[La Repubblica - Scene digitali 12/01/10]
Ci sarebbe da discutere della posizione che Gianni Riotta ieri lanciava a partire dal libro di Jaron Lanier, “You are not a gadget: a manifesto”, una bella provocazione sulla credibilità dell’informazione così come si trova in internet.
Però non ho letto il libro di Lanier, che risulta in status di “pre order” su Amazon Kindle, e quindi non vorrei affrontare una tesi senza averla vista nella versione originale. Nella “vulgata” di Gianni mi sembra che ci sia qualche forzatura. Una è questa, che Riotta dà per scontato che internet sia ormai patrimonio, sangue e vita del lavoro dei giornalisti e più in generale dell’establishment intellettuale di questo paese oltre che del mondo intero – insomma che una fase storica sia finita (e come se dall’altra parte, a difendere la rete “com’è” ci fossero soltanto stupidi lanciatori di guano nascosti dietro l’anonimato). Il problema della distruttività dei commenti anonimi è antico e faccio molta fatica a credere che sia questo il punto centrale posto da Lanier, il quale saprà certamente che il problema di libertà che vi è connesso è che mentre nell’occidente libero c’è un problema di credibilità di chi scrive sulla rete, in molti altri e importanti paesi del mondo ce n’è uno di incolumità. Fisica e politica.
Caro Gianni, sei un ottimista: in questo paese nelle redazioni, nelle case editrici, nell’accademia e nelle stranze strategiche delle aziende – dovunque in qualche modo “si pensi per professione” – la rete, come luogo e modello di reperimento ed uso dell’informazione, non è mai entrata. Non si è mai fatta modello culturale, in senso antropologico, che è esattamente il punto dal quale partono gli americani. E questo è il nostro guaio specifico. Per cui il tuo appello – e qui la forzatura la faccio io – rischia di dar nuova lingua e linfa alla furia anti google di tanti colleghi illustri (se ne leggono ormai ogni settimana) che parlano della rete come i corrispondenti di guerra parlano delle battaglie dalle stanze dei loro alberghi. E nuova linfa a una voglia di menar le mani sulla rete perché, per dirne una, YouTube toglie spettatori alla televisione generalista e ci sono i budget da difendere. E’ una tendenza, forte. Tu che sei americano per cultura non faticherai a vederla.
Non parlo di te che sei un pioniere, ma una cosa è la critica di Lanier, che matura nel cuore della cultura digitale della silicon valley, un altro conto quella del giornalismo italiano. Che di fronte alla rete ha reagito né più né meno come i maestri scriba che provarono a bruciare Gutenberg a Parigi. In parole povere, un riflesso corporativo da interesse ferito.
E ancora, però, non ci sarebbe niente di male, nella tua invocazione, se questa “esternità” non producesse come risultato l’ennesimo contributo alla normalizzazione della rete. Alla sua riduzione a uno spazio normato dai poteri intellettuali ed economici tradizionali, a “walled garden” delle telecom, in ogni momento controllabile. Suvvia, cosa dà più fastidio, il vociare dei fessi o la capacità di aggregazione di un “popolo viola”, che a me non piace molto, ma che è un fenomeno tanto taciuto quanto disturbatore di sogni in questi giorni? Ma a te pare normale che un ministro dell’interno prima parli di chiusure di pagine e siti e poi passi un po’ di tempo al telefono col rappresentante Europa di Facebook per “decidere” un modus operandi? Non ti pare ci sia un problema di libertà che si pone?
Ma non eluderò il tuo problema. Il problema dell’attendibilità esiste. Per esempio nel nostro campo. I giornali. Non lo dico io, né tu, lo dicono migliaia di persone sulla rete da molti anni. Il punto è che per te quelli sono lanciatori di guano che rendono la rete un marasma non selezionato, per me sono un pezzo di opinione pubblica. Giovane. Ci chiedono di essere meno uomini di establishment e di potere e qualcosa di più di quelle cose belle americane che parlano di cani da guardia del potere. Se faremo informazione migliore, la nostra popolarità in alto nelle pagine di risultato di Google sarà grande. Ma che dico? Noi l’informazione dei giornali vogliamo chiuderla nei recinti dell’informazione a pagamento, nei Kindle e nei pacchetti-premium. E cosa resterà dell’informazione, dopo il nostro ritiro? Wikipedia, per esempio. Che, concordo, è una cosa molto “influenzabile” e fatta da gente che avrebbe bisogno di qualche goccia di valium. Ma è l’unica che c’è (mi sbaglio, resterà anche qualche iniziativa “grassroots” tra quelle che ora cominciano). Vittorio Zambardino
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