Ecco, una caratteristica dei social network per ultraricchi è questa: mentre voi vi divertite a mettere in bacheca i commenti sulle foto degli amici in vacanza sul cammello, nel club della signora Garnham si briga per investire risparmi. È un fenomeno molto inglese: oltre a Family Bhive (ribattezzata dalla fondatrice «the Facebook of the fortunate») sono spuntati Peers, Ecademy, Pi Capital. Quest’ultimo ospita 300 membri, tariffa di entrata mille sterline più 4mila all’anno di abbonamento. La caratteristica comune a questi network poco social: offrire agli «affiliati» strumenti e proposte di investimento, perché, come dice il responsabile David Giampaolo, «insieme siamo più smart». Social qui fa rima con financial. Anziché proposte di amicizia, circolano proposte di business.
È questa la novità rispetto alle «esclusive» comunità online modello ASmallWorld, ideato nel 2004 da un banchiere svedese figlio di ambasciatore durante una noiosa caccia al cinghiale in Germania. La sua idea era creare nel Wild Wide Web l’equivalente delle «gated community», le comunità chiuse (e sicure) per gente abbiente che si sono diffuse dall’Africa agli Usa. Queste nicchie non sono state spazzate via dallo tsunami Facebook (100 milioni di profili) e affini. Anzi. Le «baiette» diventano più appetibili a mano a mano che la Rete si fa più affollata. La Rete si allarga verso il basso? Sopra la bolgia (per quanto creativa) della piazza virtuale spuntano le terrazze degli «attici virtuali». D’altra parte c’è chi sostiene che anche i social media oggi più popolosi siano nati proprio come oasi di incontro per élite (della cultura o del denaro).
Dice Stacey Haefele, capa di una sciccosa società di marketing di New York: «Storicamente i ricchi sono i primi ad abbracciare le nuove tecnologie». Dall’ascensore allo smartphone, dalla tv ai tablets. Ma la regola vale anche per taggatori compulsivi ed esibizionisti della condivisione? Il banchiere svizzero Joachim Strahle, che guida Bank Sarasin, esprime i suoi dubbi sull’Herald Tribune: «I ricchi cercano la privacy. Non amano condividere informazioni in pubblico, anche se l’anonimato è assicurato. La maggior parte vuole godersi la vita. In sicurezza e in privato». «Esclusivo», diceva il poeta Robert Frost, è la parola più brutta del vocabolario. Oggi tutto è pubblicizzato come esclusivo, e dunque tutto potenzialmente accessibile a cani e porci. Però ammettiamolo, è un’aspirazione (tentazione) molto condivisa: esibire l’esclusivo. Anche i ricchi taggano, ma dove? Uno studio americano recente dimostra che l’80 per cento dei molto-benestanti usa i social network (contro il 61 per cento) della popolazione media. Anche se meno del 20 per cento riesce a collegarsi una volta al giorno (contro il 38 per cento dei comuni mortali). Chi non si è fatto anche solo un giro su Facebook? Obama ci tiene i comizi. Il principe William va a curiosare sotto il nome di Wales. nel mio piccolo ho fatto un test. Sono andato a cercare tra i miei compagni di liceo quello che ha fatto più carriera. Il più ricco. Matteo Arpe, brillante banchiere che ha lasciato la guida di Capitalia su un tappeto volante imbottito di milioni. Quando andavo a studiare a casa sua, spesso lo trovavo in pigiama. O forse era suo fratello. Comunque, comodi si apprende meglio. Beh, su Facebook a suo nome c’è un gruppo di fans. In memoria dei vecchi tempi al Frisi, non potrei chiedergli l’amicizia online (né eventualmente un prestito).
Michele Farina
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