A proposito di mass media, ecco una chiacchierata in chat con un esperto di social network: Dino Amenduni analizza la relazione tra rete e fenomeni politici e ragiona sugli effetti del web 2.0 sull’opinione pubblica. Un contributo per proseguire il ragionamento sulle nuove forme di comunicazione, l’informazione indipendente e i movimenti sociali.
I network relazionali sono considerati da più parti come la dimostrazione di una rivoluzione digitale in atto. Hanno contribuito in Nord Africa quest’anno e l’anno scorso in Iran a diffondere, ad aggregare e a organizzare le manifestazioni di piazza, coinvolgendo persone, superando la censura, raccontando cose che gli altri media hanno taciuto. In Italia, nonostante la massiccia presenza su Facebook, i risultati sono stati ancora poco eclatanti.
Eppure una dimostrazione del loro potere arriva dall’esperienza di Vendola in Puglia, il cui blog è considerato il migliore sito politico italiano e la cui capacità di aggregazione sui social network è superiore a quella di qualsiasi altro. Ne abbiamo discusso con colui che effettivamente sta dietro tutto questo, Dino Amenduni, da più parti considerato una sorta di guru della materia. Anche l’intervista che segue è realizzata attraverso l’uso di un social media, come si evince dagli emoticon e dallo stile del testo, che abbiamo scelto di conservare.
La nostra discussione prende il via dalla constatazione del moltiplicarsi di corsi e seminari e convegni sul marketing e la comunicazione 2.0.
«Ci sono almeno due fattori che si intrecciano – spiega Amenduni – da un lato la crescente domanda di esperti di nuovi e social media, che porta molti giovani a inventarsi una professione o un percorso curriculare che fino a poco tempo fa non esisteva. La domanda, però, non è così tanta [specie al Sud e nel nostro tessuto imprenditoriale, fatto da piccole e media imprese] da giustificare questo profluvio di formazione. Di sicuro c’è una componente di moda che induce tutti a parlare di questi argomenti o a cercare di formarsi per farsi trovare pronti alle richieste di un mercato emergente».
Ci sono segnali che ci aiutano a capire che il mercato è emergente e non una bolla momentanea?
Il mercato è emergente in Italia, altrove, specie nei paesi anglosassoni, è già maturo.
Questa potrebbe essere una prima parziale risposta che mi fa pensare che non abbiamo a che fare con un fenomeno passeggero o con una «bolla». Potrei anche citarti il caso dei casi, Obama e la campagna elettorale del 2008: i social media diventano alleati cruciali per l’organizzazione del candidato democratico per le elezioni del «Paese più importante del mondo». Nel 2012 pare che l’esperienza si possa ripetere, aggiornata.
Allo stesso tempo non posso certo ignorare il corso della storia. Sei anni fa non sapevamo nemmeno cosa fosse Facebook e ora conta 600 milioni di iscritti. Se aggiungiamo il social media cinese RenRen, con 400 milioni di iscritti, abbiamo un fenomeno da almeno un miliardo di utenti. Stiamo dunque parlando un fenomeno globale e mastodontico, ma non per questo mi azzardo a fare previsioni di qui ai prossimi sei anni
Chi ne sa di più dice che i social media non sono un modo più complicato di mandarsi sms, ma un nuovo ecosistema… Tu per esempio sei considerato una sorta di faro nazionale. Come ti ci sei ritrovato?
Una serie di coincidenze mi hanno portato dove sono. Ho studiato psicologia del lavoro, ma in fondo sono un sociologo mancato. Alla specialistica ho proseguito sul campo applicativo, laureandomi in psicologia della comunicazione, con una tesi sul comportamento di voto dei 18enni. Poi ho studiato marketing con l’idea che fosse necessario «conoscere il nemico»: ero già appassionato di politica e studiavo modelli comunicativi. In Italia, in quanto a casi di studio in comunicazione politica, non ci possiamo proprio lamentare.
A questo bisogna aggiungere anni e anni di attività di networking su un sito barese molto popolare a inizio millennio, Skakkinostri, nato come versione online del giornale del mio liceo scientifico e poi diventato la comunità virtuale online più grande d’Italia [70000 iscritti nel 2003]. Nel frattempo ho iniziato a lavorare con Proforma. Le due strade [lavoro e passione personale] si sono incrociate in EmiLab, il gruppo di lavoro di volontari sotto i 30 anni che hanno condotto la campagna elettorale a sostegno di Emiliano. È stata decisamente l’esperienza più bella della mia vita, abbiamo vinto e di lì il passaggio a lavorare anche con Nichi è stato abbastanza automatico.
Vendola è stato riconosciuto come il politico che usa i social media e il web in generale meglio di tutti gli altri. Tuttora il suo primato è ineguagliato. Naturalmente si avvale di professionisti come te. Ma quanto essere Vendola favorisce questi risultati?
PS: la questione social network è diventata di estrema attualità dopo la puntata di Report dello scorso 10 aprile. Mi verrebbe voglia di chiederti se in realtà non siamo tutti vittime della più grossa operazione commerciale della storia. Ma non lo farò. [a meno che tu non voglia rispondere:-)].
