[La Repubblica 29/01/2011] La metafora del trapano funziona bene. Un giorno ti è servito per montare delle mensole. Poi, nei dieci anni successivi, si è limitato a occupare spazio in una cassetta degli attrezzi che a sua volta ha preso polvere in un ripostiglio. Assumendo che per fissare i ripiani si siano fatti sei buchi e che l'attrezzo sia costato centoventi euro, fanno venti euro a buco. Che è più una parcella da dentista che da carpentiere. Le nostre case sono piene di oggetti che usiamo una volta e dimentichiamo per sempre. Il consumismo vive di bisogni indotti e acquisti impulsivi. Oggi però, complici le nuove tecnologie, cresce dal basso una sorta di movimento contrario. Che alla proprietà (esclusiva) oppone l'affitto (collettivo). O, se preferite, il "consumo collaborativo" come recita il sottotitolo di What's Mine is Yours, quel che è mio è tuo, dell'americana Rachel Botsman, una sorta di manifesto che spiega perché la Società del Noleggio fa bene a noi, all'economia e anche all'ambiente.
Una delle prime formulazioni dell'idea risale a Jeremy Rifkin, economista sensibile alle transizioni sociali. In "L'era dell'accesso" (2000), sosteneva che la proprietà era slow e l'affitto rock. Contava l'esperienza che si faceva di un bene o di un servizio, non la relazione giuridica che ci legava ad esso. Ieri la teoria, oggi la pratica. Il campione del nuovo fenomeno si chiama Netflix. La società, sfortunatamente non ancora arrivata in Italia, ha rivoluzionato il noleggio dei film. Non si deve più andare al negozio, prelevare e poi riportare. Con meno di 10 dollari al mese scegli quanti dvd vuoi, te li mandano a casa e li rispedisci in busta preaffrancata. Uno schema tanto convincente che l'anno scorso, mentre l'omologo della Old economy Blockbuster annunciava il fallimento, il suo fatturato ha raggiunto quota 116 milioni di dollari. Alla stessa maniera, mentre le vendite di auto scendevano ai minimi storici, il loro noleggio faceva segnare nuovi record. Grazie a compagnie come Zipcar e ai suoi 400 mila utenti che possono affittare qualsiasi vettura e riconsegnarla in uno dei parcheggi disseminati nelle città statunitensi. Anche varie amministrazioni pubbliche, preso nota della tendenza, hanno puntato sulle due ruote. Poi, tra le 20 mila bici del Vélib parigino e le 200 romane, la differenza quantitativa è tanto forte da diventare qualitativa. Però, insomma, l'idea è passata.
Al punto che, oltre a questi esempi più tradizionali, ne sono spuntati altri in cui anche i privati condividono i beni. Zilok, ad esempio, è figlia del francese Gary Cige. In due anni di attività sulla sua piattaforma sono stati offerti 150 mila oggetti, con circa 6000 transazioni al mese. Per non dire di CouchSurfing, in cui si mette a disposizione il divano del proprio appartamento, o Zimride, per passaggi in auto a conoscenti via social network. "Il fattore limitante prima era la fiducia", spiega a Wired il suo cofondatore Logan Green, "ma ora Facebook l'ha risolto". Per mettersi in casa, o anche sul sedile accanto, un totale sconosciuto bisognava essere particolarmente bendisposti nei confronti del prossimo. Oggi bastano un paio di clic su Google per verificare la reputazione di quasi tutti. La stessa garanzia fa prosperare siti come Swaptree, dove si scambiano libri e cd, sino a SharedEarth, dove chi ha della terra la può far lavorare a chi non ha paura di sporcarsi le mani.
Se internet ha tolto le paure, principale ostacolo, gli altri due enzimi della recente esplosione del fenomeno sono stati la crisi e l'ambiente. Al grido di "toglietemi tutto, ma non la mia Louis Vuitton", molte donne hanno cominciato a rifornirsi da Bag Borrow or Steal, specializzato nell'affido temporaneo di borse d'alto bordo. Invece di spendere 1500 dollari per una Monogram Vernis, te la cavi con 60 dollari alla settimana. Con il valore aggiunto che ti dà la possibilità di cambiare in continuazione. Quel "libertinaggio consumistico" di cui ha scritto l'Economist. "Lo stesso succede per oggetti suscettibili di rapida obsolescenza, tipo i vestiti e i giocattoli per bambini. Che senso ha comprare una tutina di marca per un moccioso che dopo tre mesi è già dieci centimetri più alto? Da qui l'idea di thredUP, specializzato nello scambio, oppure Rent-That-Toy che fa lo stesso per i giocattoli. Ci guadagnate voi, ci guadagnano gli imprenditori che si sono buttati su questo segmento (come spiega un altro libro recente, The Mesh: Why the Future of Business is Sharing), ci guadagna il pianeta. Perché meno acquisti uguale meno packaging uguale meno Co2. C'è un sacco di roba inutilizzata in giro, e niente come il web è efficiente nel metterne in contatto domanda e offerta. Come sanno benissimo i quasi 8 milioni di utenti di Freecycle, gente che, smaltendo cose che non usa più, si risolve un problema risolvendolo a chi cerca proprio quelle.
In fondo la domanda cui si deve rispondere è semplice: è meglio essere signori assoluti di un certo numero di cose o padroni temporanei di tutte le cose possibili e immaginabili? Un giornalista del New York Times, raccontando dello straordinario senso di liberazione provato quando ha deciso di vendere casa e tornare in affitto, ha risposto mutuando un'immagine letteraria: "Preferirei poter prendere a prestito dalla biblioteca di Borges piuttosto che essere proprietario solo della mia". Un ragionamento che si può estendere a innumerevoli altri campi. I downsizers californiani, quelli che puntano a vivere con cento cose, decrescendo felicemente, saranno d'accordo. Con meno proprietà, tra l'altro, si procede più spediti. Magari cantando Trav'lin light, l'inno al "viaggiar leggeri" esistenzialista della precorritrice Billie Holiday.
RICCARDO STAGLIANO'
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