Riecco apocalittici e integrati che, come mezzo secolo or sono a proposito dell’homo videns, se le danno di santa ragione a proposito di business e privacy sui server del web 2.0. Prima il Bauman lanciato da Repubblica e ripreso da Fabio Fazio ha parlato del carattere fasullo degli “amici” che si incontrano nei social network.
Poi Report con l’inchiesta su Facebook, Google e affini ha spiegato che gli utenti del web sono il prodotto che viene venduto per fini di propaganda, pubblicità e, non ultimo, di intelligence. Fra tante suggestioni, ci pare di avere capito che aderire a un social network facendosi precedere dal proprio “profilo” è un po’ come andare in piazza e mostrarsi con il vestito che ci pare più adatto. A qualcuno sembreremo belli, ad altri appariremo ridicoli e questi giudizi dedotti dalla nostra esteriorità alimenteranno la nostra notorietà; mentre al lato privato provvederanno rapporti più rari e intimi, magari frutto di spunti nati in rete, ma non esauribili nella comoda relazionalità che questa consente. Tutto sommato non ci pare di essere in presenza di rischi drammatici solo perché la piazza del paese si è allargata a dismisura.
Più intrigante ci pare il lato dei soldi. Sul web si stanno confrontando infatti due concezioni circa il modo di ottenere ricavi dalla pubblicità. Quella più simile all’antico modello di business dei mass media è praticata da Facebook, un colossale profilatore di target grazie al possesso dei profili auto redatti dagli iscritti. A quelli piace il rock, a quegli altri la disco music, c’è chi abita nel paesello e chi nella grande città, di qua i laureati di là i meno istruiti, da una parte i gay dall’altra i seguaci del bunga bunga....
Ogni prodotto o servizio può ritagliarsi con l’aiuto di Facebook il pezzo di società a cui gli pare più utile offrirsi. Messo così Fb ci sembra omogeneo alla società che più conosciamo, quella della tv di Cologno Monzese, anche se potrà contenderle la pubblicità di inserzionisti minori che puntano al target ristretto e vogliono sfuggire ai costi del classico spot teletrasmesso. Il risultato di fatturato ad oggi sembra essere di un paio di miliardi di dollari l’anno. Rispettabile, ma contenuto se si pensa alla rilevanza sociale che Facebook ha assunto.
Più innovativa, invece, è l’idea di Google.
Chi acquista pubblicità su Google sa che la sua offerta non verrà diffusa a un target prestabilito, ma che sarà visto da singoli individui le cui ricerche fanno supporre una potenziale attenzione a quel che l’inserzionista intende offrire. Tant’è che Google otterrà il suo ricavo solo se l’utente avrà effettivamente clickato sul minuscolo ads-esca e sarà entrato a vedersi la pubblicità vera e propria. Così, con pochi soldi, ogni aspirante venditore può sperare di ottenere qualche click di attenzione. Con questo servizio Google ha raggiunto in pochi anni 29 miliardi di dollari di fatturato stracciando qualunque altro motore di ricerca, segno, a nostro parere, dell’aver costruito una opportunità davvero nuova, e forse la prima davvero bilaterale, per realizzare l’incontro tra domande e offerte. Per capirci: la marea di pubblicità che gli oligopoli del detersivo, del dolciume, del detersivo etc riversano negli schermi della tv serve ad occupare la domanda e funziona essenzialmente come barriera mediatica contro l’apparizione di eventuali concorrenti. Tant’è che quando a tener fuori i concorrenti ci pensa la crisi, la spesa per pubblicità è la prima ad essere tagliata (alla faccia delle chiacchiere sul fatto che invece proprio con la crisi servirebbe un po’ più di sollecitazione a spendere). Invece anche negli anni di crisi i ricavi di Google hanno continuato a crescere. C’è dunque, e Google lo ha interpretato, un bisogno socialmente diffuso, staremmo per dire “democratico”, di offrire agli altri quel che si ha da vendere.
L’idea che ci siamo fatta è che la disponibilità di un modello commerciale e relazionale così “su misura” sia un potente aiuto per una società dove siano più forti gli individui e contino meno oligopoli e corporazioni.
Detto questo, non ignoriamo i lati problematici della questione, che non riguardano tanto la privacy (anche se son queste le cose che rimbombano sui media) quanto le regole di disponibilità dei contenuti (fronte degli autori e degli editori) e quelle della tassazione sulle transazioni (fronte del fisco). Proprio per questo converrà schivare i dibattiti epocali e cercare invece di spremere più sugo possibile da questi frutti della rete.
