Dopo aver concluso un dottorato di ricerca in Information society alla Bicocca di Milano, Stefano Mizzella ha accumulato una certa esperienza come relatore e consulente per i Social media, in particolare nella gestione dei procedimenti strategici. Oggi lavora in OpenKnowledge e in questa intervista ci parla de “I nuovi media e il web 2.0. Comunicazione, formazione ed economia nella società digitale” il testo scritto insieme al Prof. Paolo Ferri e Francesca Scenini.
Il titolo e gli argomenti indicati sul testo sono ampiamente dibattuti su blog e siti web. Perché leggere “I nuovi media e il web 2.0″?
Rispondo alla tua domanda raccontandoti brevemente la mia esperienza: ho terminato lo scorso febbraio un corso di dottorato in Information Society presso l’Università di Milano Bicocca e nell’ultimo anno ho avuto la possibilità di coordinare il Social Media Lab, un corso di alta formazione presso l’Università IULM di Milano. In entrambe le esperienze, la prima da studente, la seconda vissuta dall’altra parte della cattedra, mi sono occupato dell’impatto delle nuove tecnologie in ambito culturale e sociale. “I nuovi media e il web 2.0” rappresenta il frutto di un lavoro di ricerca che ho portato avanti in Bicocca insieme al prof. Paolo Ferri e a un gruppo di dottorandi e giovani ricercatori, tra cui Francesca Scenini, altra autrice del volume. L’idea che ci ha spinto a scrivere questo testo è stata la volontà di raccontare la storia del web attraverso la cultura che il web ha contributo a cambiare e generare. Abbiamo utilizzato il paradigma della Network society proposto da Manuel Castells per analizzare il passaggio dal web 1.0 al web 2.0, convinti che il valore di una rete sociale non sia stabilito tanto dalla sua estensione e ramificazione, quanto dal modo in cui l’interazione tra più individui riesce a modificare la relazione e il comportamento degli stessi. La nascita e l’ascesa del “web sociale” è stata affrontata attraverso tre punti di vista, tre angolature diverse ma complementari: comunicazione, formazione ed economia. Nuovi modi di comunicare, nuovi modi di esprimere la propria identità online, ma anche nuovi strumenti per condividere sapere e informazioni e, infine, nuovi modelli di business. Sono questi i punti di snodo attorno a cui si muove il testo, con l’obiettivo di evitare un approccio tecnologicamente determinato. Questo vuol dire studiare l’impatto innovativo di blog, microblog e social network come forme culturali e non, semplicemente, come artefatti tecnologici. Del resto, come afferma Castells, il web è, in misura sempre crescente, la trama delle nostre vite.
Passando ad argomenti più pratici, parliamo di un tema molto attuale: il Social CRM. Come sta cambiando la gestione dei clienti/utenti sulle piattaforme 2.0? Puoi fare esempi di aziende innovative?
Il tema del Social CRM riguarda la mia esperienza attuale, iniziata lo scorso gennaio, quando sono entrato in Open Knowledge come social media strategist. Negli ultimi mesi ho lavorato insieme ai miei colleghi al framework del Social CRM come processo strategico attraverso cui migliorare le dinamiche di interazione tra brand e clienti. Il Social CRM si basa infatti su un preciso presupposto: il numero sempre maggiore di utenti presente all’interno dei principali social media utilizza questi spazi non solo per conversare con amici e colleghi, ma anche per creare nuove forme di relazione con le aziende. Facebook, Youtube, Twitter e servizi basati sulla geolocalizzazione come Foursquare sono piattaforme capaci di veicolare una relazione attiva e bidirezionale tra utenti e brand, agli antipodi rispetto all’unidirezionalità tipica dei mass media. Un nuovo modo di interagire con i brand che può avere connotazioni estremamente positive (Starbucks è stata la prima azienda a superare i 10 milioni di fan su Facebook) ma anche conseguenze tragiche in termini di brand reputation e non solo (vedi la crisi di immagine di Nestlé a seguito della campagna di Greenpeace contro il KitKat). Il Social customer, come viene ormai definito, è dunque un consumatore che utilizza i social media per esprimere la propria voce al fine di avviare una relazione diretta e paritaria con il brand. È un consumatore che crede sempre meno alle sirene dell’advertising tradizionale e che, al contrario, basa le proprie decisioni di acquisto sulle recensioni online di altri utenti, anche senza avere una relazione particolarmente forte con questi. È un consumatore, infine, che chiede al brand informazioni dettagliate e personalizzate, supporto in tempo reale e la possibilità di co-creare prodotti o servizi in maniera innovativa. Utopia? Storielle da consulenti? Non proprio. I risultati in termini di business (a livello di marketing, vendite, customer care o innovazione) ottenuti da aziende come BestBuy, Comcast, Dell e Zappos, oltre al già citato Starbucks, sono qui a dimostrarci che questo non è il futuro, ma il presente. Le aziende citate sono state tra le prime a capire che quando si parla di Social CRM non si sta parlando banalmente di azioni di marketing su Facebook o Twitter. Sviluppare una strategia di Social CRM significa mettere il cliente al centro dei processi di business innovando dall’interno l’azienda attraverso gli stessi principi di collaborazione e orizzontalità che hanno decretato la diffusione e il successo dei media sociali. Ho approfondito questi temi nel breve saggio insieme al mio collega Emanuele Quintarelli, “Social CRM: mettere il cliente al centro dei processi di marketing, vendita, supporto e innovazione”, che uscirà a Ottobre all’interno del volume “Marketing 2.0″ di Harvard Business Review Italia.
