così come possono esistere tribù formatesi intorno ad un marchio o un prodotto. Ciò che accomuna tutte queste tribù però è la reintegrazione di rituali, assistiamo infatti alla proliferazione di rituali di ogni tipo, ognuno dei quali necessita dei propri supporti:

- Le cose (gli oggetti di culto)
- Gli abiti (costumi rituali)
- Gli spazi (i luoghi del culto)
- Le parole (formule magiche)
- Le immagini (idoli e icone)

Le possibilità offerte dal Web 2.0 combinate con il desiderio dell’uomo post moderno di comunità, fanno si che moltissime di queste comunità è tribù si configurino come virtuali. La rete infatti offre ad ogni singolo individuo la possibilità di interagire con un numero enorme di utenti e di condividere con questi interessi comuni, sviluppando un vero senso di appartenenza.

Le comunità e le tribù virtuali di fatto rispecchiano appieno le caratteristiche tipiche delle comunità e delle tribù off line. Ciò che le differenzia da queste è la possibilità di dare vita, attraverso la loro azione, ad un cultura partecipativa o ad un’intelligenza collettiva.

Ma cosa ancora più importante forse è che queste comunità rappresentano fondamentali luoghi sociali di discussione, negoziazione ed elaborazione collettiva, in cui ogni membro incita gli altri a reperire sempre nuove informazioni per il bene comune. Un’intelligenza quindi che migliora ogni volta che viene creato un nuovo contenuto e che si esprime attraverso la partecipazione e la collaborazione degli utenti in un ottica produttiva di contenuti, applicazioni e senso.

Tutto quanto detto finora vale non solo per l’individuo postmoderno ma, ovviamente, anche per il consumatore. Oggi è quasi impossibile utilizzare i tradizionali e rigidi criteri di segmentazione dei consumatori, nel tentativo di individuare i differenti stili di vita e le conseguenti attitudini al consumo. Come affermano Cova, Giordano e Pallera nel loro libro, infatti, gli stili di vita così come li definisce Eurisko non esistono più.

Il consumatore postmoderno si muove in maniera dinamica, ha diverse attitudini e desideri in relazione al momento che sta vivendo e al ruolo che sta ricoprendo in quel momento. Ognuno di noi in ogni momento della nostra giornata condivide qualcosa con gli altri, il che ci rende simili fra noi e quindi raggruppabili in un insieme. Possiamo quindi affermare che siamo passati dagli stili di vita ai momenti di vita .Tra le cose che gli individui possono condividere c’è lo spazio sociale, che può essere fisico o virtuale, e ogni spazio sociale ha insito propri codici simbolici, regole e particolari attitudini al consumo.

Compito dell’azienda diventa quindi cercare di raggiungere i propri target proprio attraverso questi luoghi e individuare le modalità più adatte per comunicare con le persone. Individuare le migliori modalità di interazione e

di offrire esperienze ed emozioni al consumatore postmoderno è ciò che muove le azioni del marketing tribale ed esperienziale.

Alla base del marketing tribale c’è la visione e il desiderio comunitario tipico della società postmoderna, in cui il prodotto si inserisce in quanto totem intorno al quale una tribù si costituisce o in quanto supporto dei propri riti. Il marketing tribale considera quindi le tribù sottoinsiemi di consumatori poco definiti, e l’obiettivo è quello di creare tribù intorno a nuovi prodotti, intesi come vettori di comunicazione e collante sociale, o di supportare tribù già esistenti, sostenendo il legame sociale fra soggetti uniti da una passione comune.

Il marketing tribale gioca su entrambi i piani del tribalismo:

- Il legame effettivo tra due o più individui, uniti dall’affinità;
- Il legame immaginario che permette ad ognuno di sentirsi parte di un tutto comunitario legato ad un oggetto o un luogo, in modo da accedere a un immaginario globale della comunità .

Per attuare efficaci strategie di marketing tribale è necessario che l’impresa individui i raggruppamenti tribali, offra legami e non semplicemente merci e infine metta in comune le competenze delle tribù.

Una tribù è un oggetto poco definito, aperto, è un’aggregazione momentanea che grazie ad emozioni condivise e passioni comuni istaura legami comunitari fra i membri che ne fanno parte. Le aziende devono quindi essere in grado di analizzare quando una tribù nasce, ma anche saper individuare i luoghi delle tribù, i suoi spazi associativi, le sedi di culto, i suoi riti e il suo linguaggio.

Esistono molte tribù nate intorno a un prodotto in maniera spontanea, ma esistono anche tribù indotte dalle aziende, che possono crearle, sopportarle o ospitarle. Ovviamente in quest’ultimo caso le tribù nascono con chiari e dichiarati fini commerciali. Nel primo caso invece, le tribù nascono dai desideri di comunità degli utenti/consumatori e dai loro desideri di avere maggiori informazioni sul prodotto, o su un marchio, e di uno scambio di esperienze e suggerimenti; e in quanto autocostituitesi risultano agli occhi degli utenti maggiormente credibili rispetto alle tribù indotte dalle aziende.

Il secondo compito è quello di considerare un prodotto non solo un bene ma anche un mezzo per creare e mantenere legame tribale. Come già detto in precedenza ogni tribù ha i propri rituali che rinnovano e vivificano la fede nei valori comuni, e ogni rituale si avvale dei propri supporti come gli abiti e gli oggetti, ed è proprio questo terreno fertile per le operazioni di marketing. L’obiettivo dell’azione di un impresa, come leggiamo in Marketing non – convenzionale, è quello di entrare direttamente nell’ambito degli scenari delle tribù, partecipando attivamente alla costruzione delle culture di consumo.

È forse questo il compito più importante perché l’obiettivo è la fidelizzazione di tipo affettivo dei membri delle tribù ad un marchio, in quanto un marchio/prodotto è lì con i suoi clienti ed è parte attiva delle tribù, partecipando ai suoi rituali, sinonimo di emozioni ed esperienze condivise. Ci troviamo di fronte a tentativi di fidelizzazione tribale che consentono di sviluppare un legame affettivo molto più forte di quanto si possa ottenere con la personalizzazione. Il legame plurale che si crea tra i consumatori infatti, con il sostegno di un marchio, è molto più forte della relazione fra impresa è singolo consumatore. Attraverso la fidelizzazione tribale, l’impresa offre ai suoi clienti emozioni e legami sociali, proprio ciò che gli individui postmoderni ricercano oggi nel consumo.

Infine il terzo compito è quello di far uscire le tribù da una dimensione underground per diffonderla a tutto il tessuto sociale. Si passa quindi da una fase del marketing tribale intensivo, attraverso la quale il marchio sostiene la tribù, ad una fase estensiva, attraverso cui la marca cerca di “guadagnare” dalle tribù, fidelizzando nuovi clienti mediante l’aggregazione di nuovi adepti a tali tribù.

La diffusione dell’immaginario tribale all’interno del corpo sociale punta soprattutto sul passaparola. Come già detto le tribù possono conquistare una fiducia quasi incondizionata da parte degli altri utenti e hanno quindi un enorme potere di persuasione, che le imprese possono sfruttare soprattutto con operazioni di marketing virale. È necessario però operare insieme a loro, interagendo e parlando con loro. I mercati oggi sono conversazioni , e occorre che le imprese parlino con i propri clienti, ma utilizzando un nuovo registro, passando cioè da un discorso commerciale ad un discorso non commerciale.

Nei prossimi giorni vedremo alcuni esempi di aziende che hanno saputo utilizzare con successo il marketing tribale, adattandosi a questa nuova fase del mercato.