Poi Report con l’inchiesta su Facebook, Google e affini ha spiegato che gli utenti del web sono il prodotto che viene venduto per fini di propaganda, pubblicità e, non ultimo, di intelligence. Fra tante suggestioni, ci pare di avere capito che aderire a un social network facendosi precedere dal proprio “profilo” è un po’ come andare in piazza e mostrarsi con il vestito che ci pare più adatto. A qualcuno sembreremo belli, ad altri appariremo ridicoli e questi giudizi dedotti dalla nostra esteriorità alimenteranno la nostra notorietà; mentre al lato privato provvederanno rapporti più rari e intimi, magari frutto di spunti nati in rete, ma non esauribili nella comoda relazionalità che questa consente. Tutto sommato non ci pare di essere in presenza di rischi drammatici solo perché la piazza del paese si è allargata a dismisura.
Più intrigante ci pare il lato dei soldi. Sul web si stanno confrontando infatti due concezioni circa il modo di ottenere ricavi dalla pubblicità. Quella più simile all’antico modello di business dei mass media è praticata da Facebook, un colossale profilatore di target grazie al possesso dei profili auto redatti dagli iscritti. A quelli piace il rock, a quegli altri la disco music, c’è chi abita nel paesello e chi nella grande città, di qua i laureati di là i meno istruiti, da una parte i gay dall’altra i seguaci del bunga bunga....
Ogni prodotto o servizio può ritagliarsi con l’aiuto di Facebook il pezzo di società a cui gli pare più utile offrirsi. Messo così Fb ci sembra omogeneo alla società che più conosciamo, quella della tv di Cologno Monzese, anche se potrà contenderle la pubblicità di inserzionisti minori che puntano al target ristretto e vogliono sfuggire ai costi del classico spot teletrasmesso. Il risultato di fatturato ad oggi sembra essere di un paio di miliardi di dollari l’anno. Rispettabile, ma contenuto se si pensa alla rilevanza sociale che Facebook ha assunto.
Più innovativa, invece, è l’idea di Google.
Chi acquista pubblicità su Google sa che la sua offerta non verrà diffusa a un target prestabilito, ma che sarà visto da singoli individui le cui ricerche fanno supporre una potenziale attenzione a quel che l’inserzionista intende offrire. Tant’è che Google otterrà il suo ricavo solo se l’utente avrà effettivamente clickato sul minuscolo ads-esca e sarà entrato a vedersi la pubblicità vera e propria. Così, con pochi soldi, ogni aspirante venditore può sperare di ottenere qualche click di attenzione. Con questo servizio Google ha raggiunto in pochi anni 29 miliardi di dollari di fatturato stracciando qualunque altro motore di ricerca, segno, a nostro parere, dell’aver costruito una opportunità davvero nuova, e forse la prima davvero bilaterale, per realizzare l’incontro tra domande e offerte. Per capirci: la marea di pubblicità che gli oligopoli del detersivo, del dolciume, del detersivo etc riversano negli schermi della tv serve ad occupare la domanda e funziona essenzialmente come barriera mediatica contro l’apparizione di eventuali concorrenti. Tant’è che quando a tener fuori i concorrenti ci pensa la crisi, la spesa per pubblicità è la prima ad essere tagliata (alla faccia delle chiacchiere sul fatto che invece proprio con la crisi servirebbe un po’ più di sollecitazione a spendere). Invece anche negli anni di crisi i ricavi di Google hanno continuato a crescere. C’è dunque, e Google lo ha interpretato, un bisogno socialmente diffuso, staremmo per dire “democratico”, di offrire agli altri quel che si ha da vendere.
L’idea che ci siamo fatta è che la disponibilità di un modello commerciale e relazionale così “su misura” sia un potente aiuto per una società dove siano più forti gli individui e contino meno oligopoli e corporazioni.
Detto questo, non ignoriamo i lati problematici della questione, che non riguardano tanto la privacy (anche se son queste le cose che rimbombano sui media) quanto le regole di disponibilità dei contenuti (fronte degli autori e degli editori) e quelle della tassazione sulle transazioni (fronte del fisco). Proprio per questo converrà schivare i dibattiti epocali e cercare invece di spremere più sugo possibile da questi frutti della rete.
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