Esistono molte piattaforme per tracciare e misurare il WOM online. Credi che ci siano software migliori di altri? Oppure ogni piattaforma può avere delle peculiarità specifiche caso per caso? Magari dipende dal paese e dalla lingua?
Esistono numerose piattaforme per tracciare e analizzare il WOM online. Ma il consiglio che mi sento di dare è di preoccuparsi del tool da utilizzare solo dopo aver definito alcuni fondamentali passaggi preliminari. Questo perché, nei confronti dell’Online monitoring, le aziende tendono a spaccarsi in due tronconi ben distinti: quelle che non ascoltano le conversazioni degli utenti e quelle che, pur ascoltando, non riescono a trasformare in azione i dati raccolti nella fase di analisi. Chiaramente entrambi gli approcci sono errati: chi non ascolta si perde i commenti positivi ma soprattutto quelli negativi relativi al brand o a un singolo prodotto o servizio. Non ascoltare significa anche essere incapaci di reagire in tempo reale a situazione di crisi che potrebbero mettere seriamente a repentaglio la reputazione del brand. Allo stesso modo, realizzare internamente dei report o commissionarne la realizzazione a una società esterna serve a poco se i report vengono poi lasciati in un cassetto o al massimo sfogliati di sfuggita senza troppo interesse. Ciò significa che l’attività di ascolto fine a se stessa non porta da nessuna parte. Ascoltare è dunque solo il primo passo di un processo strategico più ampio che deve poi svilupparsi nelle successive fasi di misurazione, analisi, reazione e coinvolgimento degli utenti. L’attività di ascolto dovrebbe poi essere ancorata a precisi obiettivi di busines: favorire il dialogo tra brand e consumatori, promuovere gli “avvocati” del brand (brand ambassadors), o facilitare il supporto e incentivare l’innovazione. Solo a questo punto, dunque, dovrebbe avvenire la scelta del tool. Una scelta, questa, dettata da una serie molto elevata di variabili. Personalmente lavoro spesso con tool premium come Radian6 e Sysomos. Questi strumenti ti premettono di avere una dashboard accurata e aggiornata in tempo reale e funzionano molto bene quando si deve analizzare un brand internazionale in grado di produrre una mole elevata di conversazioni online. Tuttavia, non è detto che i tool a pagamento siano sempre la soluzione ideale: se il brand è relativamente piccolo e la mole di dati generati online non è così elevata, un’adeguata combinazione dei principali tool gratuiti (BlogPulse, Social Mention, TweetTabs, oltre a Google ovviamente), unitamente all’utilizzo di un buon feed reader, consentono di creare una dashboard accurata e aggiornata senza spendere nemmeno 1 euro.
L’ultimo consiglio che mi sento di dare riguarda l’impossibilità di delegare allo strumento, free o premium che sia, l’analisi più qualitativa del monitoring, ovvero l’analisi del sentiment (i giudizi di valore, positivi o negativi, che l’utente attribuisce al brand o a un singolo prodotto). Livellandosi sempre più il livello tra le piattaforme di monitoring, la vera discriminante tra una buona analisi e un’analisi mediocre è legata di fatto alle competenze e alla sensibilità del ricercatore. Anche il miglior tool sul mercato non può fare a meno dell’intervento attivo di uno o più ricercatori, al fine di restituire il vero senso delle conversazioni attraverso la comprensione di metafore, doppi sensi o giochi di parole. Elementi, questi ultimi, difficilmente tracciabili da un algoritmo, almeno allo stato attuale.
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