[IL Sole24Ore 16/04/2010] «I social media hanno inciso molto sulla facilità di costruzione ma anche di attacco del brand. E possono essere una minaccia per chi possiede una posizione dominante sul mercato: basta guardare alle primarie democratiche tra Obama e Clinton». John Deighton, trustee del Marketing Science Institute e Director del Berkman Center for Internet and Society della Harvard University, è un punto di riferimento mondiale per gli studi sul comportamento dei consumatori e di interactive marketing. Al Global Business Summit in programma il 17 e 18 maggio nella sede del Sole 24 Ore, sarà chiamato a parlare dell'emergere dei social network come "disruptive media".
Twitter, che da anni sperimenta progetti per finanziarsi, ha aperto da pochi giorni alle inserzioni commerciali, "promoted tweets" in 140 caratteri. Molti utenti storcono il naso, e qualche digital marketing manager già commenta: «Non mi piacerebbe essere una presenza indesiderata».
Il marketing pubblicitario ne testerà l'efficacia. "Promoted tweets" non rappresenta una novità così importante per la pubblicità online, ci sono percorsi più efficaci per raggiungere i consumatori. Si tratta certo di un metodo intrusivo, gli annunci che appaiono su Twitter non sono ben accetti dagli utenti, ma qualcuno deve pur pagare per il servizio del quale usufruiamo da un paio d'anni. E poi altri social media come Facebook sono in grado di offrire una migliore segmentazione, perché gli utenti vi gestiscono un profilo più completo che su Twitter. Insomma, questo passo è necessario per il microblogging, ma non porta un cambiamento significativo nel panorama dell'advertising.
Facebook conta oltre 400 milioni di utenti nel mondo e prima del 2004 non esisteva. Oggi la gente acconsente che su questo genere di social network siano divulgati grossi volumi di informazioni personali. La linea tra pubblico e privato si assottiglia. Cosa comporta la cultura digitale per il futuro della privacy?
Usando i social media gli utenti ci dicono che la privacy non è importante, ne rifiutano l'idea. D'altra parte 200 anni fa non avevamo privacy, vivevamo in piccoli villaggi, l'uno sotto gli occhi dell'altro. La nozione di privacy alla quale siamo giunti è un concetto che si è sviluppato solo negli ultimi due secoli, niente rispetto ai milioni di anni di vita sul pianeta. Credo che senza privacy vivremmo molto bene: stiamo tornando al sistema di vita del villaggio, anche se molto più grande.
Con i social media come MySpace, Facebook, YouTube, «il brand marketing – lei ha detto – diventa difficile quanto la politica totalitaria». Perché?
Prima che arrivassero i social media e gli strumenti come Youtube, la pubblicità non si concedeva alla "cooperazione", i consumatori non potevano rispondere. Oggi invece i consumatori reagiscono, ribattono, e il messaggio pubblicitario viene costruito sul loro contributo di humor e parodia.
Molte comunicazioni su YouTube sono create dall'immaginazione dei consumatori e hanno un'audience più vasta di quella generata dalla pubblicità classica.
Quale influenza hanno realmente i social network sul comportamento dei consumatori?
I brands devono mostrarsi trasparenti, onesti e sinceri. I consumatori puniscono quelli che si dimostrano invasivi, disonesti, e sono in grado di far emergere i piccoli brand, prima svantaggiati. Rispetto al passato credo che oggi ci sia più uniformità. Il mercato è meno imparziale tra i brand "rivoltosi" e i grandi brand, che non esercitano più sui mass media il dominio di un tempo.
Lei ha detto che i brand, più che parlare, vengono "discussi". Ma come si difendono i consumatori dalle intrusioni del marketing?
In realtà hanno gli strumenti per sfuggire all'advertising. Ci sono sistemi per evitare gli avvisi pubblicitari durante i programmi, il telemarketing o le telefonate a casa. Dove il marketing si mostra troppo invasivo, lì si presenta un'occasione per la tecnologia. Penso che le applicazioni sull'iPhone siano un esempio di come si possa dare potere ai consumatori: uso ciò che voglio e non ricevo comunicazioni indesiderate.
Quindi guarda con favore alla piattaforma per la pubblicità annunciata da Steve Jobs?
Penso sia una buona idea, dal punto di vista dell'utente. Ma rende difficile al marketing trovare nuovi consumatori. L'inclinazione naturale della pubblicità è essere invasiva, poter essere ricevuta anche da chi non vorrebbe, perché è l'unico modo per portare le notizie al cliente. Con la moltiplicazione degli strumenti che consentono di rifiutare la pubblicità, per il marketing la sfida si fa più dura.
Quale influenza hanno i social network sulle campagne di costruzione del brand?
Internet e i social media hanno inciso molto sulla facilità di costruzione ma anche di attacco del brand. Dalle pagine dei fan su Facebook a quelle di importanti community, ci sono diversi esempi. Interessante è quello della squadra di calcio del Manchester United, uno dei più solidi brand nel mondo dello sport. Ad alcuni fan non piace come viene interpretata l'autorevolezza, l"onore" del club: si sviluppa così un movimento che punta a prendere il controllo del brand e che raccoglie tanta gente. Come? Con l'aiuto delle tecnologie dei social network.
Qual è il social media vincente? Dobbiamo aspettarci una battaglia tra Facebook e Google, due giganti che combattono per diventare il nostro profilo sociale di default?
Il tempo totale speso dagli utenti su Facebook è maggiore di quello su Google. Ma Facebook ha difficoltà a "vendere" quel tempo, e le entrate di Google sono ovviamente maggiori. Facebook sta ancora crescendo e forse rappresenta un ottimo terreno per la pubblicità. Lo è di sicuro quello dei motori di ricerca, che vengono interrogati per cercare un prodotto o un'informazione. Mentre invece quando usiamo Facebook, lo facciamo per parlare con i nostri amici: abbiamo un diverso stato mentale.
In un futuro prossimo i social media saranno intermediari nel processo di acquisto?
Sono scettico: non è chiaro perché l'acquisto debba essere un'attività sociale. È ovvio che compriamo molti prodotti perché lo fanno i nostri amici, o per lo status. Ma l'idea che si proceda insieme, che tutti comprino la stessa cosa, è stata sperimentata su Internet negli scorsi 10 o 15 anni, senza successo.
Il marketing diretto, interattivo, sta cambiando il panorama in diversi modi e a diversi livelli. Perché la sfida "Obama versus Clinton" da lei analizzata è paradigmatica del potere di questo marketing diretto?
Tra il gennaio e il marzo 2007 abbiamo assistito a una prova del potere di Internet. Il punto non è come Barack Obama abbia vinto le elezioni ma come, sconosciuto, sia potuto diventare un serio contendente per la nomination democratica. Sotto molti aspetti non aveva le qualifiche per diventare un candidato presidenziale. È stato senatore per meno di un turno, e non aveva un'esperienza politica nazionale paragonabile a quella di John F. Kennedy, al quale pure è stato equiparato per la giovane età. Obama non aveva una visibilità nazionale, ma è stato bravo a mobilitare gruppi di sostenitori appassionati: un'organizzazione che in politica non sarebbe mai stata possibile prima.
Avrebbe potuto farlo anche Hillary Clinton?
Clinton non poteva usare i social media alla stessa maniera di Obama. Doveva mantenere una certa dignità, la propria posizione di ex first lady che ha abitato alla Casa Bianca per otto anni. Un ruolo poco flessibile e nel quale è rimasta intrappolata. Come un brand dominante sotto attacco di uno emergente.
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