Essere Vendola è decisivo: senza contenuti i nuovi media sono particolarmente punitivi e per fortuna abbiamo una base di partenza ottima tra le attività della Regione, quelle di Sel e le attività personali.
Nichi ha una grande capacità di delega, ha capito le potenzialità dei nuovi media e si è affidato a giovani che gli hanno dato una mano a fargli fare il salto di qualità sul web. Inoltre ha capito che solo attraverso Internet avrebbe potuto crearsi una nicchia sempre più grande di pubblico e in modo indipendente dai meccanismi dei media tradizionali, in Italia più che mai.
Una puntata di Report ha sollevato la questione della privacy e del rischio in realtà di essere vittime di una delle più grosse operazione commerciali mai messe in piedi…
Sulla puntata di Report ho scritto sul mio blog sul Fatto Quotidiano. Si chiama «Facebook, il prodotto sei tu: come sempre». Non vedo troppa differenza, né etica né nel marketing, tra la pubblicità classica e l’utilizzo di artifici retorici come quello della condivisione con cui Zuckerberg ci spiega le magnifiche sorti e progressive di Facebook. Anche le pubblicità, in fondo, ingigantiscono i punti di forza di un prodotto e minimizzano i punti di debolezza.
Così come non trovo moltissime differenze tra la segmentazione del mercato attraverso i dati di ascolto televisivo/radiofonico, i dati di customer care o le ricerche di mercato e la profilazione superdettagliata di Facebook, con la differenza che almeno i social media ci propinano pubblicità che, forse, ci interessa davvero
La questione è politica più che tecnica. La domanda giusta sarebbe se è possibile che il mondo nuovo e la partecipazione passino attraverso strumenti privati? Cioè non paradossale che il rinnovato impegno civico contribuisca ad arricchire alcuni dei responsabili del disastro socioeconomico contemporaneo?
I media sono strumenti. Possono operare un cambiamento dei paradigmi [«il mezzo è il messaggio», diceva McLuhan e anche nel linguaggio [la parola taggare non esisteva fino a tre o quattro anni fa], ma non possono sopperire, da soli, ad assenza di volontà politica o allo sfascio sistematico del capitale sociale. L’Italia è uno dei paesi più individualisti del mondo nonostante nella nostra indole ci sia la tendenza alla relazione umana, al calore e all’accoglienza.
Dunque la risposta dovrà contenere un se: i media relazionali aiutano, semplificano e accelerano il processo di costruzione della società se chi li usa ha la volontà politica per farlo.
In una conversazione sulla tua bacheca su Facebook però citavi la «lunga coda»…
La coda lunga è una teoria che avrà conseguenze inevitabili, anche sulla costruzione dell’opinione pubblica e delle politiche pubbliche. Ma non sappiamo in quanto tempo avverrà questa transizione né sappiamo se in Italia ci vorrà lo stesso tempo che potrebbe essere necessario, ad esempio, negli Stati uniti.
Dunque, oggi, serve la volontà politica forte di passare all’ascolto della parte lunga della coda. Col tempo il mainstream perderà influenza e dunque il mondo cambierà in ogni caso.
Non so tu, però io non ho voglia di aspettare un periodo di tempo indefinito prima che le cose cambino J
Cosa proponi [considerando l’influenza che riesci ad esercitare]?
Propongo di inizare ad ascoltare i cittadini in modo scientifico. Ai comizi e agli eventi per strada, sacrosanti, si può unire un processo di raccolta di dati e di informazioni da parte di opinion leader, giornalisti, blogger, o anche solo dai militanti di partito che hanno un’opinione che vogliono condividere sul web. A quel punto basterebbe raccogliere questa gigantesca mole di dati [chissà quanto costerebbe comprarli. E invece così si hanno gratuitamente], sottoporla a meccanismi di analisi quantitativa e qualitativa e basare le proprie scelte politiche anche su cosa dice l’Italia, e non solo su esperienza politica o valutazioni tattiche e/o personali. I militanti e gli appassionati di politica farebbero così parte di un progetto in modo oggettivo, sarebbero inorgogliti da questa operazione, scriverebbero e parlerebbero ancora di più, rinforzando la coda della curva dell’opinione pubblica e indebolendo, dunque, i media mainstream. La strategia per battere Berlusconi potrebbe anche essere semplicemente questa.
Inoltre, l’attenzione per i social media in Italia è a mio avviso figlia della disperazione, prima di tutto. In un sistema mediatico bloccato, con tre televisioni gestite politicamente dall’editore delle altre tre, gli italiani [che non votano Berlusconi] oramai sanno di non potersi più fidare troppo di ciò che ascoltano dalla Tv, e dunque cercano altrove. Il web è dunque l’isola felice per chi sogna sistemi di informazione liberi. Certo, c’è tanta confusione e bisogna sforzarsi per pescare notizie di qualità, però l’opinione pubblica italiana non è stata soffocata solo grazie al web, e dunque non mi sorprenderei se a breve ci si interesserà di regolamentazione dell’accesso o dei modi di utilizzo della Rete.
Massimiliano Martucci
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